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Il paradosso iraniano: da “Stato-soglia” alla proliferazione nucleare

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Con l’attacco missilistico del 22 giugno, gli Stati Uniti hanno dissipato ogni dubbio su un coinvolgimento diretto nel conflitto contro l’Iran, colpendo tre impianti nucleari che hanno un ruolo chiave nel programma atomico della Repubblica islamica. L’operazione, condotta con bombardieri B-2 Spirit e missili Tomahawk lanciati da sottomarini, ha preso di mira i siti di Fordow, Natanz e il Centro di Tecnologia Nucleare di Isfahan. In risposta, l’Iran ha colpito una base americana in Qatar con una rappresaglia annunciata e priva di vittime, segnalando il chiaro intento di de-escalation. Una finestra diplomatica, aperta grazie alla mediazione di Doha, ha portato successivamente all’annuncio di un cessate il fuoco tra Iran e Israele da parte del presidente Trump.

 

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A livello operativo, Fordow è stato colpito con le celebri bombe GBU-57 da 30.000 libbre, usate in sequenza per massimizzare l’effetto penetrante, mentre è incerta la sorte di Kolang Gaz La, il nuovo sito in costruzione dal 2020 in un massiccio montuoso a sud di Natanz, destinato a ospitare centrifughe avanzate a grandi profondità. La peculiare conformazione di Fordow rende difficile valutare nell’immediato l’impatto, ma secondo il direttore dell’AIEA Rafael Grossi, le strutture avrebbero subito danni molto significativi, data la potenza degli ordigni e soprattutto la sensibilità delle centrifughe alle vibrazioni. Tuttavia ulteriori valutazioni, provenienti anche da fonti ufficiali come il Pentagono, indicano un impatto sul programma nucleare iraniano decisamente più contenuto rispetto all’ipotesi di una distruzione completa.

Un’immagine satellitare del 14 giugno del sito di Fordow, in Iran

 

Programma parallelo e uscita dal TNP

Come segnalato dall’AIEA a fine maggio, l’Iran ha aumentato del 50% le proprie scorte di uranio altamente arricchito rispetto al mese di febbraio. arrivando a oltre 400 kg di materiale al 60% di purezza, un livello appena sotto la soglia del 90% necessaria per scopi militari. Ad oggi, la Repubblica Islamica è l’unico Stato privo di armi nucleari a possedere uranio a questo grado, e va inoltre sottolineato che nessuno Stato che ha raggiunto il 60% di arricchimento ha poi rinunciato spontaneamente al programma nucleare militare. Al momento non è chiaro se materiale fissile arricchito al 90% sia mai stato prodotto in quantità significativa, né se ciò sia avvenuto in siti noti o non dichiarati. Nondimeno, gli sviluppi antecedenti al raid americano indicano un aumento concreto dei rischi di proliferazione.

Nel suo report, l’AIEA ribadisce infine le ben note criticità in tema di trasparenza. L’Iran non solo non ha fornito spiegazioni credibili su materiale nucleare non dichiarato rinvenuto in tre siti tra il 2019 e il 2022, ma ha reso di fatto impossibile verificare se quel materiale sia stato consumato, mischiato o collocato fuori dal controllo internazionale. Con i raid israeliani e americani, il margine di incertezza è ulteriormente aumentato, con effetti persino paradossali. Esiste infatti la concreta possibilità che l’Iran abbia rimosso l’uranio arricchito dalle centrifughe di Natanz e Fordow prima dei bombardamenti, con l’obiettivo di proseguire clandestinamente il processo di arricchimento fino al livello weapons-grade. Se questo scenario, ancora da verificare, trovasse conferma, significherebbe che, a fronte della distruzione di una parte significativa del programma nucleare ufficiale, la Repubblica Islamica dispone di impianti segreti, più piccoli e dislocati in località tuttora ignote, in cui incrementare la concentrazione di U235 al livello richiesto per l’arma atomica.

Un simile scenario costituirebbe una violazione manifesta degli obblighi previsti dal Trattato di Non Proliferazione, che Teheran ha già in passato disatteso. L’esistenza di un programma parallelo, sottratto ai controlli internazionali, equivarrebbe di fatto all’uscita dell’Iran dal regime del TNP, contraddicendo apertamente la linea ufficiale più volte ribadita dalla Guida Suprema Khamenei, contraria allo sviluppo di armi nucleari e mai rinnegata ufficialmente. In questo contesto, la Repubblica Islamica assumerebbe ufficialmente lo status di “Stato-soglia” (threshold state), ovvero di uno Stato a un passo dal possesso effettivo dell’arma nucleare. Anche se fosse venuto meno il programma ufficiale e al netto di ulteriori interventi militari da parte di Stati Uniti o Israele, l’unico ostacolo tecnico residuo resterebbe la weaponization, ossia il processo di trasformazione del materiale fissile in ordigno bellico. Un processo complesso, specie per un Paese la cui leadership scientifica è stata in parte decapitata dai raid di Netanyahu, ma che potrebbe conoscere un’accelerazione con il supporto tecnico di attori esterni.

 

Proliferazione fuori controllo

Il raggiungimento della soglia del 60% di arricchimento colloca il programma atomico della Repubblica Islamica ad un livello tale da rendere la riconversione dell’uranio a scopi militari, ossia al livello del 90% richiesto per la costruzione di un ordigno, questione di pochi mesi sul piano teorico. A rafforzare il rischio di proliferazione concorrono in particolar modo due elementi chiave: da un lato, non si può escludere che Teheran disponga già di una quantità limitata di uranio arricchito oltre la soglia weapons-grade del 90%, eventualmente prodotto in siti non dichiarati. Dall’altro, le competenze accumulate nel quadro del vecchio Progetto AMAD suggeriscono che la Repubblica Islamica possa già disporre delle conoscenze teoriche necessarie per effettuare test subcritici, tappa fondamentale verso lo sviluppo effettivo di una bomba.

In questo quadro, l’assenza di verifiche internazionali sul campo da parte dell’AIEA, aggravata dalle conseguenze degli eventi bellici sul piano politico e militare, impedisce qualsiasi ricostruzione attendibile della sorte del materiale già arricchito. Le immagini satellitari mostrano camion in uscita dal complesso di Fordow nei giorni immediatamente precedenti ai raid, alimentando il sospetto che Teheran abbia evacuato parte delle scorte prima degli attacchi, forse per continuare l’arricchimento in strutture sconosciute. È dunque tutt’altro che certo che le operazioni congiunte di Stati Uniti e Israele abbiano effettivamente interrotto il programma nucleare: il rischio paradossale è che lo abbiano accelerato, costringendo l’Iran a sottrarre le attività agli occhi dell’AIEA e della comunità internazionale.

 

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Negli anni passati, l’unico strumento non coercitivo a disposizione della comunità internazionale per fare pressione su Teheran è stato l’accesso dell’AIEA a tutti i siti iraniani, noti e sospetti, che ha garantito almeno una sorveglianza parziale sul programma nucleare. Questa condizione, che ha costituito la base degli accordi del JCPOA, ha rappresentato l’unica leva di controllo a seguito dell’allentamento delle sanzioni economiche, nonostante possibili violazioni degli obblighi di trasparenza da parte dell’Iran. L’uscita degli Stati Uniti dall’accordo ha rappresentato il grimaldello che ha favorito il riavvio delle attività nucleari, fino a quel momento sospese o rallentate. Tuttavia, l’abbandono della cooperazione multilaterale non ha escluso il ricorso a operazioni di intelligence mirate, che hanno contribuito a ritardare, ma non a fermare, il processo di arricchimento dell’uranio.

 

Crisi multilaterale e corsa all’arma atomica

Un simile scenario renderebbe concreto il rischio di proliferazione orizzontale nel Golfo, aprendo la strada a una corsa al nucleare in Medio Oriente destinata a travalicare i confini iraniani. L’Arabia Saudita, che da tempo ha manifestato l’intenzione di sviluppare un programma nucleare civile con tecnologia statunitense, potrebbe sciogliere le proprie ambiguità e intraprendere la strada della deterrenza. La Turchia, da parte sua, ha più volte rivendicato il diritto a dotarsi di un proprio arsenale nucleare, in chiave di riequilibrio rispetto alle altre potenze regionali.

La decisione degli Ayatollah di proseguire l’arricchimento dell’uranio al di fuori del perimetro normativo previsto dal Trattato di Non Proliferazione rischia di alimentare una nuova ondata di attacchi, da parte di Israele o dagli Stati Uniti, nel momento in cui risulti evidente che Teheran sta dissimulando le proprie reali intenzioni in materia di armamento nucleare. In tale contesto appare evidente una crisi di credibilità, ormai conclamata, del regime multilaterale di non proliferazione. Dopo i precedenti di Pakistan e Corea del Nord degli ultimi anni, un Iran dotato dell’arma atomica segnerebbe il punto di non ritorno per quello che è stato, finora, il trattato più efficace in termini di adesione e rispetto degli obblighi. Con un paradosso evidente: a garantire fino a oggi la tenuta del TNP in Medio Oriente è stato proprio Israele, uno Stato che non ne ha mai fatto parte.

 

Supporti esterni e trasferimento tecnologico

Non va infine esclusa l’eventualità, sempre più concreta, che parte dell’uranio disperso o delle tecnologie compromesse entri in contatto con circuiti non ufficiali. Se da un lato la Russia non ha sinora fornito assistenza militare diretta a Teheran, dall’altro persistono seri interrogativi su possibili trasferimenti anche indiretti, di know-how e componenti da parte del Pakistan, già in passato crocevia di proliferazione nucleare attraverso la rete Khan o, ancor più, della Corea del Nord, che potrebbe rapidamente offrire un prezioso contributo agli Ayatollah, tanto sul piano delle conoscenze quanto su dell’hardware, per compensare i ritardi sulla tabella di marcia imposti dai bombardamenti.  Nonostante queste ipotesi non possano essere escluse, la loro concreta realizzazione appare oggi complessa. Come dimostrano le operazioni degli ultimi giorni, Israele ha ribadito la capacità di colpire selettivamente individui e asset critici, rendendo estremamente rischioso qualsiasi tentativo di trasferimento tecnologico.

Il programma nucleare degli Ayatollah riprese dalle ceneri dell’eredità dello Shah nella seconda metà degli anni Ottanta, con il coinvolgimento di Pakistan e Cina culminato in due protocolli di cooperazione rispettivamente nel 1985 e nel 1990. Dopo la guerra Iran-Iraq, la Russia ha intensificato il proprio ruolo nel nucleare civile iraniano, supportando la costruzione di impianti per la produzione di energia con la Rosatom. Nel 1995, l’Iran firmò un accordo con la Russia per completare il reattore di Bushehr e, in prospettiva, per un impianto di arricchimento dell’uranio, mai realizzato a causa delle pressioni statunitensi su Boris Yeltsin. Nonostante gli impegni ufficiali, entità russe e cinesi continuarono in parte a fornire assistenza tecnica negli anni Novanta, mentre l’Iran acquisiva tecnologia per l’arricchimento dell’uranio anche attraverso la rete di mercato nero gestita da A.Q. Khan.

Il network di A.Q. Khan ha dimostrato come una rete privata, con significative connessioni statali, possa supportare diverse fasi di un programma nucleare, fornendo clandestinamente know-how e materiale sensibile, come nel caso della Corea del Nord. Questo modello ha evidenziato come la proliferazione non sia più un fenomeno solo statale, ma si alimenti anche attraverso mercati neri transnazionali, rendendo più complesso il controllo e la prevenzione. In un passato non troppo lontano, caratterizzato da un maggior favor per le iniziative multilaterali, la vicenda di A.Q. Khan ha portato la comunità internazionale a promuovere la creazione di strumenti come la Proliferation Security Initiative e ad accogliere Russia e Cina nel Nuclear Suppliers Group.

Oggi, in un contesto di crescente isolamento internazionale, Teheran potrebbe essere tentata di emulare il modello nordcoreano o pakistano, sviluppando un programma nucleare segreto con un limitato affidamento a fonti esterne.

In conclusione, la storia della proliferazione nucleare conferma come i trasferimenti tecnologici rimangano un elemento chiave nella diffusione degli armamenti atomici. Nel caso iraniano, la tentazione di adottare un modello isolato, simile a quello nordcoreano, accresce i rischi per la sicurezza regionale e globale, proiettando il mondo sull’orlo di una nuova corsa agli armamenti dagli esiti sempre più incerti e imprevedibili.