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L’agenda Biden tra politica interna e COP26

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Per l’amministrazione Biden le prime settimane del novembre 2021 rappresentavano una cruna d’ago piuttosto stretta dalla quale far passare molte cose. Alla COP26 si trattava di mostrare al mondo la volontà degli Stati Uniti di svolgere un ruolo di primo piano nella lotta al cambiamento climatico. Tra il G20 e Glasgow, nella innumerevole serie di incontri bilaterali e multilaterali in cui la diplomazia USA era impegnata, occorreva anche mostrare una certa capacità di leadership o, per dirla con lo slogan spesso utilizzato dal presidente, dimostrare che “l’America è tornata”. I quattro anni di presidenza Trump, le uscite unilaterali dagli accordi cui gli Stati Uniti aderivano, a cominciare da quello sul clima di Parigi del 2015, le tensioni vecchie e nuove con avversari e alleati rendevano il compito difficile.

Joe Biden a Glasgow

 

La missione era complicata, e molto, dalla politica interna. Per mostrare al mondo che gli Stati Uniti fanno sul serio in materia di transizione ecologica, infatti, non basta parlarne nei vertici globali ma investire risorse, adottare e implementare regole, approvare leggi. Al presidente Biden serviva quindi il sostegno di un Congresso diviso o, almeno, del suo stesso partito. Neppure questa era una certezza. Questi ostacoli nazionali, poi, prevedevano anche il passaggio delle elezioni locali in Virginia, New Jersey e per le sindacature di molte città importanti. Un appuntamento non andato bene per i Democratici, che hanno perso il governatorato in Virginia e tenuto di un soffio quello del New Jersey, che davano per scontato.

I margini di manovra per l’amministrazione erano ristretti: come noto in Senato la maggioranza del partito di Biden è di un solo voto (quello della vicepresidente Harris) e basta una defezione per impedire il passaggio di qualsiasi misura. Quel voto era, se parliamo di clima, quello del senatore Joe Manchin, eletto nella West Virginia delle miniere di carbone, con interessi economici diretti in quel campo (70% dei propri asset finanziari) e finanziato da tutti i settori energetici che la transizione ecologica è destinata a indebolire (idrocarburi e miniere).

Di fronte a sfide enormi e alla necessità di recuperare un ruolo perduto Biden e la sua amministrazione hanno dovuto dunque ridimensionare le proprie velleità di riforma in materia ambientale e vedersela con la sempre meno efficace architettura istituzionale statunitense. Il risultato è il passaggio di una legge sulle infrastrutture, firmata dal presidente durante una cerimonia dal presidente lunedì 15 novembre. Il testo votato dal Congresso è enormemente ambizioso in termini assoluti e per gli standard contemporanei della politica americana, ma molto al di sotto degli obbiettivi che il presidente e una parte consistente del suo partito si ponevano. La legge approvata dalla Camera è circa un terzo della proposta originale (e prevede nuove spese per 550 miliardi) e da essa scompaiono diversi investimenti destinati a ricerca e sviluppo orientata alle energie rinnovabili e gli incentivi per il passaggio all’auto elettrica. I fondi per porti e aeroporti sono invece rimasti identici, mentre quelli per il trasporto collettivo urbano sono stati ridimensionati.

 

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Il passaggio della legge ha però consentito agli Stati Uniti di presentarsi a Glasgow con un risultato, con l’impegno di intervenire attraverso regolamenti, ad esempio sui limiti alle emissioni, e la promessa di approvare la seconda parte del piano riformatore di Biden (il Build Back Better) entro novembre attraverso la “reconciliation”, uno stratagemma parlamentare per aggirare l’ostruzionismo repubblicano in Senato e passare la legge con i soli voti democratici. E qui rientra Manchin che ha ottenuto la cancellazione dal pacchetto di spesa e crediti fiscali di due elementi importanti dal punto di vista ambientale. Se il Congresso approverà, nella seconda metà di novembre, la seconda legge così come è mentre scriviamo, questa significherà 550 miliardi di spesa in direzione della mitigazione del cambiamento climatico. 320 miliardi di dollari andrebbero a un decennio di agevolazioni fiscali per l’energia pulita e i veicoli elettrici e molti investimenti verrebbero fatti per il collegamento di centri abitati a una rete di rinnovabili e per lo stoccaggio dell’energia solare ed eolica.

Se tutto andrà come i Democratici sperano, l’amministrazione Biden si troverà a gestire il più imponente piano ambientale mai adottato da un Paese che fino a non molti mesi fa era governato da un presidente che negava l’esistenza della crisi climatica. Si tratta di un buon biglietto da visita da portare per le capitali del mondo. Non il migliore possibile, ma una novità importante.

E qui veniamo al proscenio internazionale. Il riposizionamento degli Stati Uniti in materia ambientale è più coraggioso di quello operato da Obama, che pure fu cruciale per chiudere gli Accordi di Parigi nel 2015. Ma gli Stati Uniti hanno avuto e avranno il problema di non avere un quadro politico interno che condivide – magari con accenti e ricette diversi – la preoccupazione per la crisi climatica. E questa è una debolezza intrinseca. L’ambizioso piano di Biden di ridurre di un terzo le emissioni di metano prodotte dalle attività di estrazione di idrocarburi entro il 2030, ad esempio, passa attraverso regole scritte da un’amministrazione e cancellabili con un colpo di penna da un presidente repubblicano. Proprio come avvenne con la fuoriuscita dagli Accordi di Parigi.

A Glasgow, gli USA hanno chiesto scusa, per bocca del presidente, preso impegni seri sulla deforestazione e sulle emissioni di metano e lavorato per raggiungere una dichiarazione finale quanto meno dignitosa. Washington ha anche potuto segnalare l’assenza di Pechino e Mosca al vertice, un modo per sottolineare la propria (volontà di) leadership. Infine, e questo è un vero successo dal punto di vista diplomatico, l’ostinazione dell’inviato speciale John Kerry ha portato alla dichiarazione congiunta con l’altro rappresentante cinese Xie Zhenhua. L’ex Segretario di Stato, già protagonista a Parigi, ha difeso per mesi la sua linea di dialogo con Pechino, cercando di isolare i colloqui sul clima da tutto il resto. Non tutti i suoi colleghi erano d’accordo. L’insistenza ha pagato, gli americani possono dire di avere fatto firmare a Pechino un testo nel quale riconosce per la prima volta l’importanza di ridurre le emissioni da metano e di aver “messo la faccia” sulla necessità di impegnarsi più di quanto fatto fino a oggi per arrestare la crisi climatica.

 

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A questi successi relativi vanno aggiunte due cose che non riguardano l’ambiente: il raffreddamento della temperatura nelle relazioni con l’Unione europea dovuto alla fine delle dispute sull’industria aerospaziale e al superamento delle tariffe su acciaio e alluminio e l’accordo sulla tassa minima globale per le multinazionali, non solo quelle del settore digitale.

La novità di un’amministrazione che segue quella Trump è di dover tenere dei toni meno ultimativi e arroganti che in passato. A partire dai primi anni 2000 gli Stati Uniti hanno fatto delle pessime figure, dall’Afghanistan in giù e la leadership devono riconquistarla, anche mostrando umiltà. Le resistenze di India e Cina alla COP26 hanno in questo senso favorito gli Stati Uniti, che hanno potuto presentarsi come la grande potenza responsabile e pronta a fare passi nella giusta direzione.

La strada è ancora in salita e non mancano gli scivoloni come la pessima gestione del ritiro dall’Afghanistan almeno nei confronti degli alleati europei, o la vicenda dei sottomarini nucleari venduti all’Australia, ma l’immane sforzo diplomatico di questa amministrazione sta riportando Washington al centro della scena mondiale. Fino a pochi mesi fa guardando Oltreoceano i diplomatici alzavano gli occhi al cielo o allargavano le braccia.