600 giorni di distruzione a Gaza: un accumulo di atrocità e sofferenze tanto grande da trasformarsi, anche per chi non ne è direttamente toccato, in un centro propulsore di coinvolgimento e angoscia. Come un cratere nucleare che non cessa di emettere le sue devastanti radiazioni. Aveva ragione chi fin dall’inizio disse che sarebbe andata così. In Occidente il racconto mediatico è stato giudicato insufficiente a cogliere la reale portata degli eventi. E la politica è stata giudicata incapace di reagire e opporsi, in un modo o nell’altro – se non per complicità, almeno per convenienza o disimpegno.

Una consapevolezza nuova
C’è senz’altro del vero in queste valutazioni; anche perché resta un fatto che tutti o quasi i legami economici e commerciali, inclusi quelli cruciali come le armi o l’energia, tra Israele e i suoi partner occidentali sono rimasti in piedi. Come anche quelli diplomatici. Ma va anche detto che se l’esistenza e il significato di questi legami si sta ora affacciando alla parte centrale del dibattito pubblico in Europa e negli Stati Uniti, è anche perché sia l’atteggiamento dei media che quello della politica è cambiato, è evoluto nel corso dei mesi, spinto da una più solida consapevolezza e informazione dell’opinione pubblica, che ha d’altronde un numero di fonti piuttosto alto a cui attingere. Una svolta ancor più netta è avvenuta dopo la rottura del cessate il fuoco in marzo da parte israeliana.
In effetti, a spiegare questa evoluzione, tra molti altri elementi conta anche la durata dell’operazione militare israeliana contro Gaza. Ci avviamo verso i due anni, e non se ne può prevedere la fine. Una durata tale, accompagnata da uno stillicidio quotidiano di informazioni (le ultime delle quali riguardano l’esercito israeliano che spara sulle folle da esso stesso affamate, in attesa del cibo in gabbie di metallo) così drammatico da far sbiadire il ricordo del terribile pogrom di Hamas del 7 Ottobre, che aveva portato a Israele la solidarietà di tutto il mondo.
Il governo di Benjamin Netanyahu è stato non solo capace di sperperare quel capitale diplomatico, ma ha toccato eccessi tali da far cadere sul suo Paese l’accusa di genocidio. Comunque la si pensi su questo termine, usato di certo in maniera eccessiva e strumentale nell’arena mediatica per il suo immenso carico evocativo e storico (a maggior ragione se applicato all’ebraismo), è un fatto che la quasi unanimità degli esperti mondiali sul tema concordi sulla sua appropriatezza. Come loro, anche molti accademici e storici israeliani specializzati sull’Olocausto, tra cui Omer Bartov, Amos Goldberg e Daniel Blatman.
Ancor più significativo è che non solo in Europa e Stati Uniti, ma anche all’interno di Israele, una parte importante dell’opinione pubblica sta forse non facendo sua quell’accusa, ma ne sta almeno discutendo. Una frattura che non si era verificata (o in misura minore) in altre guerre israeliane: era stato buon profeta chi aveva previsto che la strage di Gaza sarebbe risultata in un trauma profondissimo, forse esistenziale, per lo stato che la stava compiendo. Se in Israele si moltiplicano le diserzioni dall’esercito, se persino l’ex primo ministro conservatore Ehud Olmert ammette che nella Striscia si commettono “crimini di guerra”, se gli israeliani sono tornati in massa a protestare contro il governo e per la pace, se sui media mainstream si parla del doppio gioco di Netanyahu con le milizie islamiste di Gaza, o si accettano i paragoni con il nazismo, se il numero di persone che lascia il Paese è triplicato in tre anni, il governo israeliano può soltanto ringraziare sé stesso.
Le poche opzioni in campo
In effetti lascia sconcertati l’estremo cinismo con cui Netanyahu e i suoi ministri insistono nel dichiarare che l’obiettivo dell’operazione militare sia “lo sradicamento di Hamas” e “la liberazione degli ostaggi”. Dato che, sempre loro, allo stesso tempo – dopo la morte di quasi 60mila gazawi secondo le fonti più prudenti – giustificano la continuazione della guerra dipingendo una Hamas in totale controllo della Striscia e della sua popolazione: e dunque cos’hanno ottenuto in un anno e mezzo? In più, hanno essi stessi infranto la tregua che in inverno aveva permesso la liberazione di un gran numero di ostaggi.
Il fallimento strategico da questo punto di vista è eclatante. E seppure si volesse considerare come vero scopo dell’operazione la cacciata dei palestinesi dalla Striscia e la loro sostituzione con colonie israeliane, spesso comunque rivendicata apertamente dal governo, al di là del merito di un’operazione dichiarata di pulizia etnica, occupazione e colonizzazione degna dei peggiori precedenti storici, non si vedono “progressi” nemmeno su questo. Il gruppo di Paesi arabi guidati dall’Arabia Saudita, a cui appartengono Egitto e Giordania, a cui pare concesso il diritto di sanzionare positivamente o meno questa scelta e la cui posizione resta fondamentale per gli equilibri regionali, almeno qui non pare disposto a transigere.
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Se invece, come si è detto, la guerra serviva al premier per rimanere al potere, non c’è dubbio che abbia funzionato. I fronti si sono moltiplicati: Libano, Cisgiordania, Yemen. Ma se “la guerra per la guerra” è stata un’ottima assicurazione sulla sua vita politica, Netanyahu in questo modo si è anche privato di tutte le altre opzioni: è chiaro come il sole che non potrà mai essere lui quello che farà tacere le armi, a meno che non vi sia costretto.

Noi e loro
Ma oltre a tutto questo, Gaza tormenta l’Occidente perché rivela e costringe a riflettere sul rapporto con l’altro e con il diverso di ognuno di noi e di noi come collettività; sull’ebraismo, l’antisemitismo e Israele; sui muri o i veli che separano vittime e carnefici; sul colonialismo, la religione e la convivenza; sugli errori storici e politici commessi nei confronti del mondo arabo o dal mondo arabo; sulla legittimità e i limiti del concetto di “resistenza”. Tutti elementi che richiamano episodi o epoche della nostra storia che vorremmo relegati alla distaccata “memoria” ufficiale, non al doloroso quotidiano immanente. Ma lo tormenta anche perché la “radiazione” del cratere di Gaza è alimentata dalla presenza fuori dai luoghi della distruzione, ma dentro l’Occidente, cioè vicino a noi, delle comunità ebraiche, e di quelle arabe (o islamiche).
L’aumento degli atti di intolleranza in Europa e USA è dunque una conseguenza quasi scontata delle atrocità commesse in Medio Oriente. Ma non c’è solo questo. Di certo, è una complessa prova a cui le nostre società sono sottoposte, dal punto di vista della capacità di garantire spazi di dibattito civili e democratici, nel rispetto reciproco, a tutte le componenti interessate. Tanto più complessa data la diversa posizione, consistenza, influenza e legami internazionali delle diverse comunità, e degli stati di riferimento. Forse non ci piace ricordarlo, visto come sono andate, ma Europa e USA hanno condotto nell’ultimo quarto di secolo svariate guerre nei confronti di Paesi musulmani – così come sono state colpite, e continuano ad esserlo, come in Germania, da attentati di matrice islamica.
Negli Stati Uniti, “la discriminazione antiebraica” è la ragione asserita dall’amministrazione Trump per togliere fondi ad alcune grandi università, tra cui Harvard. Una decisione criticata dallo stesso American Jewish Committee, preoccupato oltre che dell’arbitrio che comportano scelte simili, anche della conseguente banalizzazione del concetto stesso di antisemitismo, dovuta anche al suo uso strumentale, e alla lunga controproducente, come oggetto politico. Effettivamente, l’equivalenza tra Israele ed ebraismo, che porta con sé la pretesa che il suo governo rappresenti tutti gli ebrei del mondo, è tipica dello stesso premier israeliano: Netanyahu etichetta sempre le critiche internazionali al suo governo come “antisemite”, oltre a condire le sue politiche di millenarismo religioso. Allo stesso modo, governi di Paesi come Iran o più recentemente Turchia sono concordi nel vedere nelle vittime palestinesi persone uccise in quanto “islamiche” – interpretazione rifiutata però dalla maggior parte dei Paesi arabi, che mantengono rapporti diplomatici e commerciali più o meno solidi con Israele.
La guerra del XXI Secolo
Per questa serie di ragioni, quella di Gaza è una vera “guerra mondiale” del XXI Secolo. Un po’ come per l’Ucraina, l’altro conflitto a cui si può applicare questa definizione, lo è non tanto per l’estensione della zona in cui si combatte, abbastanza ridotta in entrambi i casi. Ma soprattutto per la rete di coinvolgimento globale che porta con sé. Globale sì, ma per quanto elencato finora, con l’Occidente in primo piano. In effetti, la relazione tra Israele e le altre due grandi potenze mondiali, Russia e Cina, è rimasta abbastanza inossidabile al conflitto. Pechino ha anzi consolidato il suo status di primo partner commerciale di Israele, mentre il governo di Netanyahu non si è mai unito ai regimi di sanzioni occidentali contro Mosca. Lo stesso può dirsi dell’India.
Sarà probabilmente un caso, ma i tre colossi della geopolitica extra-occidentale hanno in comune con Israele (sebbene in misura e con caratteristiche diverse) un territorio limitrofo – Ucraina, Taiwan, Kashmir – sul quale affermano di voler proiettare la propria sovranità ed estendere il proprio controllo. E una minoranza musulmana interna alla quale negano la pienezza dei diritti di cui gode il resto della cittadinanza.
Sono comunque in molti ad argomentare di come Gaza sia un “fallimento dell’Occidente“, una spietata dimostrazione insomma della contraddizione tra principi e fatti. Un’argomentazione più che legittima, nonostante quanto appena evidenziato, a cui va aggiunta una considerazione poco esplorata: nel proprio immobilismo, Europa e Stati Uniti hanno anche trascurato una leva potenzialmente utile – quella della collaborazione con i Paesi arabi.
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Ma da parte loro questi ultimi – in particolare quelli del Golfo, che godono di un potere globale senza pari nella storia, a cominciare dalla finanza e dall’energia, ma anche nelle armi e nelle comunicazioni – non hanno mai mostrato né la volontà né la capacità di intervenire davvero nella questione. L’Arabia Saudita di Mohamed bin Salman in particolare considera la distensione con Israele necessaria: tanto che la copertura degli eventi a Gaza da parte del network internazionale saudita, Al-Arabyia, è stata ripetutamente bollata come “sionista” dai critici.
Radiazione e cura
Infine, si moltiplicano le voci secondo le quali tra le vittime di Israele a Gaza va contato anche l’ebraismo: quella di Jean Hatzfeld, massimo studioso del genocidio ruandese, è una delle più rilevanti. Ma fu già Primo Levi all’epoca dell’invasione israeliana del Libano (1982, operazione “Pace in Galilea”), evento tristemente in parte paragonabile alle vicende odierne della Striscia, a notare la stessa consequenzialità e a parlare di un’inesorabile delegittimazione e degradazione morale a cui lo stato di Israele e il sionismo sarebbero andati incontro “se avessero proseguito nella loro deriva militarista e fondamentalista” – così lo scrittore di Se questo è un uomo nei suoi interventi sulla stampa italiana di allora.
Se evidenziamo questo aspetto è per sottolineare la connessione diretta tra l’abbandono del principio di universalità e di quello di eguaglianza come cardine dell’agire politico-legislativo ma anche come punto di riferimento culturale, e l’implementazione di narrative e poi politiche separatiste e suprematiste. Queste non possono non sfociare nel conflitto radicale tra categorie di esseri umani, e nella ricerca, da parte dei centri di potere che le perseguono, di recinti territoriali o giuridici ex legibus soluti, cioè liberi da ogni garanzia, controllo e responsabilità legale, in cui esercitare le proprie prerogative.
Il caso del sistema di assistenza umanitaria internazionale indipendente nella Striscia, sostituito da Israele con uno privato e mercenario, sfociato in un ennesimo disastro di tragiche proporzioni, è piuttosto eloquente al riguardo. Ma, come tante altre, è una tendenza globale. Per l’Occidente, un modo per curare la sua angoscia sarebbe quello di dedicarsi a impedire che si riproduca, fermando almeno in questo senso la “radiazione” di Gaza.