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Biden all’opera, tra complessità e discordie

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A guardare il presidente Joe Biden oggi, tornano in mente le sofferte riunioni di Barack Obama sull’Affordable Care Act (ACA), da presidente al primo mandato, con i leader del Partito Repubblicano ma anche con i Democratici più conservatori. Riunioni tormentate ed estenuanti, spesso occasioni di ricatto da parte dei membri del suo stesso partito, descritte nelle pagine dell’autobiografia dell’ex Presidente pubblicata nel 2020. Biden è probabilmente in una posizione analoga a quella di Obama dell’epoca, in una sorta di stallo, tanto che The Economist, occupandosene, ha titolato ‘Look at Joe not go’ (“guarda Joe che non si muove”).

Questa impasse riguarda parte dell’agenda legislativa del Presidente e anche le promesse fatte in campagna elettorale, decisamente in discontinuità con il suo predecessore Donald Trump.

In cima alla lista c’è il piano da circa 3,5 mila miliardi di dollari, destinati in parte al rinnovo delle infrastrutture (circa 1 miliardo), poi al clima e alla riduzione di emissioni, all’estensione del Medicare, all’American family plan, ovvero il rafforzamento di misure di welfare per l’infanzia e la maternità (child care e paid leave), e a istruzione e sanità, che sarebbero finanziate da una sorta di patrimoniale quasi rivoluzionaria. Ma il pacchetto di misure, così com’è, non ha molte chance di essere approvato, tanto che è diventato oggetto di negoziazione con l’opposizione Repubblicana al Senato.

Il primo problema, come spesso accade, riguarda il meccanismo legislativo americano: il ‘filibustering’, un ostruzionismo che impedisce, soprattutto al Senato, di far passare leggi non gradite all’opposizione. La regola infatti obbliga ad una maggioranza di 60 Senatori su 100. I Democratici però sono solo 50 (di questi in realtà due sono indipendenti ma votano democratico) e non è nemmeno sicuro che tutti siano a favore dei piani di Biden. Anche se lo fossero servirebbero poi, appunto, altri dieci Senatori repubblicani che votino il grande piano di ispirazione rooseveltiana.

Un Senatore si riposa su letti di fortuna preparati al Congresso in uno dei tanti, lunghi episodi di “filibustering”

 

 

La forma del piano e l’eredità democratica

Per settimane l’amministrazione Biden ha lavorato ad alcune opzioni: la prima è stata negoziare con il Partito Repubblicano, strada impervia, perché un compromesso bipartisan può scontentare i Democratici più a sinistra del partito. L’altra era trasformare il piano in un ‘reconciliation bill’, ovvero lavorare direttamente sugli aspetti della spesa pubblica rischiando però, anche qui, di perdere alcune caratteristiche fondamentali del progetto di riforma, tra le quali l’aumento del salario minimo.

Non a caso la deputata Alexandria Ocasio Cortez, ormai uno dei volti più combattivi della blue wave nello schieramento democratico, ha più volte richiamato l’attenzione di Biden soprattutto sulle misure per contrastare il cambiamento climatico, sulle quali il Partito Repubblicano è notoriamente tiepido, per usare un eufemismo; ma ha anche chiamato in causa la scarsa disponibilità del GOP a trattare sullo schema di legge ‘reconciliation bill’, ipotizzato dai Democratici. La posizione di Ocasio-Cortez, rappresentativa di altri deputati Dem più progressisti, è chiara ma al tempo stesso articolata: c’è necessità di lavorare insieme al Congresso per approvare misure necessarie, senza però sacrificare il significato di questo insieme di riforme: il contrasto al cambiamento climatico deve impattare, secondo AOC – il soprannome della famosa deputata del Queens-Bronx – anche sulle disuguaglianze, affinché tutti i cittadini siano in grado di accedere a energie rinnovabili e auto elettriche. Al contempo, come lei stessa ha sottolineato, questo è un processo di cambiamento profondo e non solo una serie di misure legislative, e il Partito Repubblicano non sembra intenzionato a sostenerlo per almeno due ragioni: la tassazione dei più ricchi per il finanziamento del piano e la lotta alle disuguaglianze che ne consegue.

C’è anche una terza opzione, più radicale: eliminare il problema del filibustering, abolendo di fatto il voto a maggioranza qualificata al Senato. Una exit strategy formalmente sul tavolo ma mai davvero percorsa e che andrebbe ad accrescere la guerra che alcuni stati hanno intrapreso con l’approvazione di leggi per restringere o ridurre il diritto di voto, a scapito soprattutto degli afro-americani. Mitch McConnel, leader al Senato del GOP, ha infatti più volte fatto capire che agire su questo aspetto, eliminando il filibustering, significherebbe danneggiare la democrazia, accrescere gli attriti tra Stati e governo centrale, e dare in sostanza il via ad un ‘inverno nucleare in Senato’. Una dichiarazione di guerra vera e propria, in cui gli stati a guida Repubblicana sarebbero pronti ad intervenire con leggi in contrasto con la linea dell’amministrazione.

Anche Obama, nel lontano 2009 in cui fioccavano le iniziative legislative per portare a casa la riforma sanitaria, pensò di lavorare ad un accordo con i Repubblicani, divisi ai tempi dalla spinta a destra dal Tea Party e da questo spinti all’attacco. Ma, pur tra diverse proposte persino dall’interno del Partito Democratico, Obama comprese che un compromesso bipartisan su tutti gli aspetti della legge avrebbe lasciato escluse milioni di persone dall’assistenza sanitaria, svuotando del tutto di senso la riforma.

Il suo dilemma era stato prima quello di Bill Clinton, sempre sulla riforma sanitaria ed ora lo è di Biden, non più sull’ACA ovviamente ma su quanto ha ereditato dalla riforma e da quella fase politica. Il New Deal di Biden, si è detto, è complementare al lavoro fatto dal suo predecessore Dem, ma include persino un’altra sfida: rivitalizzare la democrazia nel mondo e a casa propria. Per quanto riguarda la riforma sanitaria, Obamacare, nelle ultime settimane ha rischiato, per la terza volta, di essere dichiarata incostituzionale, salvo poi essere salvata dalla Corte Suprema.

Il piano di Biden nasce quindi sull’onda dell’accordo bipartisan per il piano Covid, su cui i due partiti hanno trovato una quadra, ma ora si viaggia su una base fragile. Non solo perché in questi giorni vanno in discussione al Senato le altre parti del piano, quello da 3,5 miliardi, ma anche per la resistenza dell’ala più giovane e a sinistra dei Dem ai cambiamenti imposti da un accordo con il GOP, che inevitabilmente attenuerebbero alcune istanze prioritarie. Ci sono poi difficoltà che provengono dalla parte più conservatrice del partito, rappresentata da un altro Joe: Joe Manchin, Senatore democratico del West Virginia. Manchin non è solo tra i più conservatori ma anche il più potente tra questi. Eletto nel 2010, nella sua corsa contro il candidato repubblicano John Raese, assunse una posizione ambigua e contraddittoria sull’Obamacare ma poi votò contro i tentativi di ‘repeal’ della legge da parte repubblicana.

Il Senatore Joe Manchin

 

 

Una riconciliazione è possibile?

Ma è un percorso non impossibile, anzi: sul piano infrastrutturale è stato infatti il compromesso bipartisan è arrivato: 69 favorevoli e 28 contrari, dunque una trentina di Senatori repubblicani lo hanno appoggiato. Chuck Schumer, capogruppo democratico al Senato, lo aveva infatti annunciato qualche giorno prima che il partito raggiungesse un accordo su una bozza di piano da 3,5 mila miliardi di budget, includendo le misure per mitigare il cambiamento climatico e l’espansione del Medicare. Uno schema che si è dimostrato utile per avanzare verso l’accordo sulle infrastrutture e che ha trasformato la bozza in due disegni di legge per 3,5 mila miliardi di dollari totali.

Il meccanismo su cui si basa la proposta prevede l’utilizzo di una maggiore tassazione e programmi di spesa su cui i Repubblicani continuano però ad opporsi. Perché il problema, alla riapertura del Congresso dopo la pausa estiva, si riproporrà: come finanziare le altri parti del progetto, eredità democratica ma anche agenda centrale del New Deal del Presidente?

Il capogruppo Dem Chuck Schumer esulta dopo il voto al Senato

 

 

Le tappe di una lunga marcia

L’accordo bipartisan sul piano è un tassello fondamentale per la politica dell’amministrazione, in questo momento, ma non determina un punto di svolta, per diverse ragioni: la prima è che una parte della squadra dei negoziatori, democratici centristi, non è vista di buon occhio dall’ala sinistra del partito, anzi è detestata. La Senatrice dell’Arizona, Kyrsten Sinema, che ha rivendicato il suo ruolo nella negoziazione con i Repubblicani, è considerata da alcuni tra i più progressisti una rappresentante mancata del GOP, che insieme a Joe Manchin approfitta della sua posizione per fare il bello e il cattivo tempo in Senato. E soprattutto, e qui sta la seconda ragione, è vicina alle posizioni dell’opposizione su come finanziare il piano: quello che Biden vede come una politica in deficit, nelle più classiche delle strategie economiche keynesiane, Sinema e il partito Repubblicano lo leggono come debito pubblico, e nuove tasse per i cittadini.

L’aumento delle tasse (seppure solo ai più ricchi): il nemico pubblico numero uno, che Sinema, Senatrice considerata erede in qualche modo del compianto Repubblicano John McCain (del suo stesso Stato), vede come una falla nel piano, da aggiustare. La speranza per la maggior parte del partito Democratico è riuscire ad utilizzare la formula del ‘reconciliation bill’ anche per la parte più corposa del progetto dell’amministrazione, che ha già raccolto il plauso del Senatore del Vermont Bernie Sanders, vicino a Ocasio-Cortez, e l’approvazione di Mark Warner, altro Senatore moderato, della Virginia, figura chiave della negoziazione bipartisan.

Il timore, tuttavia, che sia solo una proposta per lavorare al ribasso c’è: l’ala più progressista del partito vuole infatti portare il progetto di legge alla cifra complessiva di 6 mila miliardi di dollari, come inizialmente preventivato, e su questo anche Sanders sta spingendo; mentre i Dem più centristi si concentrano sul modo in cui questo pacchetto rooseveltiano verrà sostenuto, in sostanza con quali tasse votabili dal Congresso. Certamente però, la risoluzione, soprattutto per l’espansione del Medicare alle cure dentistiche, ai benefit per gli ipovedenti e gli ipoacusici, è la leva su cui far convogliare gli sforzi della sinistra del partito. Non solo: il tema delle tasse ai più ricchi per offrire misure di welfare a tutta la popolazione americana è il cuore della proposta politica della sinistra Dem, di cui Biden si è fatto in qualche modo portatore.

La Commissione Finanze del Senato, presieduta da Bernie Sanders, dopo un tentativo di accordo, fallito, tra i due partiti sull’aumento delle tasse alle corporation, sta nuovamente lavorando alla tassazione dei profitti conseguiti fuori dal territorio nazionale, nello sforzo di scoraggiare le grandi corporation, così come intende tagliare – soprattutto da parte Dem – le agevolazioni per le compagnie energetiche, oil & gas; aumentare le tasse sui grandi patrimoni e i ‘capital gains’, i profitti sugli investimenti finanziari.

Ma sono tutti elementi di una trattativa su cui i Repubblicani mercanteggiano in cambio, e forse con poca buona fede, di alcuni tagli alla spesa preventivati dall’amministrazione per finanziare il piano delle infrastrutture e che, peraltro in parte, hanno già portato a casa come risultato: i fondi contro il ‘climate change’, o meglio gli incentivi per l’elettrico, sono infatti stati ridotti della metà. Mentre sull’aspetto della spesa sociale, Biden vuole rendere universale l’accesso al nido e rendere gratuiti almeno due anni di college; quasi tutte proposte mutuate dalla blue wave e dai candidati alla Presidenza come Sanders e la Senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren.

La Deputata Alexandria Ocasio-Cortez

 

 

Il fiume carsico e il gioco a somma zero

Il Partito Democratico però, è attraversato da un fiume carsico, da cui ancora non è chiaro cosa uscirà. Non è solo su questi temi, pur al centro dell’agenda legislativa, che i progressisti del partito sollecitano Biden o lo criticano apertamente, anche perché alla Camera i progressisti hanno sufficiente forza per deviare accordi bipartisan con il GOP che considerano dannosi.

La strada del New Deal rooseveltiano è lunga e non tiene conto di alcuni aspetti su cui il gregge democratico, anche per il più abile pastore, è difficile da condurre: la politica verso i migranti e l’HR 1, ovvero il ‘For the People Act. La proposta di legge, presentata dalla Senatrice Dem del Minnesota, Amy Klobuchar (anche lei candidata presidenziale alle primarie del 2020), tenta di correggere alcune storture del sistema elettorale, tra cui la possibilità di disegnare i collegi elettorali uninominali a favore di una parte politica (gerrymandering), il meccanismo di finanziamento ai candidati, le regole sull’etica e la trasparenza degli eletti, le possibilità di comprimere il diritto di voto. Una sorta di legge bandiera per il Partito Democratico, perché intende rompere il meccanismo dello strapotere dei finanziatori occulti ai comitati per le elezioni, i Super Pac, consente la registrazione automatica alle liste elettorali, promuove le pratiche del voto anticipato, e tenta di uniformare le regole elettorali per impedire che gli Stati attuino regole discriminatorie, come del resto hanno fatto in questi anni e su cui per primo aveva lavorato il Senatore, scomparso un anno fa, John Lewis, con il ‘Voting Rights Act’. Una proposta, quella di Lewis, che intendeva rafforzare il ‘Voting Rights Act’ firmato dal presidente Lyndon B. Johnson nel 1965, la prima legge contro la discriminazione razziale nel voto.

Passata alla Camera a marzo ma ferma in Senato per l’ostruzionismo dei Repubblicani, l’HR 1, è il provvedimento che più connota la difesa e la promozione della democrazia per la presidenza Biden e che rappresenta una sorta di vello d’oro: un oggetto in grado di curare da ogni ferita, anche quelle in seno al Partito Democratico.

Il capogruppo Chuck Schumer ha fatto dell’HR 1 la proposta bandiera dei Dem quando ha annunciato su Twitter, a gennaio 2021, che sarebbe stata la prima legge da approvare. Al contempo l’altro Joe, il Senatore Dem della Virginia, ha dichiarato che non l’avrebbe votata perché troppo di parte ma che avrebbe invece sostenuto il Voting Rights Act di John Lewis (HR 24 il nome corretto), suscitando più di qualche dubbio.

Nonostante una maggioranza sia alla Camera che al Senato, il Partito Democratico sta in realtà portando avanti tutte queste misure in una sorta di negoziazione a somma zero: laddove la Casa Bianca avanza sul piano infrastrutturale nella negoziazione con l’opposizione al Congresso, perde sul fronte delle leggi per il controllo delle armi e, peggio, sull’immigrazione. E quello che guadagna politicamente quando raggiunge degli accordi con il GOP, il Partito Democratico rischia di smarrirlo al suo interno, perdendo compattezza.

L’ultima tegola piovuta su Biden è la pronuncia del giudice del Texas Andrew S. Hanen, che ha definito il programma ‘Deferred Action for Childhood Arrivals’ (DACA) illegittimo. Il DACA, ovvero il programma voluto da Obama nel 2012 e che ha protetto dall’espulsione 700 mila migranti (dreamers) arrivati su suolo americano quando erano minori, è stata una delle promesse di Biden all’indomani del suo insediamento: rafforzarlo ulteriormente, anche a seguito del tentativo dell’ex Presidente Trump di cancellare il programma nel 2017.

Una promessa che ora rischia di infrangersi su un terreno ancora più ampio: la politica migratoria. A causa della pandemia e su raccomandazione del Centro per il Controllo delle Malattie (CDC), l’attuale Presidente ha mantenuto le maglie strettissime per l’ingresso dei migranti su suolo americano, che però si sono riversati copiosamente ai confini tra Messico e Stati Uniti già in marzo, tanto da indurre la Vicepresidente Kamala Harris a dire ai potenziali migranti, in una conferenza a margine di una tre giorni in Centro America, ‘do not come’ (non venite). Un discorso che è stato definito trumpiano (certo, con qualche esagerazione giornalistica) e che l’applicazione del ‘title 42’ del CDC certamente non aiuta a risolvere, perché le richieste di asilo sono bloccate e i Dem più a sinistra nel partito pressano Biden affinché rimuova la misura di salute pubblica voluta da Trump. Un percorso ad incastri: i Repubblicani, infatti, promettono guerra al Congresso non appena il Presidente proverà a spingere la sua agenda, probabilmente anche minacciando il venir meno di un accordo bipartisan su altre misure.

Questo ingorgo potrebbe spingere Biden a ricorrere allo strumento dell’ordine esecutivo, come il ‘suo’ Presidente fece nella seconda parte del suo mandato. Il ricordo di Obama e delle sue estenuanti riunioni di staff per trattare sui due fronti, l’opposizione repubblicana e quella interna al partito, sembra prefigurare un altro libro, non ancora scritto.