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L’Afghanistan dopo il ritiro USA, uno Stato senza Stato

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Il 15 agosto 2021 i Talebani rientrano a Kabul dopo vent’anni di guerra. Il governo della “Repubblica Islamica” istituita sotto il controllo americano si dissolve in pochi giorni. Il presidente Ashraf Ghani (di etnia Pashtun) fugge, l’esercito si sfalda e l’intero apparato statale collassa. Il 7 settembre 2021 viene proclamato ufficialmente l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, sotto la guida suprema di Hibatullah Akhundzada, figura religiosa sfuggente ma centrale, e del mullah Mohammad Hassan Akhund come capo del governo.

Il ministro della Difesa afghano Mullah Mohammad Yaqoob alla cerimonia del primo anniversario del ritorno dei Talebani al potere a Kabul, il 15 agosto 2022.

 

Tra restaurazione e frattura

A differenza degli anni Novanta, oggi i Talebani trovano un Paese profondamente trasformato. Circa il 70% della popolazione ha meno di 30 anni, e l’accesso diffuso agli smartphone ha favorito l’affermazione di una nuova generazione urbana, informata e globalizzata. Tuttavia, il potere rimane fortemente verticale, autoritario e religioso.

Intanto, l’Emirato promette stabilità e ordine, ma resta privo di riconoscimento internazionale e incapace di costruire un consenso interno duraturo. La retorica dei “Talebani 2.0” si infrange contro una realtà segnata dalla frammentazione politica, dalla marginalizzazione delle minoranze etniche e dall’impossibilità di esercitare un controllo uniforme sul territorio. La valle del Panjshir, ad esempio, rimane un bastione di opposizione simbolica e strategica, con l’eredità del leggendario Ahmad Shah Massoud raccolta dal figlio Ahmad, leader del Fronte di Resistenza Nazionale.

 

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Dopo il ritiro americano, il vuoto lasciato dalla coalizione occidentale non è stato colmato da un piano statale coerente. I Talebani si sono limitati a sostituire l’élite politica e militare precedente, rimpiazzandola con fedeli religiosi e veterani del movimento, ma senza un programma economico strutturato o una visione istituzionale inclusiva. Le istituzioni amministrative funzionano a rilento, il sistema giudiziario è dominato da tribunali religiosi e le donne sono escluse da larga parte della vita pubblica. Oltre sessanta università sono state chiuse o svuotate, e migliaia di giornalisti hanno abbandonato il Paese.

A livello diplomatico internazionale, l’Afghanistan è oggi uno degli Stati più isolati al mondo. Nessun governo ha riconosciuto formalmente l’Emirato, nemmeno i tradizionali alleati tattici come Russia, Cina o Iran. Il Qatar, unico canale diplomatico stabile, gestisce con discrezione i colloqui umanitari, mentre le Nazioni Unite mantengono una presenza sul territorio senza legittimare il regime. Il sistema di rappresentanza diplomatica è in stallo: gli ambasciatori della precedente repubblica sono spesso rimasti in carica, creando un dualismo istituzionale insoluto.

 

Economia: sanzioni, collasso e papavero

L’economia afgana è entrata in una fase di depressione strutturale. La sospensione degli aiuti internazionali, che rappresentavano prima circa il 40% del PIL, ha provocato il blocco di gran parte dei servizi pubblici. Il sistema bancario è paralizzato, il commercio si è ridotto e la disoccupazione ha raggiunto livelli record. Secondo l’ONU, l’Afghanistan è oggi tra i Paesi a più alto rischio di crisi alimentare nel mondo, con circa 23 milioni di persone che necessitano di assistenza umanitaria urgente.

La coltivazione dell’oppio, storicamente radicata nelle province meridionali come Helmand e Kandahar, ha rappresentato per anni l’unica fonte stabile di reddito per migliaia di famiglie. Ma nello scenario attuale, ha assunto tanta importanza da trasformare il Paese in un narcostato. Il controllo e il finanziamento delle economie illecite si intreccia infatti con il regime talebano, che ha utilizzato il narcotraffico come leva di potere interna e negoziazione internazionale.

Nel 2022, dopo l’annuncio del divieto da parte dell’Emirato, la produzione di oppio ha prima registrato un picco del 32%, seguito però nel 2023 da un crollo drammatico del 95%, con la superficie coltivata passata da 233.000 a soli 10.800 ettari (dati UNODC). Sebbene il divieto fosse presentato come un segnale di “buona volontà” verso la comunità internazionale, questo ha prodotto effetti ambigui: l’aumento dei prezzi ha alimentato il traffico illegale, mentre centinaia di migliaia di contadini si sono trovati senza alcuna alternativa economica reale, aggravando povertà e vulnerabilità in un contesto di crisi ambientale e sociale.

Una piantagione di oppio in Afghanistan

 

Instabilità regionale: il peso del vicinato

La nuova configurazione del potere a Kabul ha riscritto le dinamiche regionali. Il Pakistan, a lungo alleato strategico dei Talebani, vive oggi un rapporto contraddittorio con l’Emirato. Il confine tra i due Paesi, la Durand Line  mai riconosciuto ufficialmente dall’Afghanistan  è diventato teatro di scontri armati e chiusure intermittenti. L’escalation pashtun lungo il confine fa riferimento all’intensificarsi delle tensioni tra le comunità pashtun presenti su entrambi i lati della frontiera, soprattutto dopo che i Talebani hanno rafforzato la propria presenza nelle aree tribali. I pashtun, che costituiscono circa il 40-42% della popolazione afgana, sono il principale gruppo etnico del Paese e rappresentano anche la spina dorsale del movimento talebano, che nasce storicamente proprio tra le madrase pashtun del sud.

Questa forte identità etnico-tribale ha contribuito a rafforzare i legami tra i Talebani afghani e il Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), gruppo armato che si richiama alla stessa ideologia ma agisce contro lo Stato pakistano. Tale convergenza ha creato frizioni con Islamabad, tradizionalmente sponsor dei Talebani, ma oggi preoccupata per la crescente autonomia del movimento e per l’instabilità che genera lungo le sue aree tribali interne.

L’Iran, dal canto suo, ha rafforzato la presenza militare sul confine occidentale, soprattutto nella regione del Sistan-Belucistan, crocevia del traffico di droga. Le tensioni si sono acuite anche per la gestione delle acque del fiume Helmand, mentre lo scambio di fuoco tra le guardie di confine è ormai ricorrente. Nonostante ciò, Teheran mantiene canali diplomatici con l’Emirato, spinta dalla necessità di contenere il caos preveniente da oltre confine e prevenire flussi migratori incontrollati. Inoltre, l’Iran monitora con attenzione la crescita dell’influenza saudita e qatariota nel panorama afgano, che potrebbe alterare gli equilibri regionali.

Le repubbliche dell’Asia Centrale guardano con preoccupazione all’evoluzione afgana: temono flussi jihadisti, instabilità e traffici. Questi Stati, spesso fragili e dipendenti da Mosca e/o da Pechino per molte risorse strategiche, adottano strategie di contenimento che includono rafforzamenti militari lungo i confini e una cooperazione incrementata con Russia e Cina. La Cina, interessata ai corridoi energetici e ai giacimenti minerari, mantiene un profilo prudente: ha riaperto l’ambasciata, avviato colloqui commerciali, ma rifiuta il riconoscimento politico. Pechino punta a bilanciare gli interessi economici con la stabilità della Via della Seta, cercando di evitare coinvolgimenti diretti in conflitti che potrebbero compromettere le sue ambizioni regionali.

 

Resistenza

Sul piano interno, l’unica resistenza organizzata è rappresentata dal National Resistance Front (NRF) con base nella valle del Panjshir, guidato da Ahmad Massoud, figlio dello storico comandante Ahmad Shah Massoud. Il NRF si fonda in larga parte sull’eredità dell’ex Alleanza del Nord ed è composto prevalentemente da combattenti di etnia tagika, a differenza dei Talebani, che si identificano fortemente con il gruppo pashtun. Proprio questa componente etnico-regionale  i tagiki del nord-est contro i pashtun del sud  rafforza la dimensione identitaria della resistenza, ma al contempo ne limita la capacità di attrarre un consenso nazionale più ampio, rafforzando la percezione di una frattura settaria più che politica.

Dal punto di vista operativo, la capacità militare del NRF è modesta e le richieste di sostegno internazionale sono rimaste in gran parte ignorate, complici il nuovo equilibrio geopolitico e la riluttanza degli attori globali a intervenire in un’area così instabile.

Nel frattempo, la popolazione urbana, soprattutto a Kabul e Herat, mostra segnali crescenti di frustrazione. Il divieto di istruzione per le ragazze oltre il livello primario, la chiusura di università e media indipendenti, e le limitazioni crescenti alla mobilità femminile stanno alimentando un disagio sociale crescente, ma ancora non organizzato. In parallelo, la crisi economica ha portato a un aumento della povertà e a un’espansione dei mercati informali, mentre le ONG faticano a operare a causa delle restrizioni e del clima di incertezza

Il regime talebano sembra oggi più interessato alla sopravvivenza del suo sistema di potere che alla trasformazione del Paese. La sua principale leva negoziale – il controllo del narcotraffico – non basta a sbloccare le relazioni internazionali. Il rischio di implosione sociale, economica e territoriale resta alto, aggravato dall’incapacità di offrire un futuro a una popolazione giovane, povera e sempre più disillusa. Le tensioni tribali e la competizione interna tra fazioni talebane contribuiscono ulteriormente a minare la stabilità, mentre la carenza di risorse essenziali come cibo, energia e acqua peggiora la situazione.

Ahmad Massoud a Parigi

 

Riconoscimento

L’Afghanistan resta oggi un caso emblematico di “Stato non riconosciuto”, governato da un potere relativamente efficace ma privo di legittimità, sospeso tra sopravvivenza autoritaria e stallo geopolitico. Il tentativo di uscire dal modello del “narco-stato” è reale ma incompleto, perché privo di alternative economiche sostenibili e inserito in un contesto di crisi ambientale e istituzionale. Le catastrofi climatiche, come siccità e inondazioni ricorrenti, accentuano la vulnerabilità delle popolazioni rurali, già marginalizzate.

A un anno dalla terza Conferenza di Doha del giugno 2024, il processo di normalizzazione tra comunità internazionale e governo talebano procede in sordina, senza passi concreti né riconoscimento ufficiale. La partecipazione diretta dei Talebani, accettata a prezzo dell’esclusione dei diritti delle donne dal dibattito, ha segnato un precedente controverso. Le trattative sono state delegate alla Missione ONU in Afghanistan (Unama), che ha lanciato il “Piano Mosaico”: un approccio frammentato che privilegia accordi economici immediati, rimandando a un futuro indefinito le riforme sui diritti umani e la democrazia.

 

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Le organizzazioni per i diritti umani denunciano la strategia come una legittimazione de facto del regime, incapace di garantire diritti e sicurezza alla popolazione. Il vero nodo resta la discrepanza tra le richieste concrete dei Talebani e le ambigue promesse della comunità internazionale, mentre le voci di chi invoca un cambiamento reale vengono sistematicamente ignorate. In questo scenario, il ritiro militare completo da parte delle forze della coalizione internazionale ha fortemente ridotto la capacità di influenza esterna, lasciando il Paese alle sue fragili dinamiche interne e alla solitudine del suo isolamento geopolitico.