L’Egitto e il multipolarismo mediorientale nelle nuove geografie del potere
In un Medio Oriente frammentato e segnato da conflitti intrecciati e nuovi equilibri di potere, l’Egitto si muove con cautela per ritagliarsi un ruolo strategico in uno spazio ormai multipolare. Lo fa con minori ambizioni rispetto al passato, cercando di bilanciare le sfide interne (crisi economica e di sicurezza, fragilità democratica) con le tensioni regionali (Gaza, Libia, Sudan, Mar Rosso) e la sua vocazione diplomatica, in particolare, sul dossier palestinese. In questo quadro complesso, la leadership egiziana si interroga su come costruire una visione strategica di medio-lungo periodo che non sia solo una risposta alle emergenze, ma una vera agenda proattiva.
Alcune direttrici sono ben chiare, come l’interesse crescente mostrato verso il Mediterraneo e il settore energetico, dove l’Egitto punta a diventare uno snodo centrale nelle reti di comunicazione e trasporto internazionale, soprattutto marittime. Al contempo, però, ci sono dossier strategici in cui il Paese rischia di restare ai margini. È il caso dell’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC) e degli accordi di Abramo. In entrambi i casi, il Cairo non è un protagonista diretto, ma la sua posizione geografica e il peso storico lo rendono comunque un attore difficile da ignorare. Il rischio, infatti, è che senza un ruolo definito, lo stato nordafricano finisca per risultare una sorta di spettatore dei cambiamenti sistemici che stanno ridisegnando la regione.

Il Cairo nella partita per l’IMEC
Lanciato ufficialmente al G20 di Nuova Delhi nel settembre 2023, e poi promosso soprattutto in ambito G7, l’IMEC ha promesso di collegare Asia Meridionale, Golfo Persico, Levante ed Europa attraverso un articolato complesso infrastrutturale di rotte marittime, ferrovie ad alta capacità e nodi logistici integrati. Il corridoio si articola in due tratte principali: una orientale, dall’India alla Penisola Arabica, e una occidentale, dal Golfo Persico all’Europa, via Giordania e Israele. L’obiettivo strategico della proposta indiana, sostenuta da Stati Uniti e Unione Europea, è duplice: da un lato, offrire un’alternativa più efficiente e meno vincolante rispetto alla cinese Belt and Road Initiative; dall’altro, ridurre la dipendenza dalle rotte tradizionali, in particolare dal Canale di Suez, un passaggio obbligato per il traffico marittimo euro-asiatico.
Il Canale di Suez è uno degli asset vitali per l’economia egiziana e ne garantisce una posizione geografica vantaggiosa nelle rotte commerciali e nelle linee di comunicazioni sottomarine internazionali tra Europa e Asia. Ciò assicura all’Egitto 8,8 miliardi di dollari l’anno in entrate (circa il 10% del PIL ) e rappresenta una leva fondamentale per l’influenza geopolitica del Paese. Prima del conflitto in corso tra Israele e Hamas a Gaza, da Suez e attraverso il Mar Rosso passavano circa il 30% del traffico container, il 7-10% del petrolio e circa l’8% del gas naturale liquido a livello mondiale – valori oggi per lo più dimezzati nel loro complesso, soprattutto grazie alle azioni di disturbo condotte dagli Houthi dallo Yemen. Il Mar Rosso, inoltre, è cruciale per il traffico internet globale poiché circa il 90% del flusso di quei dati viaggia attraverso i cavi sottomarini (di proprietà di Amazon, Google e Meta) che lo attraversano. L’Egitto è un nodo cruciale in questa rete che garantisce importanti collegamenti verso Asia, Africa e Europa.
Di fatto, ogni progetto che, come IMEC, punta ad aggirare il Paese viene percepito come una minaccia diretta alla sua sicurezza economica e dunque alla stessa sostenibilità politica dell’attuale regime, che negli anni non è stato in grado di imporre una linea di sviluppo nazionale coerente, gravato com’era da alta inflazione, deficit commerciali e una crescita del debito pubblico. E questo, nonostante gli ingenti aiuti internazionali giunti nell’ultimo decennio e in parte sperperati dietro i numerosi (ed estremamente onerosi) grandi progetti infrastrutturali (come la costruzione della Nuova Capitale Amministrativa, il distretto industriale di el-Alamein o l’area mega-resort di lusso di Ras al-Hekma), che hanno ribadito una cronica incapacità produttiva egiziana nel generare benessere economico per la popolazione, indebolendo invece le fondamenta finanziarie generali del paese. La possibilità che una parte del traffico commerciale si sposti verso corridoi alternativi a Suez rischia di erodere progressivamente la centralità geografica, strategica e diplomatica di cui il Cairo gode e che da decenni ne ha garantito la funzione nel sistema globale.
Nonostante questi rischi l’Egitto dispone di margini di manovra per trasformare la sfida in un’opportunità strategica. Potrebbe proporsi come uno snodo logistico secondario, valorizzando i propri porti sul Mediterraneo (Alessandria, Damietta e Port Said) e sul Mar Rosso (Ain Sokhna, Hurghada e Safaga) per integrarsi nelle nuove rotte commerciali o in diretta connessione con il progetto indiano. Si spiegherebbe anche in questa ottica l’attenzione di Nuova Delhi e del colosso nazionale della logistica portuale Adani Group verso i principali scali merci egiziani del Mar Rosso. Inoltre, il Cairo può rappresentare – seppur a determinate condizioni da definire in maniera chiara con USA e Paesi mediorientali – un fattore di affidabilità, continuità e stabilità diplomatica che lo renderebbe un partner complementare all’interno di IMEC.
L’Egitto potrebbe dunque ritagliarsi un ruolo da “interlocutore strategico” non solo nel progetto indiano ma in tutte quelle architetture economiche e di sicurezza regionali che mirano a riconfigurare la regione. In passato furono gli accordi di Camp David[1] oggi invece tale ruolo dovrebbe essere rivestito dagli accordi di Abramo. Un processo che verosimilmente si rafforzerà in via definitiva solo con il completamento delle intese e l’ingresso – comunque non nel breve periodo – dell’Arabia Saudita nel piano di normalizzazioni israelo-arabe fortemente sostenute dagli Stati Uniti.
L’Egitto e l’“alleanza di Abramo”
Sin dal settembre 2020, la ratio essenziale che ha guidato gli accordi di Abramo – lanciati dalla prima amministrazione Trump – era la riduzione delle tensioni esistenti in Medio Oriente attraverso una normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi considerati moderati. Infatti, nel calcolo politico statunitense si riteneva che l’uso della leva geoeconomica potesse offrire alle parti interessate incentivi ghiotti (accesso a tecnologie avanzate e nuove opportunità economico-commerciali) atti a disinnescare tensioni geopolitiche profonde o in grado di aggirare, anche, quei conflitti storicamente radicati come quello palestinese. L’ispirazione alla base degli accordi risiedeva nella convinzione che la comune percezione israelo-araba verso la minaccia sistemica iraniana potesse unire un fronte così eterogeneo. Dal 7 ottobre 2023, però, il processo è sostanzialmente congelato a causa degli impatti multilivello causati dal conflitto a Gaza e nell’intero Medio Oriente.
Anche in questa cornice, l’Egitto non ha giocato un ruolo centrale ma in parte ciò è giustificato dall’essere stato il primo Paese arabo ad aver normalizzato le relazioni con Tel Aviv, con la firma del trattato di pace del 1979. Oltre ad aver rotto un notevole tabù relazionale nella storia della regione, quel passo ha conferito all’Egitto un certo grado di legittimità nel dialogo israelo-arabo e nella ridefinizione delle alleanze mediorientali, aprendo la strada ad altri attori (come la Giordania con il suo trattato di pace del 1994) e, con decenni di distanza, alla successiva normalizzazione tra Israele e le altre cancellerie arabe del Golfo Persico[2].
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Le intese firmate a Washington nel settembre 2020 tra Israele, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrain, sotto la supervisione statunitense, hanno rafforzato quello spostamento dell’asse di interessi dal Levante al Golfo Persico, iniziato già da prima delle Primavere arabe, posizionando questo quadrante geografico come il “nuovo” fronte politico fondamentale per lo sviluppo degli equilibri di potere mediorientale. Un fattore che, almeno indirettamente, ha ridotto la centralità dell’Egitto come “ponte” e/o “facilitatore” dei rapporti tra Tel Aviv e mondo arabo. Tale evoluzione non ha annullato la rilevanza strategica del Cairo, che rimane comunque fondamentale nei dossier politici e di sicurezza regionali più delicati (ne è dimostrazione il caso di Gaza), ma ha visto, però, progressivamente confermare quella tendenza all’indebolimento della sua influenza diplomatica.
Il governo del Cairo continua a essere considerato un interlocutore valido da Stati Uniti, Israele, Unione Europea e fazioni palestinesi, ma il suo prestigio acquisito non si è tradotto nel recupero di un’autonomia strategica paragonabile a quella goduta in passato né in una capacità di imporre posizioni all’interno della Lega araba.
Il peso diplomatico dell’Egitto nel Medio Oriente in trasformazione
Una riprova di ciò è quanto andato in scena durante il vertice straordinario dell’organizzazione tenutosi il 4 marzo al Cairo, convocato per elaborare una risposta congiunta alternativa alla proposta di “riviera mediorientale” avanzata da Donald Trump per il futuro post-bellico di Gaza. In quella sede, i leader arabi hanno approvato un piano (proposto proprio dall’Egitto) da 53 miliardi di dollari destinato alla ricostruzione dell’enclave palestinese e volto a garantire la permanenza in loco dei 2,1 milioni di gazawi.
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Con questa iniziativa, il Cairo ha cercato di contrastare la visione di Washington e Tel Aviv, riaffermando le proprie prerogative regionali, sebbene in parziale divergenza con alcune posizioni degli alleati arabi del Golfo. Non a caso, mentre il Qatar ha mantenuto il suo endorsement opportunistico nei confronti di Hamas, EAU e Arabia Saudita hanno spinto per un deciso cambio di rotta, senza però giungere ad una convergenza su una proposta comune ai vertici dell’Autorità nazionale palestinese (ANP)[3]. A complicare tali dinamiche sono intervenuti anche gli interessi diretti di Abu Dhabi e Riad nel rafforzare l’asse con Israele in ottica “accordi di Abramo”, che, tuttavia, continua ad essere un elemento di frizione e divisione soprattutto nel campo arabo. L’obiettivo egiziano era, quindi, duplice: da un lato, prevenire ulteriori ricadute destabilizzanti sul piano della sicurezza nazionale derivanti dal deterioramento dello scenario umanitario a Gaza; dall’altro, promuovere un’iniziativa diplomatica tesa alla definizione di un’intesa politica per un governo palestinese di unità nazionale sotto la guida congiunta di Fatah e Hamas.
Il dato diplomatico più grave è che l’amministrazione Trump ha ufficialmente respinto il piano egiziano, ritenendolo inadatto al contesto e convinta della possibilità di spingere le parti arabe attraverso pressioni molteplici[4] ad accettare le posizioni USA. Da parte sua il Cairo, pur evitando reazioni pubbliche eclatanti, ha adottato una postura più assertiva sul piano politico e militare: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha rifiutato di recarsi a Washington per incontrare Trump e discutere del piano USA per Gaza, e ha contestualmente rilanciato colloqui con la Cina per la fornitura dei caccia J-10CE per modernizzare la propria flotta e potenziare le capacità difensive. Sul piano militare, inoltre, il Cairo ha rafforzato la presenza nel Sinai: in aprile, infatti, il governo ha autorizzato lo schieramento da parte delle Forze Armate egiziane di carri armati Patton e Abrams nella zona D della Penisola sinaitica, vicino al confine con Israele e Gaza, in aperta violazione del trattato di pace del 1979. Israele ha reagito duramente chiedendo l’immediato ritiro dei mezzi, ma le autorità cairote hanno risposto dichiarando che il paese avrebbe difeso la propria sicurezza e sovranità nel caso di un’invasione da parte delle truppe israeliane.
La nuova geografia regionale e le alternative possibili
La transizione in corso mette sotto pressione il ruolo storico dell’Egitto come polo di riferimento del mondo arabo. In un contesto del genere, il Cairo appare in affanno e preso dai suoi problemi interni – una crisi economica strutturale, un’elevata crescita demografica, deficit democratici palesi e tensioni sociali sempre pronte a riemergere – che limitano la capacità di proiezione verso l’esterno. La leadership egiziana si trova, dunque, nella difficile posizione di dover riconciliare ambizioni regionali con una realtà interna che impone prudenza, compromessi e gradualità.
Nonostante le difficoltà, l’Egitto mantiene, però, un vantaggio chiave: la sua posizione geostrategica. Il controllo del Canale di Suez e la vicinanza a regioni sensibili come il Mediterraneo, il Corno d’Africa, il Levante e il Sahel lo rendono un attore centrale anche quando non ha un ruolo di primo piano. Ecco perché in un contesto internazionale sempre più fluido, l’Egitto ha ampliato le sue relazioni oltre l’asse euro-americano, rafforzando i legami con Cina, Russia e India, e riposizionato la sua bilancia d’interessi, soprattutto in Africa. Queste aperture rispondono a una strategia di diversificazione e autonomia in linea con il nuovo ordine multipolare.
Più che aspirare a una leadership araba esclusiva, oggi il Cairo punta a essere un perno regionale e un “ponte” tra le grandi potenze, valorizzando i propri punti di forza. In altre parole, l’Egitto ha sì perso parte della rilevanza del passato, ma ha capito di poter giocare allo stesso tavolo dei big player regionali e internazionali ridefinendo il suo ruolo alla luce delle rinnovate gerarchie. Una posizione di equilibrio fondata su diplomazia, logistica e apertura multipolare che può permettergli di restare strutturalmente funzionale nelle dinamiche competitive e frammentate del Medio Oriente odierno.
Pertanto, il Cairo si trova dinanzi ad una scelta cruciale: accettare la marginalizzazione in un ordine mediorientale in profonda trasformazione o valorizzare i suoi asset storico-geografici per ridefinire il proprio spazio d’azione. Tra IMEC, accordi di Abramo e nuove geografie strategiche, il Paese non è al centro della mappa, ma potrebbe diventare un punto di equilibrio. Per riuscirci, servirà una visione a lungo termine, una politica estera più proattiva e un rilancio strutturale della sua economia. Solo così il Cairo potrà riaffermarsi come attore influente del nuovo Medio Oriente multipolare.
Note:
[1] Gli accordi di Camp David sono un combinato di intese politiche firmate nel 1978 tra il Presidente egiziano Anwar al-Sadat e il Primo Ministro israeliano Menachem Begin sotto la mediazione statunitense di Jimmy Carter. Le intese includevano sia un accordo quadro per la pace in Medio Oriente che puntava a definire una soluzione definitiva (ma mai raggiunta) per la questione palestinese, sia un trattato di pace tra Egitto e Israele firmato nel 1979.
[2] Nei mesi successivi, al blocco abramitico si unirono anche Marocco (dicembre 2020) e Sudan (gennaio 2021). Con quest’ultimo, tuttavia, il processo può definirsi non pienamente sviluppato a causa delle tensioni domestiche successive alla guerra civile ancora in corso.
[3] Secondo la prospettiva emiratina, in una ipotesi di governance futura post-guerra a Gaza, il nome di Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah nella Striscia, rappresenterebbe la soluzione migliore per guidare l’ANP al posto del suo attuale presidente, Mahmoud Abbas.
[4] Il presidente Trump, ad esempio, ha minacciato, senza successo, un taglio dei sussidi militari al Cairo e possibili ritorsioni economico-commerciali ai partner arabi del Golfo Persico.