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La Turchia di Erdogan, sempre più diversa dall’Occidente

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Recep Tayyip Erdogan è di nuovo il presidente della Repubblica di Turchia, nell’anno che va a marcare il centenario della nascita del Paese. Una Turchia ben diversa da quella a cui pensava nel 1923 Mustafa Kemal Atatürk, che voleva dare vita a uno Stato sul modello occidentale non solo nell’assetto giuridico e delle istituzioni, ma anche dei costumi. Al contrario, la nazione a cui ha dato vita Recep Tayyip Erdogan è, secondo molti, il tentativo più riuscito di sintesi turco-islamica, dove nella forma si rispetta quello che per molti oggi è ancora il Padre della Patria, ma nella sostanza si crea una base comune per tutta la popolazione attingendo alla componente nazionalista e a quella più confessionale.

Erdogan saluta i sostenitori la sera del ballottaggio

 

Sulla carta, ha ragione il quotidiano filogovernativo Sabah, che, all’indomani della vittoria del 28 maggio, ha titolato «Ha vinto l’uomo del popolo». Non sarà un campione di imparzialità, ma ha dato la definizione di Erdogan più azzeccata, anche se meritoria di una spiegazione. Secondo i risultati definitivi, il Reis, ossia il Capo, come lo chiamano nel suo partito, è stato eletto Capo dello Stato per la terza volta consecutiva raggiungendo il 52,1% dei consensi. Il leader dell’opposizione, il repubblicano Kemal Kilicdaroglu, si è fermato al 47,9%. Un risultato non plebiscitario, ma netto e che permette a Erdogan di poter parlare di una vittoria chiara e rispedire al mittente le accuse di brogli, che in Turchia non mancano mai. Anche perché, con buona pace dell’opposizione, secondo gli osservatori internazionali dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) e dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE) si è trattato di elezioni libere, dove il problema non è rappresentato dalla trasparenza delle operazioni di voto, ma dalla diversità di trattamento da parte di grandi network internazionali – dove, con poca fantasia, il presidente Erdogan ha goduto di attenzioni infinitamente maggiori rispetto a Kilicdaroglu.

Segno che per essere una democrazia in salute non basta solo andare a votare. Pur tenendo conto di questo importante limite, sarebbe un grosso errore pensare che il presidente abbia vinto immeritatamente o pensare che si tratti di una sorpresa. Dopo il risultato del primo turno, dove Erdogan aveva mancato la rielezione solo per lo 0,5%, la possibilità che l’opposizione potesse farcela era pressoché inesistente. All’opposizione è mancata una parte del voto curdo, segno che la campagna elettorale delle ultime due settimane, dove sono stati accentuati i toni nazionalisti, non ha convinto. Una disfatta annunciata, che però non è ancora coincisa con le dimissioni di Kemal Kilicdaroglu. Nel suo discorso subito dopo la proclamazione dei risultati, non solo non ha ammesso la sconfitta, ma ha anche parlato della ‘campagna elettorale più scorretta di sempre’, assicurando che continuerà nella sua lotta all’opposizione e che non permetterà mai che una parte degli elettori del Paese diventino ‘cittadini di seconda classe’.

La campagna elettorale può non essere stata equa, ma dall’altra parte va sottolineato come l’opposizione, al netto della buona volontà, le abbia sbagliate tutte. Per prima cosa, la candidatura di Kilicdaroglu è arrivata last minute, quando, contro un personaggio forte come Erdogan, ci sarebbe stato bisogno di un nome nuovo o quanto meno percepito come un candidato di successo. Il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, era bloccato perché sotto processo, non a caso, per offesa all’Alto Consiglio Elettorale, per alcune sue dichiarazioni che risalivano alle amministrative del 2019. Un nome su cui lavorare poteva essere quello del sindaco di Ankara, Mansur Yavas, che sarebbe stato percepito positivamente anche dalla componente più nazionalista della coalizione di opposizione. Ma Kilicdaroglu ha voluto esporsi in prima persona, nonostante sia alla guida del Partito Repubblicano da oltre dieci anni, quindi non percepibile né come nuovo né come vincente.

 

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Così Erdogan ha vinto e adesso bisognerà anche vedere se la coalizione di opposizione terrà. Meral Aksener, la leader dell’Iyi Parti, di orientamento nazionalista, la sera dei risultati si è affrettata a congratularsi con il  presidente rieletto. Poche ore dopo, i partiti che compongono l’Alleanza per la Repubblica si sono riuniti. Alla fine non hanno rilasciato alcuna dichiarazione e non è stata diffusa alcuna foto del tavolo dei lavori. Segno che le cose non vanno proprio benissimo. Silenzio stampa anche per Imamoglu, considerato la vera speranza dell’opposizione, data la sua giovane età e il fatto che quattro anni fa era riuscito a espugnare Istanbul e che adesso si ritrova almeno in parte bruciato. Le ire di tutti rischiano di concentrarsi sull’anziano capo del Partito Repubblicano, fino a poche settimane fa soprannominato con entusiasmo ‘il Gandhi della politica turca’ e che adesso è diventato il capro espiatorio, non a torto.

Tutte cose che interessano poco a Recep Tayyip Erdogan, celebrato la sera del 28 maggio da una folla oceanica che solo davanti al palazzo presidenziale ha radunato oltre 320 mila persone. A queste ne vanno aggiunte altre decine di migliaia in festa nelle principali città turche. Un tripudio che ricorda più la vittoria di uno scudetto, ma che rende bene il fatto che ormai in Turchia il presidente Erdogan è sostenuto da un consenso sempre più somigliante al tifo calcistico. Si tifa a favore del capo dello Stato, ma anche contro qualcosa, per la precisione contro chi vuole limitare le ambizioni della Mezzaluna.

Il dito è puntato verso l’Europa, tanto più che la rielezione di Erdogan è coincisa con il 570mo anniversario della Caduta di Costantinopoli, fino a 15 anni ricorrenza sostanzialmente ignorata da tutti e oggi assurta a festa nazionale, con tanto di rievocazioni storiche e spettacoli, soprattutto grazie al rilievo che le ha attribuito il capo dello Stato da quando ha iniziato a consolidare il suo potere. «Abbiate fiducia in noi, rimarremo laici» ha detto il presidente nel suo primo discorso davanti alla sua residenza a Istanbul. Ma la frase Allah Akbar, Allah è grande, ripetuta come un mantra e la presenza praticamente solo di donne velate, rendono questa rassicurazione poco credibile. Perché questa, dal 28 maggio, è definitivamente e ufficialmente una Turchia nuova. Quella dove non c’è un presidente, ma una guida spirituale.

Molto analisti ritengono che Erdogan manterrà il potere a vita e la Turchia che ha creato gli sopravvivrà anche quando non ci sarà più. Una sorta di nuovo Atatürk, insomma, ma nel segno opposto, più di successo e drammaticamente più longevo. La differenza fondamentale sta nel fatto che Il Padre della Patria, che negli anni Trenta del Novecento cercò di dare vita a uno Stato moderno e occidentale, di fondo impose un modello. La Turchia di Recep Tayyip Erdogan, invece, è sempre esistita, tenuta nascosta dalle élite laiche. Lui è colui che è riuscito a sdoganarla, usando come cavalli di Troia niente meno che l’ingresso nell’Unione Europea. Del resto, come disse il Reis in persona, tanti anni fa: la democrazia è come un treno, quando non ti serve più scendi alla prima fermata utile. Ed è esattamente quello che ha fatto lui, facendo approvare riforme gradite a Bruxelles, ma che avevano come vero obiettivo quello di diminuire il potere della magistratura e dei militari. Successivamente, ha trasformato la Turchia prima in una democratura e poi in una autocrazia. Il tutto sotto gli occhi di un Occidente che non ha saputo comprendere quanto questo leader fosse pericoloso e quanto il suo piano fosse chiaro fin dall’inizio.

 

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Va però sottolineato con forza che la Turchia di oggi è un Paese sempre più ideologico e identitario, che non ha nulla a che vedere con i valori europei e dove anche una buona percentuale di quel 47% che non ha votato per Erdogan coltiva un atteggiamento di risentimento nei confronti dell’Occidente. La vittoria di Kilicdaroglu, dunque, non sarebbe stata la soluzione del problema. Al contrario avrebbe distolto l’attenzione su aspetti che vanno seguiti con attenzione. Di fondo, nei suoi oltre 20 anni di potere, ha dato voce e portato alla ribalta una Turchia che non solo c’è sempre stata, è anche numericamente ben superiore di quella che voi consideriamo, con una buona dose di superficialità, la ‘Turchia europea’. La brutta notizia è che è sempre più radicalizzata e animata da sentimenti di contrapposizione nei nostri confronti.

Adesso, occorre trovare un modo per conviverci, sapendo che si tratta del più inaffidabile degli alleati e che soprattutto è un partner fermo al mondo prima della Prima Guerra Mondiale, con una Turchia erede dell’Impero Ottomano, considerato ai tempi il grande malato d’Europa. Un trauma ben presente nella memoria del presidente e di chi lo appoggia. Per questo, la sua sarà una Turchia sempre più assertiva. Quasi vendicatrice.