L’Iran e il dilemma atomico
Questo articolo è pubblicato sul numero 1-2025 di Aspenia
*Articolo scritto nel febbraio 2025
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, l’Iran si trova ad affrontare un periodo estremamente pericoloso, perché dovrà fare fronte al probabile ritorno della politica americana di “massima pressione” su Teheran.
Ciò segue una serie di azioni israeliane che hanno indebolito la deterrenza iraniana, come dimostra l’attacco del 26 ottobre 2024. Israele ha azzerato le difese aeree strategiche di Teheran e la sua capacità di produrre missili balistici a combustibile solido, lasciando il paese esposto a ulteriori attacchi e rendendolo incapace di ricostituire le riserve missilistiche parzialmente esaurite. Alcuni funzionari iraniani hanno reagito cercando di convincere il regime a rafforzare la deterrenza producendo armi nucleari, e ciò ha fatto crescere il timore che Teheran possa presto abbandonare quella che definirei strategia di “hedging nucleare”.
LA LENTA AVANZATA VERSO IL BREAKOUT. Nel corso del 2024, vari funzionari iraniani hanno lanciato avvertimenti, sottolineando che il regime si disponeva a ripensare la propria dottrina nucleare. Nel frattempo, l’Agenzia internazionale per l’Energia atomica riferiva che Teheran aveva iniziato a installare centrifughe avanzate negli impianti per l’arricchimento dell’uranio di Fordow e Natanz, mentre funzionari israeliani e americani indicavano alla stampa che l’Iran aveva avviato ricerche di metallurgia, modellistica computerizzata ed esplosivi potenzialmente collegate alla fabbricazione di armi nucleari. Una valutazione rilasciata a luglio dello scorso anno dall’intelligence americana sosteneva che Teheran avesse “intrapreso attività in grado, qualora decidesse di procedere, di facilitare la produzione di un arma nucleare”. Non sorprende quindi che l’attacco israeliano del 26 ottobre 2024 abbia colpito anche una struttura – non lontana dalla capitale – che si ritiene parte di queste attività.
Nello stesso periodo il regime iraniano ha adottato un approccio di maggiore propensione al rischio nei confronti di Israele, convinto che lo stato ebraico fosse più vulnerabile a causa della guerra a Gaza, delle tensioni con Biden e della potenza missilistica iraniana. Il regime si è anche convinto di dovere rispondere alle azioni israeliane, inclusi gli attacchi mirati contro alti rappresentanti dell’Iran o dei gruppi suoi affiliati a Damasco, Teheran e Beirut. Per l’insieme di queste ragioni, il 13 aprile e il 1° ottobre del 2024, l’Iran ha lanciato due pesanti attacchi missilistici contro Israele. Ma potrebbe anche adottare un approccio favorevole allo sviluppo più rapido del nucleare.
IL FATTORE VULNERABILITÀ. L’Iran aveva interrotto gran parte delle proprie attività clandestine sulle armi nucleari nel 2003, dopo che un gruppo di opposizione aveva rivelato i piani del regime. In seguito, per conservare l’opzione nucleare, ha scelto la cosiddetta strategia di latenza, ritenendo inaccettabili i rischi e i costi connessi con la realizzazione dell’atomica: isolamento diplomatico, sanzioni economiche, attacchi militari e il possibile effetto a cascata di una proliferazione nucleare nella regione. Il tentativo era quello di sfruttare molti dei benefici connessi alla capacità di produrre una bomba senza i rischi collegati al suo effettivo sviluppo.
Da allora, alcune delle preoccupazioni che avevano spinto l’Iran ad adottare questa strategia sono svanite – mentre altre restano forti. Per esempio, oggi sarebbe più difficile che in passato isolare Teheran. Il regime ha rafforzato i propri legami con Russia e Cina e diversi partner degli Stati Uniti hanno cercato di evitare rischi avvicinandosi all’Iran. Il regime rimane tuttavia vulnerabile alle sanzioni: il presidente Masoud Pezeshkian ha dichiarato che l’alleggerimento delle sanzioni resta una priorità; il leader supremo Ali Khamenei è a sua volta convinto che l’Iran non debba pagare un prezzo troppo alto.
Inoltre, il rischio di azioni militari è diventato più forte che mai. Il 26 ottobre scorso gli aerei israeliani, durante un’operazione condotta in coordinamento con gli Stati Uniti, hanno sorvolato impunemente l’Iran sapendo esattamente dove colpire per provocare il massimo danno alle strutture di produzione di missili balistici. Del resto, l’intelligence israeliana ha ripetutamente avuto accesso alle attività più sensibili dell’Iran. Teheran potrebbe ragionevolmente desumerne che, se tentasse di dotarsi di armi nucleari, Israele lo saprebbe e potrebbe attaccare per impedirlo, con un appoggio degli Stati Uniti ancora più certo da quando Donald Trump è alla Casa Bianca.
Allo stato attuale l’Iran impiegherebbe settimane o mesi per arrivare a un’arma nucleare utilizzabile, dando potenzialmente ai suoi avversari il tempo di agire. L’uso recente di bombardieri B-2 per colpire strutture di stoccaggio di droni e missili degli Houthi nello Yemen lascia intendere che gli Stati Uniti potrebbero utilizzare questa strategia anche contro l’Iran, se lo ritenessero necessario per colpire il programma nucleare del paese. Il B-2, infatti, è l’unico velivolo in grado di sganciare la GBU-57 MOP (Massive Ordnance Penetrator) da 13,5 tonnellate di peso: l’unica arma convenzionale in grado di colpire la struttura sotterranea di arricchimento dell’uranio di Fordow.
I LIMITI DELLA POTENZA. Teheran deve anche valutare se i vantaggi di possedere l’atomica valgano i rischi connessi con un tentativo di breakout. Khamenei ne ha parlato in varie occasioni, per giustificare la strategia di latenza successiva al 2003 o come parte di una evoluzione del suo pensiero. Ha ricordato, per esempio, come i mujaheddin afghani abbiano sconfitto l’Unione Sovietica o come lo stesso Iran abbia bloccato gli Stati Uniti in Iraq e in Siria, anche se entrambe le superpotenze possedevano armi nucleari. Ha anche sottolineato che le armi nucleari non hanno impedito il collasso dell’Unione Sovietica. D’altra parte, non c’è prova che Khamenei consideri le armi nucleari come strumenti fondamentali per la sopravvivenza della Repubblica islamica; se così fosse, quasi certamente non avrebbe acconsentito, in più di un’occasione, a mettere in pausa il programma nucleare per evitare l’isolamento diplomatico o per ottenere l’allentamento delle sanzioni.
Inoltre, l’Iran non è stato in grado di proteggere i suoi più illustri scienziati nucleari da attacchi mirati israeliani, le strutture nucleari più importanti dai sabotatori o i suoi archivi nucleari dai furti commessi dagli agenti stranieri. Finché il regime non risolverà questo problema – e gli eventi recenti non sembrano promettenti in tal senso – Teheran potrebbe decidere di non produrre armi nucleari che sarebbero altrimenti vulnerabili ai sabotaggi e alle diversioni di agenti stranieri.
Al momento, tuttavia, la ragione principale che trattiene l’Iran dal tentare il breakout potrebbe essere la sua vulnerabilità in fatto di armi convenzionali. Il paese si trova di fronte a un dilemma: le armi nucleari potrebbero aiutarlo a recuperare lo svantaggio, ma il momento peggiore per produrle è proprio quello in cui è minore la capacità di deterrenza o di risposta a un attacco contro il programma nucleare.
MANTENERE LO STATO DI LATENZA. Da quando ha tentato un approccio più rischioso nei confronti di Israele – abbandonando la vecchia strategia di evitare scontri diretti – l’Iran è arrivato a un punto di svolta. Washington deve quindi fare il possibile per evitare che questo approccio diventi la norma e convincere Teheran a mantenere lo stato di latenza. Sebbene un Iran in latenza non sia una condizione ottimale, è comunque preferibile a un Iran dotato di armi nucleari. È anche preferibile all’opzione di sferrare un massiccio attacco preventivo contro gli impianti nucleari iraniani, che farebbe guadagnare solo un anno o due prima della ripresa del programma e della necessità di colpirlo di nuovo. Inoltre, un attacco preventivo potrebbe convincere Teheran dell’assoluta necessità di dotarsi dell’atomica.
Il timore verso gli atteggiamenti della nuova amministrazione Trump, potrebbe portare l’Iran ad accelerare la produzione di centrifughe avanzate e di materiale fissile per avere una leva maggiore su Washington o per consentire un breakout più rapido qualora la tensione dovesse aumentare ulteriormente. Un’altra opzione potrebbe essere quella di nascondere materiale fissile in siti non protetti o in impianti clandestini per l’arricchimento.
Di fronte a questi rischi i leader statunitensi hanno diverse opzioni. Prima di tutto, la nuova amministrazione, come la precedente, ha affermato pubblicamente che non permetterà all’Iran di dotarsi di armi nucleari e Trump ha firmato a inizio febbraio un National Security Presidential Memorandum per ripristinare la “massima pressione” sul governo iraniano. In secondo luogo, per dissuadere Teheran dal tentare il breakout, gli Stati Uniti dovrebbero mettere in campo una serie di altre misure. Ossia: mantenere una stretta collaborazione con Israele e con gli altri alleati per fare capire all’Iran che si trova di fronte a una coalizione ampia; fare in modo che un’ampia schiera di alleati accetti di partecipare a una campagna per esercitare la massima pressione sull’Iran nel caso in cui arricchisca l’uranio oltre i livelli attuali (60%) o tenti in qualche altro modo il breakout.
Altri provvedimenti passano dall’uso di bombardieri stealth B-2 nelle esercitazioni e nelle operazioni che l’America conduce nella regione, per far capire che Washington potrebbe usarli nel caso in cui l’Iran tentasse il breakout; dall’inviare nell’area il Dark Eagle, il nuovo veicolo ipersonico planante a lungo raggio dell’esercito americano, per suggerire che, qualora ordinasse il breakout, la stessa leadership iraniana potrebbe diventare un bersaglio, visto che non tutti gli obiettivi nucleari potrebbero essere raggiungibili ed eliminabili.
Gli Stati Uniti potrebbero infine dimostrare la loro capacità di penetrare il programma nucleare iraniano con attacchi informatici o con altri mezzi, per fare capire al regime che qualunque arma nucleare sarebbe passibile di sabotaggio mentre costituirebbe un rischio per la sicurezza dell’Iran.
Date le preoccupazioni che Teheran nutre da tempo sui potenziali rischi e costi dell’atomica, anche cambiamenti politici anche relativamente piccoli, ma che influiscano sulla tradizionale avversione al rischio di Khamenei, potrebbero dissuadere il regime dal tentare il salto verso la costruzione di una bomba atomica. I timori della Guida suprema sono stati senza dubbio rafforzati dalla recente eliminazione, da parte di Israele, dei vertici di Hezbollah e della rete di proxies di Teheran.
Infine, per evitare che l’approccio di maggiore tolleranza al rischio da parte di Teheran diventi la norma, Washington dovrebbe incoraggiare Israele a reagire a ogni futuro eventuale attacco iraniano con contrattacchi calibrati in grado di indebolire ulteriormente le capacità militari convenzionali dell’Iran, mentre la minaccia di azioni contro le installazioni nucleari e i vertici del regime servirà da deterrente rispetto a un breakout. In questo modo gli Stati Uniti e i loro alleati riusciranno a indebolire la minaccia convenzionale, a evitare che Teheran si doti di armi nucleari e forse anche ad aprire la strada a un futuro accordo con l’Iran.
Questo testo si basa sullo studio dell’autore “If Iran gets the bomb: weapons, force posture, strategy”, oltre che sullo studio precedente, “Iran’s Nuclear Hedging Strategy: shaping the Islamic Republic’s proliferation calculus.”
E’ pubblicato sul numero 1-2025 di Aspenia