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La posta in gioco in Ucraina

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Fra fine tragica di Alexei Navalny e caduta di Avdiivka, le aspettative occidentali sulla Russia stanno diventando cupe: la guerra esterna e la repressione interna si saldano, a circa un mese da elezioni farsa che porteranno Putin a dominare la scena politica russa fino al 2030. Un trentennio, in cui la Russia è passata dall’essere un partner potenziale o molto reale degli europei (gli accordi energetici) a essere invece una minaccia concreta ai confini orientali dell’UE.

Un soldato tra le rovine di Avdiivka

 

Ma sarebbe un errore – come è stato sostenuto dal G7 a Kiev, presieduto da Giorgia Meloni e ieri dall’incontro di Parigi sul sostegno europeo all’Ucraina – passare dall’eccesso di aspettative del 2023 al pessimismo eccessivo dei giorni attuali. Le guerre non sono mai lineari. Le uniche indicazioni certe, mentre si apre il terzo anno di aggressione della Russia all’Ucraina, è che Kiev esiste e resiste (“siamo stanchi ma non esausti”, si dice dal campo); che un fronte lungo più di 1000 chilometri si è mosso ben poco dal maggio del 2023 in poi (Bakhmut); che i russi hanno subito a loro volta forti perdite militari (più di 300.000 soldati, secondo le stime, e un quinto circa della Flotta del Mar Nero); che l’Ucraina è a corto di munizioni di artiglieria, decisive in una guerra di attrito, e di uomini freschi.

Se si aggiunge il ritardo degli aiuti militari europei (con la consegna di circa un terzo delle munizioni promesse) e il blocco alla Camera di Washington del pacchetto americano proposto da Joe Biden, la percezione possibile è che la traiettoria sia in qualche modo segnata. Perché a lungo andare, nelle guerre, la quantità finisce per diventare qualità. Putin – si dice – passerà nel 2024 all’offensiva e aspetterà l’eventuale elezione di Donald Trump per conseguire gradualmente il suo disegno di ridurre l’Ucraina a una Bielorussia-bis, parte integrante della propria sfera di influenza.

E’ così? No, per tre ragioni che cercherò di spiegare.

Primo: è ormai probabile che Kiev non riuscirà a recuperare tutto il territorio che le apparteneva nel 1991, al momento dell’indipendenza. Ha perso, dal 2014 al 2023, il 20% circa dello spazio di allora ed è possibile che il conflitto prima o poi si congeli lungo linee non molto diverse da quelle di oggi. Di fatto, l’Ucraina verrebbe divisa fra un’area occidentale – garantita per la sicurezza da accordi bilaterali e NATO – e un’area sud-orientale che graviterà sulla Russia. Un esito di tipo coreano, senza un vero e proprio armistizio. O una soluzione che evoca il precedente della Germania divisa fra Repubblica Federale (che entrò nella NATO nel 1955) e Repubblica Democratica Tedesca. Questo tipo di esito non sarebbe una vittoria per Zelensky, che infatti lo respinge; ma neanche per Putin, rispetto ai piani iniziali.

 

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Risultato: sarà una guerra ancora lunga, che durerà certamente nel 2024, anno considerato cruciale dagli esperti militari. E’ decisivo che le promesse fatte dal G7 a Kiev non restino sulla carta. L’Ucraina dovrà passare su una posizione difensiva (si è già visto il vantaggio della difesa sull’offesa nei primi due anni di guerra) ma avrà bisogno per tenere le sue posizioni di più munizioni, di più armi per colpire dietro le linee nemiche (F-16 e missili cruise), di più soldi: il deficit di bilancio è impressionante e quindi l’aiuto deciso dall’Europa (50 miliardi di euro nei prossimi quattro anni) sarà un fattore chiave. Ma altrettanto importante sarà lo sblocco dei 60 miliardi di dollari USA, arenati al Congresso in una dimostrazione plastica dei guai che la polarizzazione interna provoca sulle scelte internazionali.

Conterà maledettamente, in effetti, il fattore Stati Uniti in un anno elettorale. Questo è il secondo elemento e io continuo a pensare che i Repubblicani alla Camera non possano assumersi la responsabilità, dopo che Washington ha già speso moltissimo in aiuti militari a Kiev, di lasciare l’Ucraina al suo destino (il precedente sarebbe nefasto). Vedremo. E vedremo se Donald Trump, ormai solidamente in testa nella corsa alla nomination repubblicana, sarà poi in grado di vincere le elezioni. La mia è solo una scommessa razionale mentre una buona dose di irrazionalità domina ormai parte del mondo politico americano.

Terzo fattore: l’Europa ha finalmente deciso, risvegliandosi da un lungo sonno kantiano, che la propria sicurezza e difesa vanno appunto… difese, e non solo delegate agli Stati Uniti. Acquisendo la capacità di dissuadere la Russia. Ma qui si entra nel solito groviglio: l’alternativa fra burro e cannoni, una parte delle opinioni pubbliche contrarie alle forniture militari, le percezioni non univoche sulla Russia, la frammentazione dell’industria della difesa, la tentazione – che si manifesterà certamente se Trump dovesse sfilarsi – a ricercare accomodamenti bilaterali con Mosca.

E’ necessaria una rivoluzione mentale: la difesa europea va vista come un bene pubblico comune. Ne derivano una serie di scelte non più rinviabili sugli investimenti nella difesa e sulla politica di approvvigionamento. Se l’obiettivo è finanziare una base industriale della difesa europea, i vecchi criteri ESG, di sostenibilità, vanno rivisti e allargati. Non ci sarà niente di sostenibile se non riusciremo a difendere, insieme all’Ucraina, la nostra sicurezza.

 

 


*Una versione di questo articolo è apparsa su Repubblica del 27/02/2024