Le nuove vie delle metropoli dell’Africa mediterranea
Nessun viaggiatore occidentale che attraversi le strade del Cairo sfugge alla sensazione di sconcerto dinanzi al caos pittoresco e debordante della capitale egiziana. Traffico impazzito e rumoroso, inquinamento e rifiuti ammassati, eserciti di venditori di qualsiasi cosa lungo i marciapiedi, nugoli di persone affaccendate colpiscono l’immaginazione di chiunque non abbia familiarità con questo ambiente urbano. Tali caratteristiche accomunano, al di là delle peculiarità locali, tutte le grandi città dei Paesi dell’Africa mediterranea, da Tunisi a Casablanca, da Algeri ad Alessandria d’Egitto. Guardate dall’opulenta sponda europea, le metropoli del margine meridionale non sembrano capaci di offrire condizioni di vita allettanti. Eppure, sono sempre di più le persone in cerca di un futuro migliore che vi si trasferiscono, pronte a cogliere opportunità inesistenti nelle campagne e nei villaggi d’origine. Contribuendo così ai profondi cambiamenti che stanno interessando le società nordafricane.
Persistenti squilibri demografici tra nord e sud del Mediterraneo
Nei 22 Paesi bagnati dalle acque del Mediterraneo vivono 525 milioni di persone, cioè due volte e mezza i 206 milioni del 1950. Secondo le proiezioni più aggiornate delle Nazioni Unite, contenute nella revisione del 2022 del World Population Prospects, entro la metà di questo secolo la popolazione della regione crescerà di altri 110 milioni di individui, superando la soglia dei 635 milioni. La sua distribuzione sarà tuttavia molto diversa rispetto all’immediato dopoguerra, quando i due terzi degli abitanti vivevano lungo la sponda nord. Oggi, le due rive del Mediterraneo sono equivalenti dal punto di vista demografico, con il 39 % degli abitanti sul margine meridionale e il 38 % lungo quello settentrionale. Tra meno di tre decenni, le cose saranno molto diverse, con i Paesi nordafricani che insieme raggiungeranno di 289 milioni di persone, aggiungendo 87 milioni di abitanti a quelli del 2020.
Lo squilibrio demografico tra nord e sud del Mediterraneo è destinato ad approfondirsi, con importanti conseguenze sul piano politico, economico e sociale. I Paesi dell’Europa meridionale, con i loro tassi di natalità tra i più bassi al mondo, vedranno una contrazione della loro popolazione. In alcuni casi, la situazione è già preoccupante, come in Italia, dove il saldo naturale è negativo e le nuove nascite sono molto al di sotto del livello di rimpiazzo. Di questo passo, il nostro Paese rischia di avere, entro la fine del secolo, la metà degli abitanti attuali. In Nord Africa, il numero medio di figli per donna, anche se in generale diminuzione da vari decenni, oscilla tra 3 e 4, sui livelli che in Italia si vedevano fino agli anni Settanta del Novecento. In alcuni casi, come in Algeria, il dato è addirittura in aumento rispetto a vent’anni fa.
Leggi anche: Taking stock of the demographic challenge in the Old Continent
Anche la composizione della popolazione per fasce d’età rivela una frattura sempre più evidente. Nel 2020, il 47% degli abitanti dei Paesi della riva meridionale aveva meno di 25 anni, a fronte del 26% sulla sponda settentrionale. Società senescenti si confrontano a comunità dove la transizione demografica è ancora in corso. Il passaggio completo dal un regime tradizionale caratterizzato da alti tassi di natalità e di mortalità a uno moderno con bassi livelli di nascite e decessi richiederà ancora diversi anni. Anche se, alcuni indicatori sono già simili a quelli dei Paesi più sviluppati. La speranza di vita alla nascita in Egitto e nel Maghreb, ad esempio, era inferiore di quasi vent’anni rispetto all’Italia ancora tre decenni fa. Oggi siamo nell’ordine di 6-7 anni. L’allungamento della vita media, associato a tassi di natalità ancora alti, rappresenta un vantaggio, ma anche un problema sotto molto punti di vista.
Le conseguenze di una transizione demografica incompleta
Una società giovane tende a guardare con fiducia al futuro e a raccogliere con determinazione le sfide che esso presenta. L’analisi sociologica delle comunità più anziane rivela invece una maggiore propensione alla cautela per proteggere quanto conquistato in passato ed evitare di affrontare rischi considerati inutili. In tale contesto, la preoccupazione principale della classe dirigente è di mantenere sotto controllo la spesa sanitaria e pensionistica e di non adottare decisioni considerate incaute dagli elettori. Nell’altro scenario, invece, l’impegno maggiore dovrebbe essere profuso nella creazione di posti di lavoro. Tanti giovani disoccupati e sfiduciati, magari anche in possesso di un titolo di studio superiore o di livello universitario, sono una polveriera sociale sempre pronta a deflagrare. Quanto accaduto nel 2011, durante le cosiddette “primavere arabe”, ne è la dimostrazione. Le rivolte di quei mesi iniziarono con le manifestazioni di masse di giovani che chiedevano pane e lavoro. La contestazione politica arrivò in un secondo momento.
Nel 2020, la popolazione dei Paesi dell’Africa mediterranea di età compresa tra i 25 e i 64 anni, che costituisce il pilastro della forza lavoro nazionale, era di 95 milioni. Fra trent’anni arriveremo a 140 milioni di individui. Nella piccola Tunisia, dove il 70% della popolazione è in età lavorativa, sarà necessario creare ogni anno tra i 281 e i 392mila posti di lavoro per assorbire la nuova manodopera disponibile. I regimi dell’area non sono in grado di dare un’occupazione a tutte queste masse di giovani. Per molti l’unica alternativa alla disperazione è emigrare verso l’Europa, accettando i rischi correlati all’attraversamento del Mediterraneo su mezzi di fortuna. Per altri la ricerca di un avvenire migliore trova realizzazione nel trasferimento verso le grandi città, senza lasciare il Paese, alimentando così l’esplosione demografica delle metropoli della sponda sud.
Nei cinque Stati nordafricani, il 70% della popolazione vive oggi in città. Nel 1960, più della metà degli abitanti risiedeva invece nei villaggi e nelle campagne, spesso lontani dalle coste e ai limiti delle aree desertiche, intorno alle oasi principali del Sahara o alle pendici delle montagne dell’Atlante. In alcuni casi, il cambiamento è stato ancora più profondo. In Algeria, al momento dell’indipendenza dalla Francia nel 1962, solo un terzo della popolazione abitava in città, mentre oggi siamo al 75%. In altri casi, è la presenza di vaste aree desertiche a fare in modo che la popolazione si concentri nei centri urbani. Questo accade in Libia e soprattutto in Egitto, dove soltanto il 5% del suo vasto territorio è abitabile. Tali vincoli spaziali hanno favorito lo sviluppo di grandi agglomerati urbani lungo il corso del Nilo, nella zone del delta e, in parte lungo la costa mediterranea.
Le grandi città come catalizzatori del cambiamento
La città è tradizionalmente il luogo dove più facilmente si delineano nuovi stili di vita e si affermano comportamenti impensabili nei piccoli centri di provincia e nelle aree rurali. Come evidenziato dal rapporto Tendances et perspectives démographiques en Méditerranée, pubblicato da Le Plan Bleu nel quadro della Convenzione di Barcellona, tale processo è più veloce nei Paesi della sponda sud. Pesano i modelli sociali ultraconservatori ancora prevalenti nelle campagne e le massicce migrazioni interne verso le aree urbane a reddito più alto e con maggiori opportunità lavorative. La popolazione di Tunisi, ad esempio, è quasi triplicata tra il 1975 e oggi e, se si considera l’intera area metropolitana, essa raggiunge i tre milioni di individui, cioè un quarto degli abitanti del piccolo Paese maghrebino. Tutte le grandi città del margine meridionale hanno conosciuto un’esplosione demografica simile degli ultimi cinquant’anni, che ne ha cambiato radicalmente la fisionomia.
La transizione demografica è più veloce nei centri urbani, anche per la maggiore disponibilità di servizi sanitari di buona qualità e per la loro migliore accessibilità, grazie a redditi mediamente più alti. La speranza di vita che si allunga sempre di più non è però associata all’invecchiamento della popolazione delle città che, al contrario, mantengono un’età media inferiore rispetto ai villaggi rurali. L’esodo dalle campagne coinvolge infatti quasi sempre i più giovani, che spesso si trasferiscono per conseguire un titolo universitario, prima ancora di perseguire obiettivi professionali. Il fenomeno è molto simile a quanto avvenuto in Italia tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso. Ma non mancano alcune importanti differenze.
La principale caratteristica dell’esplosione demografica delle metropoli nordafricane è la definizione di agglomerazioni con elevatissima densità abitativa. Le difficoltà di spostamento tra il centro e la periferia a causa dell’inefficienza o dell’inesistenza di un’adeguata rete di trasporti e di infrastrutture per la mobilità obbliga le persone a rimanere concentrate non lontano dai luoghi di studio o di lavoro. Inoltre, quasi mai la l’offerta di alloggi è capace di rispondere alla domanda a causa degli inevitabili tempi di costruzione di nuove abitazioni e della scarsità di terreni edificabili. Tali limiti si riverberano sulle condizioni di vita di molte città del sud mediterraneo, soffocate dall’inquinamento prodotto dai veicoli e dagli impianti industriali. Molti sono poi costretti ad adattarsi ad habitat informali, rimanendo ai margini di quel relativo benessere che la città offre rispetto alla campagna. Al Cairo, ad esempio, sono decine di migliaia le persone che, negli anni, hanno occupato i tetti e le terrazze dei palazzi borghesi del centro, vivendo in condizioni precarie, senza acqua corrente né elettricità. Eppure, il richiamo delle luci e dei negozi della città continua ad ammaliare masse di giovani dalle aree più depresse dei Paesi nordafricani, pronti a lasciarsi alle spalle un avvenire che promette solo disoccupazione e assenza di prospettive. Anche perché, determinate attività, non posso prescindere dai centri urbani dove sono nate e si sviluppano.
È il caso, ad esempio, di Tangeri, che ha recentemente superato il milione e mezzo di abitanti. La città, situata all’estremo nord-ovest del Marocco e affacciata sullo Stretto di Gibilterra, è diventata in pochi anni il secondo polmone economico del Paese, subito dopo l’area metropolitana di Casablanca-Rabat-Kenitra. Un impulso notevole allo sviluppo di Tangeri è arrivato con l’apertura di nuove rotte aeree di collegamento con molte città europee, che hanno favorito i flussi di turisti in visita alle bellezze del centro storico e alle attrazioni del nord marocchino. Ma il motore dello sviluppo della città è ormai il grande porto di acque profonde, inaugurato nel 2007 e ampliato nel 2019 a seguito di ampi lavori.
Leggi anche: Porti, shipping e logistica negli scenari marittimi: il Mediterraneo tra pandemia e guerra
L’infrastruttura è collocata in una posizione strategica, intercettando le rotte marittime di collegamento tra Africa, Europa, Estremo Oriente e Nord America, ed è circondata da una zona franca di impianti industriali, imprese della logistica e startup attive nel commercio e nelle tecnologie applicate ai trasporti. L’insieme di tali attività richiama ogni anno centinaia di persone da tutto il Marocco, attratte dalle opportunità di lavoro, ma anche dai servizi, per i quali il sovrano Muhammad VI mostra particolare sensibilità.
Leggi anche: Le mire del nuovo Marocco di re Muhammad VI
Un altro esempio è Alessandria d’Egitto. Seconda città del Paese, la metropoli sul Mediterraneo attira molti giovani che vi si trasferiscono per motivi di studio, preferendola alla capitale, considerata troppo caotica e dal clima insopportabile durante i mesi estivi. Il commercio, legato soprattutto ai prodotti agricoli del delta del Nilo e alla vendita del cotone sui mercati internazionali, fa di Alessandria un importante centro di scambi, in grado di attirare molti imprenditori con le loro famiglie. Anche qui, lo sviluppo del turismo, favorito dalla presenza di spiagge incontaminate non lontano dalla città, si coniuga con la presenza di importanti aree industriali dedite soprattutto alla lavorazione delle pelli, della pasta di cellulosa per la produzione di carta e di capi di abbigliamento. Lo sfruttamento dei giacimenti offshore egiziani di gas e petrolio sta incentivando lo sviluppo di impianti di raffinazione, collegati ai terminal di Suez e Damietta attraverso oleodotti costieri. La popolazione è cresciuta molto velocemente negli ultimi due decenni, passando dai circa tre milioni della fine degli anni Novanta ai cinque milioni e mezzo attuali.
Un quadro di luci e ombre
Lo sviluppo delle grandi città nordafricane offre dunque un panorama di luci e ombre. Il loro crescente peso demografico è una costante in tutti i Paesi dell’area, dietro impulso delle attività economiche legate al commercio, all’industria e al turismo, alle quali spesso fanno da contraltare i disagi derivanti dalla scarsità di alloggi e dall’inquinamento. Anche i cambiamenti climatici sono un fattore che non può più essere trascurato, anche perché molte aree urbane si trovano lungo la fascia di costa, sempre di più esposta alle conseguenze dell’aumento del livello del mare. L’aumento delle temperature medie globali, più marcato nei Paesi mediterranei rispetto al resto del mondo, rende progressivamente inospitali ampie aree del Nord Africa, forzando milioni di persone a cercare condizioni di vita migliori all’estero o nelle città.
A questo si aggiunge la pressione esercitata dalla fascia subsahariana. Nel Sahel, i cambiamenti climatici operano su un territorio già arido o semiarido dove il 45% della popolazione ha meno di 15 anni e la natalità è la più alta al mondo. La scelta quasi obbligata di questi giovani è l’emigrazione, ma non tutti rischiano o hanno i mezzi economici per raggiungere l’Europa. Ecco perché il potere di attrazione delle grandi città nordafricane agisce anche al di là dei confini meridionali dei loro Paesi. Accrescendo il novero di chi cerca in quelle metropoli un avvenire migliore e, nello stesso tempo, i problemi di sovrappopolazione.
Allo stesso tempo, è proprio nelle città che si concentrano le opportunità migliori e si affermano nuovi comportamenti sociali. Il numero da solo non significa automaticamente peso politico, economico o culturale nello spazio nazionale e internazionale. Ma non è di certo un fattore neutro. Non è un caso che i principali cambiamenti politici che hanno interessato l’Africa mediterranea negli ultimi due decenni abbiano sempre trovato terreno fertile nelle metropoli dell’area che si trovano ad affrontare le sfide e le incognite del futuro.