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Non solo Houthi: attorno al Mar Rosso una crisi multilivello

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Da dodici mesi l’attenzione internazionale è catturata dagli eventi tra Hamas e Israele e dalla guerra susseguente scoppiata nella Striscia di Gaza, che ha prodotto impatti diretti nell’intero Medio Oriente allargato. Anche per effetto di quello scenario innescato, oggi il Libano si candida a divenire il prossimo teatro di massima attenzione strategica globale. Tuttavia, tra i contesti di rilievo attivati nella regione annoveriamo sicuramente il Mar Rosso, la stretta via marittima che divide Asia e Africa e vede passare il 12% del commercio marittimo e il 30% del traffico container mondiale. Seppur sottostimato, questo quadrante terracqueo è in grado di produrre impatti geopolitici enormi, anche a livello trans-continentale, con un potenziale altrettanto notevole di rimodulazione delle dinamiche strategiche.

Gli Stati rivieraschi e altri attori coinvolti nello scenario del Mar Rosso

 

L’attacco degli Houthi

Il 19 ottobre 2023, la cacciatorpediniere statunitense USS Carney, in navigazione nel Mar Rosso settentrionale e operante in supporto alla portaerei USS Gerald Ford – lì schierata per rafforzare la forza di deterrenza americana dopo i fatti del 7 ottobre 2023 –, intercettava e abbatteva tre missili da crociera e una serie di droni d’attacco lanciati dallo Yemen verso il territorio israeliano. L’attacco fu rivendicato dalla milizia sciita zaydita degli Houthi e giustificato come un legittimo atto in funzione anti-israeliana e anti-occidentale nella guerra scoppiata nella Striscia di Gaza. L’episodio sembrava sporadico o comunque strettamente limitato a quel contesto, ma fu soltanto il preambolo del salto di qualità successivo. Il 19 novembre 2023, sempre gli Houthi avevano eli-assaltato e dirottato al largo dello Yemen la nave cargo norvegese Galaxy Leader. Da allora, il Mar Rosso e il Golfo di Aden hanno conosciuto una nuova eco internazionale. Una dimensione non nuova per l’area, già in passato colpita da fenomeni simili seppur legati a dinamiche differenti, come la pirateria somala (tra la fine dei Novanta e gli inizi degli anni Duemila) e alcune forme di attacchi marittimi durante una fase specifica della guerra civile yemenita (2020-2021).

Tuttavia, l’attacco al Galaxy Leader ha dato il via ad una campagna militare reiterata nel tempo, implementata nel lancio di centinaia di attacchi con droni e missili (antinave, da crociera e balistici) contro le imbarcazioni, civili e militari, per lo più occidentali, in transito o stazionamento nella sezione meridionale del Mar Rosso. Gli Houthi hanno giustificato quegli attacchi come azioni di supporto morale e simbolico alla causa palestinese (e perciò hanno mirato alle navi occidentali) e da quel momento hanno lanciato una escalation costante che avrebbe indotto gli europei e l’asse anglo-statunitense a portare due differenti missioni navali nell’area – rispettivamente “Aspides” e “Prosperity Guardian” – nel tentativo di ristabilire la deterrenza e ripristinare il normale traffico marittimo nell’area.

 

La risposta occidentale

Fatta questa premessa, si può comprendere meglio gli sviluppi successivi. Le operazioni “Aspides” e “Prosperity Guardian” sono state sì efficaci nel diminuire le capacità offensive degli Houthi, costringendo la milizia a cambiare profondamente la propria linea d’azione. Tuttavia, non sono state in grado di neutralizzarle, in quanto limitate a un’efficacia di breve periodo.

C’è anche il pericolo che le operazioni occidentali si trasformino, nel medio-lungo termine, in sforzi inefficaci, lunghi e costosi, paradossalmente, utili nel rafforzare la popolarità e la visibilità del gruppo in Yemen, nella Penisola Arabica e nella regione allargata (Medio Oriente e Corno d’Africa). Non a caso gli attori arabi (Egitto e Arabia Saudita su tutti) hanno mantenuto un approccio cauto, apparentemente dialogante con gli Houthi e, comunque, non disposto a spingere su ulteriori azioni muscolari, a causa delle ripercussioni politiche, economiche e di sicurezza. Al contempo, le operazioni euro-americane non hanno garantito il ritorno della libera navigazione in acque libere né ricomposto la disarticolazione delle rotte internazionali, con impatti significativi sulle supply chain (soprattutto europee): molte rotte sono state deviate dallo Stretto di Bab el-Mandeb e dal Canale di Suez in favore del periplo dell’Africa e il passaggio dal Capo di Buona Speranza.

 

La centralità strategica del Mar Rosso

Da un punto di vista economico, gli attacchi degli Houthi hanno generato un sensibile incremento dei costi di assicurazione e riassicurazione per le navi commerciali in transito e prodotto il quasi totale inutilizzo del Canale di Suez, uno dei chokepoints più sensibili all’interno della fitta rete del commercio internazionale. In termini di tonnellaggio, il volume dei container che ha attraversato Bab el-Mandeb è diminuito del 66% (aprile 2024) rispetto all’anno precedente, stabilizzandosi su volumi inferiori di oltre il 40% nei mesi successivi.

Questo cambiamento ha causato ritardi significativi nelle consegne delle merci e un’impennata dei prezzi di spedizione, con il costo medio del trasporto di un container su una nave mercantile in aumento del 161% nel breve periodo. Di riflesso è aumentato il traffico marittimo verso l’Africa australe (e soprattutto i porti del Sudafrica), cresciuto del 53% a discapito proprio della rotta del Mar Rosso. Di converso, questa situazione ha, rappresentato un’opportunità eccezionale per diversi porti africani, che si sono ritrovati improvvisamente – e non adeguatamente pronti – a dover accogliere buona parte della direttrice marittima commerciale tra Europa e Asia.

 

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Anche l’aspetto securitario, legato alla dimensione infrastrutturale-logistica, non è indifferente. La presenza di basi militari straniere sottolinea il significato strategico della macro-regione del Mar Rosso e la sua centralità nelle dinamiche globali, e spiega le serrate lotte di potere che vi si svolgono. Non a caso, vari Paesi tra cui Stati Uniti, Cina, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Italia hanno basi navali tra Egitto, Sudan, Gibuti e Somalia. Altri ancora (Iran e Russia) hanno navi da guerra nelle vicinanze e si stanno prodigando attivamente per rafforzare la loro presenza. I porti di Eilat (Israele) e Aqaba (Giordania), così come quelli egiziani (Ain Sokhna, Port Said, Hurghada e Safaga) e sauditi (Jeddah, Yanbu o Jizan) che si affacciano sul Mar Rosso sono importanti hub in grado di garantire profondità strategica e commerci internazionali da e verso l’Indo-Pacifico agli attori costieri.

Al di là dell’attuale escalation militare, quel che è importante sottolineare è il diverso status, specifico ed elevato allo stesso tempo, che l’azione di terrorismo marittimo degli Houthi è stata in grado di imprimere all’ambiente politico, economico, commerciale, strategico e securitario del Mar Rosso e del Golfo di Aden. Di fatto, in questo spazio geografico è stato identificato non solo un corso marittimo fondamentale per il commercio internazionale, ma ne è stato riconosciuto un processo di territorializzazione e frammentazione che ha dato vita a diverse forme simultanee di rischi e minacce (pirateria, terrorismo, portualità, corsa alle risorse naturali, etc.). Sfide e scenari nei quali anche i diversi attori interni ed esterni alla macro-regione (sia statuali sia non-statuali) giocano un ruolo decisivo di ridefinizione e mutamento degli equilibri. Ciò significa che qualsiasi conflitto locale è un potenziale catalizzatore per una o più dinamiche ampie, e può comportare rischi per la pace e la sicurezza trans-regionali e internazionali.

 

Allineamenti e impatti (trans)regionali

Da una prima valutazione, si potrebbe asserire che la crisi attuale sia un effetto indiretto della guerra in corso a Gaza: la ratio fondamentale alla base degli attacchi degli Houthi è – ancora oggi – un’azione duplice di consolidamento (e ampliamento) del consenso su base nazionale e regionale – sparando agli occidentali nel nome dei palestinesi – e di esternalizzazione dei loro problemi interni, nel controllo dello Yemen. La milizia quindi opera per ottenere riconoscimento politico su scala transregionale; la sua campagna militare è in parte supportata anche dall’Iran, che è interessato per opportunità a mantenere alto il livello di tensione e pressione nell’area, specie nei confronti di Israele e degli attori arabi del Golfo come Arabia Saudita ed Emirati.

Ma salvo colpi di scena imprevisti, tale scenario non dovrebbe conoscere sviluppi significativi nel breve-medio periodo, conservando un grado di instabilità e insicurezza data dalla minaccia costante nel tempo portata dagli Houthi. Questi manterranno le ostilità contro i mercantili civili e le navi militari occidentali transitanti nell’area. Anche se si potrebbe affermare che si tratti di un contesto secondario rispetto a Gaza e alla competizione allargata tra Israele e Iran (si pensi ad esempio al Libano e al ruolo di Hezbollah). Ciononostante il Mar Rosso e il Golfo di Aden non sono “periferie” del quadrante mediorientale. Anzi, la dimensione terracquea dello spazio geografico dimostra un’assoluta centralità dell’area rispetto alle dinamiche globali, per via del loro alto impatto strategico.

 

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Non a caso, lo scenario di crisi in questione ha amplificato l’importanza e il calcolo geo-strategico “del” e “nel” Mar Rosso da parte delle potenze regionali e globali rivierasche. La rivalità e la ricerca costante di influenza da parte degli attori del Golfo (soprattutto Arabia Saudita, Emirati, Qatar e Iran) in Yemen come nel Corno d’Africa, riflette la più ampia competizione per il controllo su rotte marittime cruciali e il dominio regionale. In questa prospettiva, gli Houthi potrebbero avere interesse ad ampliare il raggio operativo oltre il Mar Rosso, guardando al Mediterraneo Orientale e all’Oceano Indiano Occidentale. In questa strategia un ruolo importante potrebbe essere giocato dal rafforzamento dell’“Asse di Resistenza” con l’Iran e da una più strutturata collaborazione con gruppi come i jihadisti sunniti di al-Shabaab in Somalia che, sebbene non necessariamente allineati ideologicamente, hanno obiettivi politici simili. Ecco perché le sfide geopolitiche e i conflitti regionali (a Gaza, in Yemen e in Sudan) sfidano tutti gli attori locali, regionali e internazionali a fornire una risposta adeguata al rimescolamento di allineamenti e interessi in gioco.

 

La variabile africana

In questa prospettiva, i lunghi mesi di conflitti aperti nell’area hanno confermano non solo l’ampliamento dello scenario di crisi all’intero bacino dell’Oceano Indiano Occidentale, ma testimoniano, ancora una volta, quanto la dinamica di Gaza sia un fattore importante ma non determinante nello sviluppo dell’attuale contesto del Mar Rosso.

Infatti, la guerra in Medio Oriente contribuisce sicuramente ad alimentare i diversi driver di interesse concomitanti, ma rispetto alla crisi in atto, Gaza continua a sussistere in maniera simbiotica e parallela, poiché quel conflitto è un fattore strumentale e retorico importante per gli attori coinvolti, ma assolutamente secondario nelle logiche e nelle dinamiche competitive tra le sponde del quadrante allargato. Il Mar Rosso e il Golfo di Aden hanno conosciuto sviluppi repentini ed interconnessioni continue a causa della natura stessa del sub-complesso regionale del Golfo Persico. Pur rimanendo incentrato sulla rivalità bipolare tra Iran e gli Stati arabi del Golfo guidati dall’Arabia Saudita, negli ultimi due decenni c’è stato uno spostamento dell’asse delle interazioni sempre più a sud, verso lo Yemen (divenuto in parte dal 2015 teatro di uno scontro a distanza tra Riad e Teheran) e per estensione nel sotto-sistema del Corno d’Africa. Quest’ultimo, non a caso, vede in atto in Sudan, Etiopia e Somalia dinamiche direttamente intersecate tra loro e in parte influenzate dal ruolo degli attori esterni regionali e internazionali.

Di fatto, allo stato attuale le dinamiche nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden sono per lo più dipendenti da variabili sub-regionali quali una possibile espansione del conflitto yemenita al di fuori dei suoi confini geografici, l’intensificarsi della guerra civile sudanese o le tensioni crescenti tra Etiopia e Somalia. Tutti elementi che non hanno direttamente a che fare con le evoluzioni di scenario a Gaza (o in Libano). In particolare, gli sviluppi sul fronte africano del Mar Rosso potrebbero contribuire a creare disagi ulteriori al commercio internazionale e ridefinire le dinamiche regionali nel prossimo futuro. In questa prospettiva, le evoluzioni nei diversi contesti del Corno d’Africa potrebbero contribuire ulteriormente a ridefinire le dinamiche transregionali, andando ad intaccare le percezioni di insicurezza mediorientali e nella fattispecie specifica del complesso di sicurezza del Golfo Persico. Ecco perché quanto sta andando in scena nel silenzio internazionale in Sudan e Somalia non è da sottovalutare.

 

Il caso sudanese

Analogamente a quanto avviene in Libia, anche in Sudan si assiste ad una crescente corsa all’influenza da parte degli attori esterni, schierati a supporto dei rispettivi alleati nelle guerre[1] che attraversano il Paese. Da quando è ripreso il conflitto (aprile 2023), gli sforzi di mediazione internazionali non sono riusciti a produrre risultati concreti per volontà diretta degli attori locali coinvolti in una lotta di potere estrema, nella quale anche i player esterni alla regione del Corno d’Africa hanno mostrato più interesse ad un’instabilità controllata piuttosto che ad una pace di lungo periodo.

 

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In questo schema, il Generale Abdel Fattah al-Burhan, a capo delle Forze Armate Sudanesi (SAF), ha potuto contare nel tempo sia su aperture diplomatiche da parte dell’Iran – che ha messo a sua disposizione droni da combattimento – sia sul sostegno politico-militare di Egitto e Arabia Saudita, che vorrebbero vedere garantita nello Stato africano una guida militare autoritaria e conservatrice, replicando, quindi, modelli tradizionali. Dall’altro lato, il leader delle Forze di Supporto Rapido (RSF), Mohamed Hamdan Dagalo, meglio conosciuto come Hemedti, si presenta sempre più come un “battitore libero” e gode del sostegno degli Emirati e della Russia. Quest’ultima, in particolare, agisce indirettamente nel territorio attraverso i mercenari di Africa Corps (precedentemente nota come Gruppo Wagner). Sia Abu Dhabi che Mosca vogliono espandere la loro influenza in zona ed entrambi sono interessati a condividere i diritti minerari sugli enormi giacimenti d’oro e minerali rari del sottosuolo sudanese.

Ad aggiungere ulteriore complessità al contesto critico potrebbe contribuire, inoltre, la decisione delle SAF di concedere alla Russia la costruzione di una base navale sul Mar Rosso (presumibilmente a Port Sudan), che potrebbe cambiare le dinamiche del conflitto nel Paese e influenzare la competizione geostrategica sui corsi marittimi prossimi, come appunto il Mar Rosso. Un fattore dirimente ma non nuovo: sin dal 2021, gli Stati Uniti sono stati diplomaticamente attivi nel tentativo di impedire che le SAF giungessero ad un’intesa con il Cremlino sulla concessione di una base navale, forti della (presunta) volontà del Sudan di aderire agli Accordi di Abramo con Israele, dei quali sono effettivamente parte seppur con un contributo “sui generis[2]. Quel che succede in Sudan non è altro che una conseguenza delle dinamiche in atto tra la regione del Corno d’Africa e il Golfo Persico, nei quali su teatri di conflittualità diffusa si incrociano e sovrappongono dinamiche parallele di cooperazione e competizione tra attori locali, regionali e internazionali.

 

Etiopia-Somalia (e Somaliland), ambizioni a confronto

Non meno preoccupante è quanto continua ad andare in scena dal 1° gennaio 2024 tra Addis Abeba e Mogadiscio a causa della decisione dell’Etiopia di firmare un accordo strategico con il governo del Somaliland, regione separatista della Somalia non riconosciuta dalla comunità internazionale. L’intesa non vincolante prevede la concessione di 20 chilometri di costa e lo sviluppo di un porto commerciale (e forse anche di una base militare) a Berbera, con una gestione diretta etiope dell’infrastruttura per i prossimi 50 anni. In cambio, il Somaliland otterrebbe il riconoscimento della sua indipendenza.

L’Etiopia non ha sbocchi sul mare per i suoi 110 milioni di abitanti e in passato ha usato Gibuti per garantirsi l’import-export marittimo commerciale sul Mar Rosso, prima di conoscere un deterioramento delle relazioni bilaterali con il piccolo stato. La firma dell’intesa col Somaliland evidenzia le aspirazioni marittime di Addis Abeba, specie dopo le recenti dichiarazioni pubbliche (luglio e novembre 2023) del primo ministro Abiy Ahmed sul voler riprendere con forza il tema storico del mancato accesso al mare del Paese. L’iniziativa, subito condannata come illegittima dal governo di Mogadiscio, è importante come fattore di revisione delle relazioni e degli allineamenti su base locale e regionale, e in grado di generare effetti e impatti multipli nell’intero quadrante allargato. In questa prospettiva, è plausibile che tutto ciò possa contribuire ad attivare nuove dinamiche geopolitiche nel Continente, tanto nei confronti dell’Egitto, che si trova su posizioni opposte all’Etiopia in particolare sulla partita delle acque del Nilo, tanto lungo l’asse competitivo Riad-Abu Dhabi, che ha mostrato diverse increspature su diversi dossier di interesse comune (Yemen, Sudan, Mar Rosso).

Tale clima di tensione ha contribuito a esacerbare gli animi e a trascinare la sub-regione del Corno d’Africa in un ennesimo stato di confusione e instabilità, come testimoniato dall’accordo di sicurezza firmato da Egitto e Somalia lo scorso 14 agosto al Cairo. Con l’accordo, l’Egitto costituisce un asse tattico con il governo somalo in funzione apertamente anti-etiope. Queste triangolazioni di interessi contrapposti, quindi, mostrano ancora una volta la fragilità sistemica della regione, ma anche un crescente tentativo da parte di attori interni e/o prossimi ai contesti di crisi nello sfruttare le fratture intra-regionali per rafforzare le proprie posizioni di forza. In questa prospettiva, quindi, c’è il rischio che le tensioni in corso tra Egitto, Etiopia e Somalia alimentino nuove spirali di conflitto.

 

Nuovi sviluppi all’orizzonte

Questi aspetti salienti non sono di poco conto e sono in grado di produrre impatti diretti sulla sicurezza del quadrante allargato, danneggiando il commercio internazionale e i progetti infrastrutturali (ad esempio quelli legati all’India-Middle East Corridor, meglio noto come IMEC). Di conseguenza, potrebbe aumentare, anche in maniera indiretta, ruolo, presenza e influenza di attori esterni (come Emirati, Arabia Saudita, Turchia, Iran e Houthi) nella sub-regione. Nonostante una ricalibratura dei driver di azione, è probabile che gli attori mediorientali – in particolare quelli del Golfo Persico – continueranno a vedere nel Corno d’Africa e nella cintura marittima tra Mar Rosso, Mar Arabico e Oceano Indiano Occidentale sia un campo di battaglia sia una grande opportunità per espandere i propri interessi.

Altresì è molto probabile che, anche per effetto delle scelte degli attori internazionali, si possa assistere ad una fase di maggiore instabilità e divisioni, con alcuni Paesi più strutturalmente esposti a subire nuove ondate di disordini e violenze (Somalia in primis). In questo scenario, il Mar Rosso sembrerebbe catalizzerebbe il confronto tra le potenze mediorientali anche sulle sue sponde africane, con il risultato di generare nuove sfide e vulnerabilità nella macro-regione, rallentando di fatto qualsiasi tentativo di costruzione di un sistema di sicurezza regionalizzato allargato.

Pertanto, in un quadro internazionale contraddistinto da crisi multidimensionali, il Mar Rosso rappresenta una sorta di concentrato di diverse sfide, incognite e opportunità, nel quale si intrecciano dinamiche in grado di ridefinire allineamenti ed equilibri locali, regionali e globali.

 

 


Note:

[1] Da un lato quella che vede i rispettivi leader di SAF e RSF impegnati in una lotta di potere per il controllo del Paese, dall’altro la crisi umanitaria e interetnica scatenata da entrambe le fazioni contro le etnie non arabe e musulmane residenti in alcune aree più periferiche, come ad esempio nel Darfur, lì dove le agenzie ONU impegnate sul terreno hanno parlato apertamente di una “catastrofica tragedia umana” e di rischi di “genocidio” pianificato da parte delle autorità sudanesi.

[2] Pur avendo firmato gli accordi abramitici nel gennaio 2021, Khartoum non ha mai dato pienamente seguito a quelle intese a causa della forte instabilità domestica, della polarizzazione pesante tra le diverse componenti dello Stato e dal susseguirsi di golpe militari nell’arco di pochi anni che hanno destabilizzato il Sudan.