Il piano di Trump, tra guerra dei dazi e ipnocrazia
Per comprendere quale sia il piano strategico della Presidenza Trump bisogna partire dai dati economici USA: nel 2024 il deficit federale è stato pari a circa 1,8 trilioni, il disavanzo commerciale ha superato i 3 trilioni e la posizione finanziaria netta negativa pari a 22 trilioni di dollari.
Nello stesso periodo, il fisco ha incassato solo 77 miliardi di dollari in dazi, una cifra praticamente incomparabile con i 600 miliardi di dollari che vengono ipotizzati da Trump nella sua nuova World War Fee (WWF, copyright by New York Post). Certo, a parte la Cina e i dazi su settori come l’acciaio “et similia”, adesso siamo in un mondo sospeso a 90 giorni dove i dazi globali rimangono “solo” al 10%. Della serie, quanto è buono Trump, o come ha dichiarato lui stesso, quanto è stato “gentile” nel trattare gli scorrettissimi partner commerciali.

Ma ecco come potrebbe delinearsi il piano strategico di “ipnocrazia” del Presidente, in cui la leva negoziale va solo a vantaggio dell’attuale Amministrazione. Perché quello di cui non ci rendiamo bene conto è che anche solo il 10% di dazi per tutti è già tantissimo: le importazioni USA del 2024 sono pari a circa 4.100 miliardi di dollari complessivi, ovvero a 410 miliardi di dollari di dazi. Se ci mettiamo anche quelli alla Cina (145%) e i settoriali (25%), i 600 miliardi di dollari ipotizzati diventano realtà.
Ma anche questi dazi non sarebbero sufficienti a coprire il deficit federale. Trump ha inoltre detto che vuole rifinanziare il taglio delle tasse che aveva lui stesso varato con il Tax Cuts and Jobs Act nel 2017 (circa 450 miliardi di dollari all’anno che sono stati mantenuti da Biden e che scadono il 31 dicembre 2025). A cui vanno aggiunte le riduzioni fiscali promesse in campagna elettorale per azzerare (si dice) le tasse a tutti quelli che guadagnano meno di 150mila dollari; operazione da fare prima delle elezioni di Midterm (novembre 2026). Ecco che inizia ad emergere lo schema di fondo del piano: smettere di tassare gli americani per tassare (i dazi sono tasse) il resto del mondo sfruttando l’”eccezionalismo” economico, finanziario e militare americano.
Anche per questo non va dimenticato che è appena passata alla Camera (era stata approvata qualche giorno prima al Senato) la risoluzione di bilancio, che non è la legge di bilancio definitiva ma, in modo abbastanza simile al nostro DEF, include le linee guida di spesa fino al 31 dicembre 2025, aprendo la strada al futuro piano di bilancio 2026 che includerà anche le richieste dal Presidente.
La nuova risoluzione di bilancio è una grande vittoria per la Casa Bianca anche se le versioni approvate dalla Camera e dal Senato differiscono – deliberatamente, perché in questo modo la maggioranza repubblicana ha evitato il “filibustering”, ovvero l’ostruzionismo della minoranza – e andranno dunque riallineate. Al momento la legge della Camera prevede solo 1.500 miliardi di dollari di tagli alla spesa in dieci anni e consente 4mila miliardi di dollari di tagli fiscali, con la possibilità di aumentare i tagli se necessario. La versione del Senato propone, invece, 4mila miliardi di dollari di tagli alla spesa e oltre 5mila miliardi di dollari di tagli fiscali, lasciando spazio per ulteriori riduzioni future.
Inizia ad essere molto più chiaro il perimetro e l’orizzonte delle mosse del 47^ Presidente USA: ridurre drasticamente le tasse, vincere le elezioni di Midterm e molte elezioni degli Stati federali per, dicono insider ben informati, modificare la Costituzione ed eliminare il vincolo dei due mandati presidenziali (che prima dell’introduzione del XXII Emendamento nel 1951 era solo una tradizione consolidata). Per raggiungere questo scopo, serve il voto positivo dei due terzi di Camera e Senato e il 75% degli Stati federali (39 su 50). 27 sono già nelle mani dei Repubblicani. Tra il 2026 e il 2027 si rinnovano i Governatori di 39 Stati federali, più il District of Columbia (la capitale Washington), più 3 territori.
E’ allora per questi motivi strategici che una vera partita rispetto alla “WWF” trumpiana si può giocare solo sul terreno del debito pubblico USA. A fine 2024 ammontava a 36,2 trilioni di dollari. Di questi, 8,5 trilioni di dollari (più del 30%) sono in mano a soggetti esteri, di cui il 45% è rappresentato da entità governative e banche centrali. Cina (759) e Giappone fanno la parte del leone, ma se si sommano gli investitori si arriva a 1.600 miliardi di dollari, che diventano 2.700 se si aggiungono i Paesi europei non UE.
Si tratta dei famosi Treasuries Bond (l’equivalente dei nostri BTP) che, con l’aumento repentino degli spread (ovvero più interessi da pagare) e il contestuale calo dei prezzi avvenuto qualche giorno fa, hanno probabilmente spaventato l’amministrazione Trump convincendola a smussare l’impatto dei dazi annunciati nel Liberation Day.
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D’altra parte, i mercati finanziari sono una componente fondamentale del sistema. Quando si tratta di negoziare sulla linea di confine tra ciò che è realistico e ciò che non lo è, i mercati finanziari hanno quasi sempre il diritto alla prima e all’ultima parola: il ruolo di valuta di riserva, lo spread del T-Bond, il prezzo del petrolio e delle materie prime che si regolano in dollari, le quotazioni dei principali debitori governativi insegnano tanto.
In questo senso va letto il fortissimo “segnale” negativo che, come dicevamo, la grande finanza di Wall Street ha inviato nei giorni scorsi alla Presidenza USA rispetto all’appetibilità dei titoli del debito statunitense. Tutti hanno ipotizzato la lunga mano cinese ma, se si guardano i flussi di vendita e si leggono controluce le dichiarazioni dei leader finanziari, si capisce subito da chi è venuto il colpo.
Nel frattempo, a causa dell’incertezza, le quotazioni azionarie sono in calo a livello globale con il rischio che, in particolare in USA, si sgonfi la bolla nei titoli delle Big Tech sostenuta dagli investimenti dei grandi fondi finora fiduciosi sugli sviluppi dell’IA. Anche per questo un ulteriore versante del piano della Presidenza Trump è quello di raggiungere una profonda deregulation, sia bancaria che tecnologica, che mantenga stabile il flusso di capitali verso Wall Street. Trump ha minimizzato l’impatto dei ribassi sui mercati, ma non ha escluso una recessione per quanto temporanea e finalizzata alla sua nuova Golden Age. Cosa stranissima per un Presidente appena insediato.
Intanto, ulteriore incertezza viene generata, in questa guerra mondiale commerciale, dalle risposte di Canada, Messico, Giappone e UE. Oltre a quelle già durissime della Cina. Trump, nel finalizzare le proprie ambizioni, dovrà essere molto attento al tema del dollaro come valuta di riserva e, soprattutto, ai vantaggi in termini di costi della manifattura cinese per non causare inflazione e un successivo rialzo dei tassi d’interesse. È vero che l’inflazione scende ma ancora, come sappiamo, non si è visto l’effetto dei dazi, che tendono ad aumentare i prezzi e a ridurre i volumi.
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In questa logica complessiva, va letta anche la politica aggressiva verso la UE che mira a indebolire l’euro e a continuare ad attrarre il risparmio europeo verso il debito USA. Così come sarebbe importante per gli Washington tenere alti i prezzi del petrolio (per far stare al livello di break even i produttori di shale oil che sotto i 65 dollari vanno in crisi) e i prezzi del gas, perché la bilancia commerciale verso la UE ne trarrebbe notevoli benefici in termini di esportazione di GNL. Emerge qui un altro lato strategico del piano di Trump da mettere a fuoco: mantenere buoni rapporti con la Russia, soggetto che ha un peso determinante nel tenere alto il prezzo dell’energia a livello globale quando non lo svende a basso costo facendo shadow trading per evitare le sanzioni occidentali.
Ecco perché, ancora una volta, il debito USA rimane l’unica leva (come sappiamo bene noi italiani) che i grandi player governativi e di mercato hanno per influenzare un piano che non è economico ma politico/strategico. Tutti gli altri obiettivi (la correzione del deficit, il rallentamento della crescita del debito, la correzione dello squilibrio della bilancia commerciale e la re-industrializzazione) sono importanti ma secondari per l’Amministrazione Trump.
Certo, da osservatori terzi, sappiamo che i timori di una possibile recessione, il rischio di perdita della centralità del dollaro, le risposte della Cina e degli altri Paesi, la tassazione di Big Tech e Big Bank americane e le possibili svalutazioni competitive di yuan ed euro nonché l’avvento dei loro “gemelli digitali” (progetti in cantiere), potrebbero rappresentare ostacoli importanti a questo piano strategico. E crediamo che anche l’attuale Presidenza sia consapevole di questi scenari e dei relativi rischi.
Ma dobbiamo comunque essere consapevoli che il loro mantra è uno solo: non succede, ma se succede…