Nell’Ucraina in guerra, il consenso di Zelensky e il problema delle elezioni
31 marzo 2024: è la data nella quale, se tutto fosse rimasto uguale, se l’invasione russa non ci fosse mai stata, l’Ucraina sarebbe dovuta andare a votare per le elezioni presidenziali. Sono passati esattamente cinque anni, infatti, dall’aprile 2019, quando nella sorpresa generale, quello che tutti sino ad allora conoscevano (poco) solo per le sbiadite presentazioni della stampa internazionale, che lo descriveva come un attore candidatosi quasi per scherzo, sarebbe diventato presidente. Volodymir Zelensky venne eletto sconfiggendo nettamente al ballottaggio il rivale e uscente Petro Poroshenko: oltre il 73% delle preferenze contro poco più del 24%. Già al primo turno, allora, Zelensky aveva doppiato i voti sia di Poroshenko che di Julia Timoshenko, con quest’ultima che, sino ad appena due mesi prima del voto, dominava ogni sondaggio.
Il quinquennio Zelensky tra difficoltà politiche e invasione militare
Difficile dire ex post in che modo uno degli altri candidati avrebbe diretto in maniera differente la difesa dell’Ucraina in guerra, o se avrebbe magari potuto evitare l’invasione russa, e con quali mezzi. Due cose sono sicure: una, che l’elezione di Zelensky, l’attore di serie televisive, l’uomo di spettacolo che pensava di riportare nella realtà il personaggio di presidente interpretato nella finzione, era stata salutata da molti commentatori come un sicuro disastro. L’altra, che proprio la reazione veemente e determinata di Zelensky, il suo aver trasformato la difesa ucraina in un fenomeno mediatico mondiale, il suo rifiuto storico, in un messaggio diventato poi di culto, di lasciare Kiev, com’era stato suggerito dagli Stati Uniti, per riparare a Varsavia (“non ho bisogno di un passaggio, ma di munizioni”), hanno fatto la differenza nell’andamento della guerra, e costretto Mosca a cambiare strategia.
Non potevano immaginare, dal Cremlino, che quell’attore, lo stesso saltimbanco che tempo prima si era esibito persino davanti all’ex presidente russo Medvedev, che spesso si faceva beffe, nei suoi spettacoli, dei politici filo-occidentali del suo paese, che aveva portato il suo show persino nella Crimea occupata dalla Russia, si sarebbe mostrato così inflessibile, così determinato nell’utilizzare al meglio, e a suo vantaggio, la sua dote più spiccata: l’abilità comunicativa.
Il suo primo video, girato nel secondo giorno dell’invasione, il 25 febbraio 2022, lo presentò al mondo. Una passeggiata nella Kiev notturna insieme ad alcuni collaboratori, per dare un segnale forte al suo paese e anche fuori, per dimostrare, contro la propaganda russa che lo annunciava già in fuga, che era e sarebbe rimasto nella capitale Kiev. Volodymir Zelensky da quel momento è apparso, sempre in maglietta militare, in migliaia di video e di interviste, a eventi di ogni genere e tipo, dal Congresso USA alla Berlinale, dal Parlamento Europeo al Festival di Sanremo. Sempre e solo ripetendo una sola richiesta: armi, per aiutare l’Ucraina a resistere.
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In Ucraina si discute tra chi, una ristretta minoranza, ritiene che le elezioni del 31 marzo avrebbero dovuto tenersi comunque e chi invece condivide la decisione di posticipare il voto sino alla fine della legge marziale. In questo quadro vale la pena recuperare i dati relativi alla popolarità di Zelensky in Ucraina all’inizio del 2022, dunque poche settimane prima dell’invasione russa. Secondo una ricerca del Kyiv International Institute of Sociology (KIIS), fra i più accreditati istituti ucraini di ricerca demoscopica insieme al Razumkov Center, pubblicata il 22 gennaio del 2022, a trentatré giorni dallo scoppio della guerra, la fiducia nell’operato di Zelensky era al punto più basso dal suo insediamento. Il 64,7% degli intervistati dichiarava che il governo non stava andando nella direzione corretta e solo 23% manifestava, in caso di voto imminente, la sua preferenza per Zelensky, con Poroshenko subito dietro, al 20%, e Yevropeiska Solidarnist, il partito di Poroshenko, di oltre cinque punti avanti rispetto a Sluha Narodu, i Servitori del Popolo, di Zelensky: 18,9 contro 13,7. Nello stesso periodo, un’altra rilevazione del Razumkov Center mostrava come Zelensky avesse addirittura superato Petro Poroshenko fra i politici “da non votare in nessuna circostanza”: 31.9% contro 31.6%. Il 40,1% riteneva che il governo Zelensky non differisse in modo significativo da quello precedente, mentre il 36,2% pensava stesse facendo peggio e solo il 20,1% riteneva invece fosse migliore.
Le ragioni di questa delusione dell’opinione pubblica nei confronti dell’uomo che aveva stravinto le elezioni meno di tre anni prima era da ricollegare alle speranze disattese di un cambiamento radicale che invece Zelensky, non soltanto per colpa sua, non era ancora riuscito a realizzare. Innanzitutto, la crescita economica era rimasta intorno al 3%, ben al di sotto di quanto previsto, anche a causa della pandemia. La lotta alla corruzione, vero e proprio cavallo di battaglia del programma zelenskyano, era ferma, mentre erano esplosi casi clamorosi legati ad esempio alla costruzione di infrastrutture nel paese, con la scoperta di miliardi di dollari destinati a finanziamenti illegali. Ancora, c’era stato il passaggio dalla prima fase riformista-populista di Zelensky a un secondo momento caratterizzato da dinamiche molto più tradizionali nella storia dei governi degli stati post-sovietici: una verticalizzazione personale del potere con legami sempre più sensibili fra potere esecutivo, legislativo e magistratura e i costanti conflitti con una Corte Costituzionale il cui primo tentativo di riforma, con la presenza in Commissione di tre rappresentanti ucraini e tre esperti stranieri, per assicurare la non politicizzazione delle decisioni, è stato approvato appena sei mesi fa.
Si deve ancora sottolineare che quella fase del governo Zelensky era caratterizzata da rapporti molto complessi fra Ucraina, Unione Europea e Stati Uniti, soprattutto attorno alla questione del gasdotto Nord Stream 2. Ad agosto 2021 Angela Merkel aveva ribadito infatti l’intenzione di andare avanti nel progetto del raddoppio della condotta tra Russia e Germania, supportata anche dalla decisione di Biden di annullare le sanzioni statunitense su un’infrastruttura che, una volta in funzione, avrebbe privato l’economia ucraina di ricavi pari a oltre 2 miliardi di dollari l’anno – dato che parte del gas russo destinato all’Europa non sarebbe più passato dal territorio ucraino.
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Infine proprio a pochi mesi dall’inizio della guerra, il presidente ucraino era stato investito dallo scandalo dei Pandora Papers, che rivelavano come diverse società con sede in paradisi fiscali come Isole Vergini britanniche, Cipro o Belize facessero capo proprio a Zelensky e operassero, fra le altre cose, nel mercato immobiliare londinese. Un colpo molto duro all’immagine di un uomo che si era posto come alternativa assoluta alla tradizionale classe politica ucraina e che in campagna elettorale aveva duramente attaccato il rivale Poroshenko proprio sulla questione delle partecipazioni in società offshore.
Dopo l’iniziale slancio riformista e un secondo momento di bassa popolarità, la guerra ha sancito una sorta di terza fase della presidenza Zelensky. Il presidente ucraino si è buttato a capofitto, senza compromessi, nella difesa della sovranità territoriale, rifiutando ogni opzione di comando esterno delle operazioni militari (più volte suggerita sia dai partner europei che, soprattutto, da Washington): ciò gli è stato riconosciuto dagli ucraini, che negli ultimi due anni – in alcuni momenti – gli hanno tributato un consenso di circa il 90%.
Il rinvio delle presidenziali del 2024
È in questo quadro che si inscrive la questione del rinvio delle elezioni. Proprio sul tema delle presidenziali l’Ucraina ha dovuto gestire, negli ultimi sei mesi, una forte pressione, con costanti richiami alla necessità di andare alle urne per dimostrare che l’ordine democratico del paese non è in discussione. Le critiche per la decisione di posticipare il voto sono arrivate soprattutto dagli Stati Uniti, e nello specifico dal Partito Repubblicano, che ha addotto anche la motivazione delle mancate elezioni per giustificare il suo ostruzionismo all’ultimo pacchetto di aiuti da 60 miliardi deciso dall’amministrazione Biden – alla fine approvato dal Congresso dopo sei mesi, e solo grazie al “tradimento” di ventidue senatori e senatrici repubblicani che si sono ribellati al diktat trumpiano del blocco allo stanziamento.
Le critiche a Zelensky per il rinvio del voto non sembrano però fondate. Dal punto di vista del consenso, infatti, a Zelensky converrebbe indire elezioni in questo momento, in quanto, seppure in una congiuntura di calo dei consensi (ne scriviamo poco sotto), è evidente che la sua rielezione, in una fase così delicata del conflitto, non sarebbe assolutamente in discussione. Secondo un sondaggio realizzato dal KIIS nei primi giorni di febbraio, la stragrande maggioranza degli ucraini – il 69% – ritiene che Zelensky dovrebbe restare al suo posto almeno fino alla fine della legge marziale e oltre il 60% pensa che, una volta indette nuove elezioni, dovrebbe sicuramente ricandidarsi.
Bisogna inoltre considerare che il governo di Zelensky avrebbe gran bisogno di una nuova legittimazione popolare, dopo un mandato durissimo, partito tra la difficoltà di realizzare le riforme promesse, continuato con la pandemia e infine con l’invasione militare russa e l’occupazione di parte importante del territorio nazionale. Una vittoria elettorale migliorerebbe anche i rapporti con l’esercito, non sempre idilliaci. Insomma, la sensazione è che chi ha più da perdere nel non andare al voto alla fine di marzo sia proprio Zelensky.
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Fra i problemi concreti legati all’organizzazione del voto e che non permettono lo svolgimento di elezioni regolari vi è l’impossibilità pratica di fare campagna elettorale, sia sul campo che fra i media, in un paese che deve difendersi dall’attacco di un esercito nemico – tra l’altro anche questo faciliterebbe, e di molto, una vittoria di Zelensky. Senza contare gli enormi problemi di sicurezza che andrebbero affrontati, con l’impossibilità di assicurare la protezione dei seggi e l’incolumità degli elettori. Un voto in condizioni del genere non sarebbe riconosciuto valido per prima dalla popolazione ucraina, e non risponderebbe nemmeno agli standard minimi previsti dall’OSCE. Chi insiste per tenere elezioni nell’Ucraina in guerra non ha insomma, forse, la percezione di un paese nel quale al momento sono in vigore, per ragioni di sicurezza, profonde restrizioni della libertà individuale, e in cui il dibattito pubblico è quasi completamente in pausa, per dedicare ogni risorsa alla difesa militare del territorio.
Ci sono poi due ulteriori elementi che complicano il quadro. Il primo riguarda i quasi dodici milioni di profughi (otto milioni e mezzo rifugiati all’estero, quattro milioni e mezzo sfollati in altre regioni dell’Ucraina, più gli oltre duecentomila militari in servizio attivo, che difficilmente potrebbero partecipare alla consultazione): consentirgli di votare non è esattamente un problema semplicissimo da risolvere. L’amministrazione ucraina al momento non è in grado di affrontare il grande sforzo tecnico-organizzativo, che include l’allestimento dei seggi all’estero, l’aggiornamento delle liste elettorali, la registrazione dei nuovi dati personali, per consentire a questi milioni di persone di esercitare regolarmente il loro diritto.
Il secondo riguarda considerazioni di ordine finanziario, in un’Ucraina che non vive, è quasi ovvio sottolinearlo, un momento florido e che sta dirottando ogni risorsa per sostenere le spese di guerra. Secondo le stime della Commissione elettorale centrale sarebbero necessari quasi 220 milioni di euro per organizzare le presidenziali, senza contare i cittadini sfollati all’estero. Insomma, quella delle elezioni ucraine in tempo di guerra sembra davvero una missione impossibile.
Uno scenario politico vitale
Volendo comunque immaginare, ipoteticamente, un’Ucraina in grado di organizzare elezioni libere e sicure, garantendo la partecipazione degli elettori e una competizione onesta e giusta, e analizzando lo scenario di alternative politiche presenti nel paese ucraino in questo momento, si scopre un universo di estrema vivacità. Zelensky, innanzitutto, vive il suo momento di minore popolarità dall’inizio della guerra. Sia i sondaggi del KIIS che quelli del Razumkov Center lo pongono sotto il 70% di fiducia, scavalcato sia da Kyrylo Budanov che, soprattutto, da Valerii Zaluzhnyi. Il generale Zaluzhnyi, dimessosi da comandante in capo delle Forze Armate ucraine dopo un tira e molla durato oltre due mesi, ha oggi la fiducia, secondo le rilevazioni, del 94% della popolazione. Una percentuale altissima, che rispecchia l’umore del paese: l’esercito è l’unica istituzione di cui i cittadini ucraini si fidano ciecamente.
E così, se Zelensky è il volto dell’Ucraina in guerra nella percezione che se ne ha all’estero, internamente è stato costretto, in questi mesi, a condividere il ruolo di punto di riferimento proprio con Zaluzhnyi: una convivenza che ha finito per provocare liti e frizioni, sino alla scelta di Zelensky, molto impopolare, di costringere il generale alle dimissioni, dopo un’intervista rilasciata da Zaluzhnyi lo scorso novembre all’Economist, nella quale dichiarava che la guerra fosse a un punto morto. Non è un caso, insomma, che il calo di popolarità di Zelensky arrivi proprio in questo momento: la società ucraina non ha digerito l’allontanamento dell’uomo simbolo, in questi lunghi mesi di guerra, della difesa ucraina sul campo, e anche per questo il presidente ucraino è stato scavalcato, in quanto a fiducia, anche da Kyrylo Budanov, capo dei servizi di intelligence. La decisione di esautorare Zaluzhnyi ha creato un clima di grande incertezza: la diretta conseguenza è quella di appigliarsi ai volti più noti della resistenza militare.
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Sul palcoscenico degli sfidanti politici più accreditati, troviamo invece in crescita costante Serhiy Prytula. Prytula: anche lui proveniente dal mondo dello spettacolo, è ormai stabilmente oltre il 60% di gradimento e ha costruito la sua popolarità, in questi due anni di guerra, impegnandosi come volontario e raccogliendo, tramite la sua fondazione, decine di milioni di dollari grazie ai quali sono stati donati all’esercito, fra gli altri, tre sistemi missilistici Bayraktar, cinquanta Jeep FV103 Spartan e l’accesso a uno dei microsatelliti finlandesi ICEYE, decisivo per la pianificazione delle operazioni militari. In una prospettiva post-conflitto, la figura di Prytula, con il suo partito 24 Agosto (data della chiusura del suo fundraising), potrebbe diventare determinante in uno scenario di alleanze multipartitiche. Un’altra figura da non sottovalutare è quella di Dmytro Razumkov, uno degli uomini più influenti del paese ed elemento chiave nella squadra che ha portato Zelensky alla presidenza nel 2019. Proprio in virtù del suo prestigio era stato nominato presidente della Verkhovna Rada, il parlamento ucraino, e membro del Consiglio di sicurezza e difesa: cariche dalle quali è stato però allontanato nell’ottobre del 2021, per divergenze proprio con Zelensky. Oggi Razumkov gode di una popolarità in grande crescita (il 35%, secondo il KIIS), soprattutto nella classe media delle grandi città. Rimasto in parlamento come indipendente, la sua ONG, Team Razumkov, sta lavorando alla costruzione di un nuovo partito.
C’è poi Vitali Klitschko, l’ex campione di pugilato oggi sindaco di Kiev. Klitschko, che è dato al 45% di fiducia, è a capo dell’Associazione delle Città Ucraine, un organo che riunisce i primi cittadini delle più grandi città del paese e che critica duramente Zelensky, con l’accusa di non aver fatto abbastanza nel pianificare la difesa dall’invasione russa, e per aver rimosso sindaci a lui ostili servendosi di addebiti falsi. Klitschko è la figura che in questi mesi ha attaccato in pubblico in maniera più aspra Zelensky, accusandolo di autocrazia per aver svuotato il parlamento di ogni potere e aver silenziato ogni voce critica sia dentro il governo che nello spazio pubblico. Non è difficile immaginare Klitschko come uno degli sfidanti più accreditati di Zelensky in un’Ucraina futura liberata dagli inevitabili dettami della legge marziale.
Anche Petro Poroshenko, il primo presidente eletto dopo la rivoluzione Euro-Maidan, sconfitto da Zelensky nel 2019, è ancora in campo. Sebbene molta della sua credibilità politica sia stata erosa dai ripetuti scandali di corruzione, Poroshenko incarna una promessa di stabilità che in un’Ucraina post-conflitto potrebbe attirare molti elettori. Infine, molto più staccati in quanto a popolarità (intorno al 10%), ma comunque parte dell’arco politico ucraino, troviamo Yulia Timoshenko, il volto della rivoluzione arancione del 2004-2005, e Oleksij Arestovyč, di fatto l’unico candidato ufficiale alle elezioni presidenziali, prima che fossero posticipate.
Arestovyč, già consigliere indipendente del governo Zelensky per la difesa e membro della delegazione nazionale nell’ormai ex “Gruppo di contatto trilaterale sull’Ucraina”, fondato per cercare una soluzione diplomatica al conflitto nel Donbass nel 2015, era stato allontanato dopo aver accusato l’esercito ucraino di aver abbattuto per errore un edificio a Dnipro, provocando la morte di oltre quindici persone. Negli ultimi mesi le sue critiche a Zelensky e ai vertici militari, rei, secondo Arestovyč, di aver gestito in maniera disastrosa l’ultima controffensiva, sono diventate sempre più dure. Se la popolarità di Arestovyč, percepito da molti come filo-russo, è andata via via svanendo nei mesi, la sua presenza nell’arena politica è un segnale, l’ennesimo, dello stato di salute della democrazia ucraina.