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Breve storia della Fed

Questo articolo è pubblicato sul numero 2-2025 di Aspenia

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La lunga storia della Fed si può riepilogare con un epigramma: fu l’ultima banca centrale ad arrivare, ma si trovò a diventare la prima.

 

L’atto di nascita ufficiale della Federal Reserve fu registrato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1913, quando ormai le banche centrali erano un’istituzione consolidata in Europa. L’approvazione del Federal Reserve Act dotava gli Stati Uniti – storicamente avversi all’idea – di una banca centrale per la terza volta. Con quell’intervento legislativo, la Fed “riuniva” al suo interno le sue “proprietarie”, che oggi sono rappresentate dalle 12 banche distrettuali che compongono il Federal Reserve System.

Questo “sistema” – insieme centralizzato e decentralizzato – fu creato dopo una lunga riflessione iniziata in seguito al panico del 1907. Era stata una delle peggiori crisi finanziarie fino ad allora registrata negli USA, e convinse i banchieri e i politici della necessità di dotarsi di un soggetto capace di generare fiducia in un paese che si avviava a grandi passi verso uno sviluppo sempre più impetuoso e quindi molto volatile.

Uno degli edifici principali della FED in una foto del 1937

 

UNA SITUAZIONE CONFUSA. La situazione finanziaria negli USA nel XIX secolo, infatti, era stata molto confusa. Un esempio: nell’era del Free Banking, ossia di libera emissione della moneta da parte degli istituti bancari (tra il 1837 e il 1862), si calcola esistessero circa 7.000 tipi di banconote. Questo periodo si concluse con il National Banks Act del 1863-64, con il quale il governo federale si fece carico dell’emissione di cartamoneta garantita da titoli del Tesoro e nacquero le banche nazionali. Ma solo dopo molti anni si fondò, appunto, una banca centrale.

L’impianto della Fed è stato discusso per la prima volta in un celebre meeting, al quale parteciparono alcuni politici e banchieri dell’epoca: si tenne nel 1910 in un’isoletta al largo della Georgia, Jekyll Island. Si era compresa l’esigenza di superare una gestione della finanza, e quindi anche della moneta, dove il buon senso di pochi doveva confrontarsi con quella che molti decenni dopo proprio uno dei governatori della Fed, Alan Greenspan, avrebbe definito l’“esuberanza irrazionale” di moltissimi. La lunga storia della Fed comincia proprio con questa presa di coscienza, cui seguì, alcuni decenni dopo, l’idea che fosse necessario affermare l’indipendenza della banca centrale dal governo. Una teoria, diventata, nella seconda parte del secolo XX, una pratica diffusa nelle principali economie avanzate.

L’importanza di mantenere l’indipendenza dal Tesoro, tuttavia, si iniziò a comprendere già all’indomani del secondo dopoguerra. E fu proprio la Fed a fornirne un esempio eclatante.

Diverse emissioni di dollari americani nell’era del Free Banking

 

L’IMPORTANZA DELL’INDIPENDENZA. Nel 1951, infatti, Fed e Tesoro siglarono un’intesa che restituiva alla banca centrale alcune prerogative che erano state accantonate dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. Le profonde difficoltà dell’economia e i disordini finanziari internazionali provocarono infatti, nel 1933, una grave crisi bancaria che costrinse il neopresidente Franklin Delano Roosevelt a decidere un “bank holiday” e, a seguire, a proclamare l’Emergency Banking Act per bloccare i notevoli deflussi d’oro dalla banca centrale. All’epoca, vigeva il regime del gold standard e l’oro, di fatto, era la base monetaria di un paese. Un costante deflusso d’oro equivaleva a una restrizione del credito, in un momento già segnato da deflazione e disoccupazione.

Neanche quello bastò. Un mese dopo il governo sospese l’adesione al gold standard e proibì la conversione di dollari in oro, nonché le esportazioni di metallo prezioso. Questa decisione fu preceduta da un ordine esecutivo presidenziale che obbligò tutti gli americani a consegnare alla Fed e alle banche federali, dietro pagamento di corrispettivo, tutto l’oro in loro possesso a pena di multe salatissime, sempre allo scopo di impedire qualsiasi possibilità di deflussi aurei all’estero.

Pochi mesi dopo – il 30 gennaio del 1934, con il Gold Reserve Act – tutto l’oro americano custodito dal sistema della Fed fu trasferito al Tesoro. Con lo stesso atto, il Tesoro affidò a un suo organismo tecnico, L’Exchange Stabilization Fund, la gestione delle operazioni di mercato aperto su oro e valute. Il Fondo agiva in totale autonomia dalla Fed, ormai privata di oro e molte funzioni.

Un altro passo importante fu compiuto negli anni Quaranta, con l’ingresso nel conflitto mondiale, quando la Fed mise a disposizione del governo il proprio bilancio. Nell’aprile del 1942, infatti, la banca centrale annunciò che avrebbe sostenuto il prezzo dei bond pubblici, mantenendo al di sotto dell’1% il tasso per i titoli a breve termine e al 2,5% per quelli a lungo termine. Ne derivò un massiccio acquisto di titoli pubblici, motivato dalla necessità di tenere i tassi fermi. Questo consentì al governo di finanziare lo sforzo bellico. All’aumento del bilancio della Fed corrispose un aumento della base monetaria del 149%, nel periodo fra l’agosto del 1939 e l’agosto del 1948.

 

FED VS TESORO. Fu in queste condizioni che si arrivò all’accordo del 1951 fra Fed e Tesoro che restituì alla banca l’autonomia perduta sulla politica monetaria. Una scelta praticamente obbligata, visto che nei primi mesi di quell’anno, prima dell’accordo, l’inflazione dei prezzi al consumo aveva raggiunto il 21%.

Ma non era una scelta scontata: il governo non aveva nessuna intenzione di mollare i cordoni della borsa della Fed, tanto più mentre si stava combattendo la guerra di Corea. Sia il presidente Truman che il segretario al Tesoro, John Snyder, insistevano sull’importanza di tenere i tassi bassi anche per mantenere il valore dei titoli già emessi, malgrado la Fed, all’epoca guidata da Thomas B. McCabe, provasse già da diversi mesi a opporsi.

Il culmine del confronto si raggiunse quando Truman invitò l’intero Federal Open Market Committee (l’organo deputato alla gestione della politica monetaria) alla Casa Bianca per una riunione operativa. Al termine della riunione, il presidente dichiarò pubblicamente che il FOMC si era impegnato a mantenere le politiche monetarie invariate finché fosse durata l’emergenza.

Tale dichiarazione fu smentita clamorosamente quando un banchiere della Fed di lungo corso, componente del FOMC, Marriner S. Eccles, fece pubblicare sulla stampa, senza informare gli altri componenti del Committee, il verbale del FOMC, che contraddiceva le dichiarazioni di Truman.

La bufera che ne seguì condusse all’accordo del 4 marzo 1951, che fu accompagnato da una dichiarazione comune di Tesoro e Fed nella quale le parti riportavano di aver raggiunto un’intesa sulla gestione del debito. E così fu. Ma ci furono alcune conseguenze.

La prima diventò immediatamente visibile il 2 aprile dello stesso anno, quando l’amministrazione Truman scelse come nuovo governatore della Fed (Chairman of the Federal Reserve Board) William McChesney Martin Jr. Fino a quel momento Martin aveva lavorato come assistente segretario al Tesoro, svolgendo un ruolo di primo piano proprio nella redazione dell’accordo di marzo. Un preciso segnale politico.

D’altronde, la tentazione del governo di poter disporre delle leve di controllo della moneta è antica come l’economia, mentre la soluzione razionale che consente di mantenere la fiducia nelle emissioni monetarie – ossia l’indipendenza della banca emittente dal Tesoro – è assai più recente.

I banchieri centrali solo da pochi decenni hanno imparato a resistere, in qualche modo, alle pressioni dei governanti che pensano di aver trovato nel bilancio della banca centrale la panacea per i loro bisogni fiscali. Illusione pericolosa, perché nulla vi è di più fragile della fiducia, ossia ciò che conferisce valore alla moneta, in un ambiente valutario totalmente scollegato da qualsiasi collaterale merceologico.

Questo spiega perché le banche centrali siano riuscite a vincere la guerra ultradecennale contro l’inflazione che affliggeva le economie avanzate del secondo dopoguerra. E la mossa decisiva in questa lotta al carovita – che oggi sembra essere di nuovo tornata attuale – fu proprio la Fed a farla, alla fine dei terribili anni Settanta, portando i tassi di interesse a livelli mai osservati prima.

All’inizio del 1981 il tasso sui fondi federali (Federal funds effective rate) sfiorò il massimo storico del 20%. Ancora nell’aprile 1982 il tasso si aggirava intorno al 15% e soltanto a ottobre scese sotto il 10%, per poi tornare a superare l’11% nell’estate del 1984. I tassi rimasero sostenuti fino a tutti gli anni Ottanta e solo dall’aprile del 1989, quando il tasso tornò a sfiorare il 10%, iniziò una graduale normalizzazione che condusse i tassi sotto il 3% per un breve periodo alla fine del 1992.

 

LA PRIMA BANCA CENTRALE DEL MONDO A ECONOMIA AVANZATA. La cura da cavallo che l’allora governatore della Fed, Paul Volcker, in carica fra l’estate del 1979 e quella del 1987, impose al suo paese si trasmise con impressionante rapidità anche alle altre economie avanzate. In quei primi anni Ottanta, grazie anche alla crescente liberalizzazione dei flussi di capitale, si comprese pienamente che ormai la Fed non era più solo la banca centrale americana. La sua influenza, riflesso del peso specifico dell’economia americana e soprattutto del fatto che la banca gestiva la moneta più usata nell’economia internazionale, si estendeva ben oltre i confini degli oceani. La Fed era la prima banca centrale del mondo a economia avanzata.

Questa consapevolezza si è approfondita nel tempo e ha generato un ecosistema di banche centrali che con la Fed – controparte di numerosi accordi di “swap valutari” – si confronta continuamente. Perciò, quando si discute di Fed si parla in effetti di un sistema di relazioni globali, basato sulla fiducia, che sostiene la credibilità della moneta internazionale di fatto, se non di diritto. Chi gioca con la Fed, gioca col fuoco.

 

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Per giunta, oggi, chi gioca con la Fed lo fa in un momento di grande complessità per la banca centrale americana. Il suo doppio mandato – controllo dell’inflazione e sostegno dell’occupazione – rischia di generare un pericoloso corto circuito nel momento in cui la crescita dovesse rallentare nettamente e i prezzi dovessero salire in modo sensibile. A cosa dare priorità? A quale obiettivo tra i due?

Il presidente della Fed Jerome Powell (JPow)

 

IL DILEMMA ATTUALE. Un dilemma difficile, ma sicuramente la Fed ha visto di peggio nel corso della sua lunga storia, in contesti istituzionali anche più complicati di quello attuale. Praticamente all’indomani della fondazione, la banca si è trovata ad affrontare la prima guerra mondiale. Poi la Grande Depressione, poi un’altra guerra, poi l’inflazione e insieme la guerra fredda. Poi la crisi degli anni Settanta, dopo la fine della convertibilità in oro del dollaro, e poi ancora l’inflazione. È poi seguita la fase della “Grande Moderazione”, negli anni Novanta, quando l’economia americana cresceva a un ritmo soddisfacente e con l’inflazione sotto controllo. Quell’epoca è terminata con la bolla di internet che ha riportato i tassi Fed sull’ottovolante, inaugurando i primi esperimenti di politiche monetarie a tassi vicino a zero, precursori del quantitative easing.

La Fed iniziò ad avvicinare i tassi allo zero dopo la crisi del 2008, arrivando allo 0,16 a dicembre di quell’anno. Sette anni dopo, nel 2015, stavano ancora lì. Sono risaliti brevemente fra il 2016 e il 2019, superando di poco il 2%, per poi tornare vicini allo zero dall’inizio della pandemia fino ai primi mesi del 2022. Inoltre, i bilanci di molte banche centrali – Fed in testa – sono imbottite di debito pubblico, come ai tempi della guerra mondiale.

Il punto chiave non è però il tasso di interesse del momento, legato a fattori ciclici e/o strutturali: è la fiducia che queste politiche siano una scelta autonoma della banca, che usa il suo prestigio per convincere i mercati. Non una volontà del governo. Smettere di crederci significa disancorare le aspettative dei mercati.

 

 


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