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Uno “State of the Union” che ha guardato soprattutto all’interno

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Nei circoli di Washington ci si aspetta che il presidente Biden annunci la sua ricandidatura nelle prossime settimane. Una conferma indiretta di questa voce viene dal discorso sullo Stato dell’Unione del 7 febbraio, nel quale il presidente democratico ha parlato molto e soprattutto di temi di politica interna, cercato di convincere gli americani di come la sua amministrazione abbia prodotto risultati importanti per la middle America sociale e geografica.

Biden durante lo State of the Union

 

Un anno fa Biden pronunciava il discorso davanti al Congresso riunito in seduta plenaria pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Una buona parte delle sue parole venne dedicata alla risposta necessaria a quella che veniva letta come un’apertura di ostilità nei confronti dell’Occidente – e, in forma retorica, contro le libertà, la democrazia, i diritti umani.

Nel 2023 l’Ucraina e il resto del mondo occupano un posto relativamente marginale nel discorso. Un’analisi (artigianale) dei riferimenti alle questioni internazionali è presto fatta: nel 2022 Biden ha usato 22 volte le parole “Ukrainian/Ukraine“ e solo 3 nel 2023, la NATO è passata da 5 citazioni a una soltanto, l’Europa da 9 a 3, mentre a crescere per numero di citazioni sono “China” (da 3 a 6) e “border” (da 3 a 5) – cioè la controversa gestione dei flussi migratori tra USA e Messico. Forse è interessante segnalare, inoltre, che parlando dell’invasione dell’Ucraina Biden parli di guerra di Putin e non della Russia.

 

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Le ragioni di questo ridimensionamento del discorso di politica internazionale sono diverse, ma prima di nominarle, vediamo cosa ha detto il presidente in particolare.

Parlando della guerra in Ucraina è stato rapido e chiaro: Un anno fa la guerra, “un assalto micidiale, che evoca le immagini di morte e distruzione subite dall’Europa nella Seconda Guerra Mondiale. L’invasione di Putin è un test epocale, per l’America e per il mondo. Saremmo stati in grado di difendere i principi più elementari, (…) la sovranità? Saremmo stati pronti a difendere il diritto dei popoli a vivere liberi dalla tirannia? Avremmo difeso la democrazia?”. Le risposte alle domande retoriche sono naturalmente affermative, gli USA hanno ritessuto i legami con la NATO – che, ricordiamolo, vivevano una crisi – costruito una coalizione, sostenuto l’Ucraina e continueranno a farlo “per tutto il tempo necessario”, ha detto il presidente rivolto all’ambasciatrice ucraina Makarova, seduta tra gli ospiti.

Quanto all’altra grande sfida internazionale, quella con la Cina, Biden dice: “Prima del mio insediamento, si parlava di come la Repubblica Popolare Cinese stesse aumentando il suo potere mentre l’America veniva ridimensionata. Non più”. Anche in questo caso il discorso è breve, sottolinea che con Pechino “cerchiamo competizione e non conflitto”. Biden segnala poi il legame tra il rilancio e la ritessitura di alleanze nel Pacifico – la notizia di una rinnovata presenza USA nelle Filippine è di pochi giorni fa – sia anche connessa alla competizione tecnologica con Pechino. “Investire nelle nostre alleanze e lavorare con i nostri alleati per proteggere le nostre tecnologie avanzate in modo che non vengano usate contro di noi” è un riferimento a molti capitoli aperti con Pechino, dallo spionaggio industriale, alle terre rare e sebbene Taiwan non venga nominata è difficile non pensare anche all’isola. Al contempo il tono non è di sfida. Si pensi al pallone spia abbattuto sul mare della South Carolina: Biden dice “Come abbiamo chiarito la scorsa settimana, se la Cina minaccia la nostra sovranità, agiremo per proteggere il nostro Paese. Come abbiamo fatto”. Un breve passaggio per rimarcare di aver fatto la cosa giusta, passaggio più rivolto all’opinione pubblica interna e all’opposizione repubblicana critica per il ritardo nell’abbattimento che non a Pechino. Avendo voluto forzare la mano si sarebbe potuto parlare ben più a lungo del pallone aerostatico, ma c’è invece da ribadire che sulle grandi questioni globali quali il clima o le pandemie, Washington appare pronta a cooperare con Pechino.

Biden sottolinea poi come negli ultimi due anni le autocrazie siano più deboli di quanto non lo fossero prima della sua presidenza. Si tratta di un dato reale, ma un po’ tirato per i capelli: certo, alcune figure molto controverse come i presidenti brasiliano Bolsonaro e filippino Duterte sono uscite di scena, in Iran è in corso una rivolta contro il regime da mesi. Ma nessuno di questi cambiamenti politici è frutto dell’azione degli Stati Uniti – che hanno, d’altro canto, molto ridimensionato gli atteggiamenti critici nei confronti dell’Arabia Saudita di Mohamed bin Salman.

I passaggi politicamente importanti di politica estera riguardano forse qualcosa che non è strettamente materia per il Dipartimento di Stato o il Pentagono: il processo di re-shoring, cioè riportare in patria industrie che hanno delocalizzato, per costruire filiere produttive protette necessarie a provvedere al bisogno di beni strategici come i microchip, e ridimensionare così la dipendenza dalla Cina frenandone lo sviluppo tecnologico-militare e la concorrenza. In quella politica – che per una volta è bipartisan – la competizione internazionale, la creazione di lavoro e la necessità di avere filiere produttive più corte per non evitare di vedersi paralizzata la produzione sono elementi che si tengono assieme. L’accordo con i grandi produttori di semiconduttori, Olanda e Giappone, per non esportare tecnologia sensibile in Cina è in questo senso un buon colpo di Biden. Colpo non segnalato durante il discorso, perché si tratta ufficialmente di una decisione autonoma dei due alleati.

 

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Torniamo alla domanda iniziale: come mai poca politica estera nonostante l’amministrazione sia impegnata su mille fronti e le sue figure più visibili e probabilmente più influenti siano il Segretario di Stato Antony Blinken e il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan? La prima ragione è l’umore del Paese: i sondaggi indicano come in molti sostengano che gli USA vadano nella direzione sbagliata, mentre il 50% vede peggiorata la propria condizione economica. Il sostegno all’Ucraina rimane alto, ma una percentuale crescente ritiene si stia facendo troppo per sostenere il paese invaso dalla Russia e solo il 35% vede la guerra come una minaccia diretta agli Stati Uniti (un anno fa era il 51%). Gli elettori repubblicani sono i più tiepidi nei confronti dell’Ucraina: la polarizzazione ha un effetto negativo su un terreno come quello della proiezione internazionale che è tradizionalmente condiviso – e che comunque in buona parte resta tale.

Nel suo discorso, insomma, Biden aveva bisogno di sottolineare le cose fatte e parlare di America. Del resto il presidente ha sottolineato molte volte come uno degli aspetti cruciali per mantenere la primazia americana sia la necessità di “rimettere la casa in ordine”. E poi, se si escludono pochi casi determinati da circostanze storiche quali il Vietnam, l’11 Settembre o l’Iraq, le campagne elettorali si fanno sulla politica interna.