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Il quadro politico-sociale della Turchia che ha rieletto Erdogan

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Il richiamo alla storia, all’epoca dell’Impero ottomano o a quella della nascita della repubblica, 100 anni fa. E il tentativo di plasmarne il futuro attraverso le urne. E’ stato questo uno degli obiettivi del tiro alla fune tra il presidente Recep Tayyip Erdogan – che con il suo pensiero neo ottomano vuole fare virare la Turchia verso quei valori conservatori e religiosi precedenti alla nascita della Stato nella sua forma attuale – e il suo sfidante Kemal Kilicdaroglu – che al lato opposto della fune, ai vertici di un’eterogenea coalizione che ha costretto Erdogan per la prima volta a un ballottaggio, ha tentato di rafforzare le radici laiche, imposte dal fondatore della repubblica, Ataturk.

 

Le foto di Erdogan e Kilicdaroglu che hanno concluso la campagna elettorale rispettivamente a Santa Sofia – da lui riconvertita in moschea – e al memoriale del fondatore della repubblica Ataturk è l’immagine più nitida di questo braccio di ferro dal quale la Turchia è emersa come un Paese estremamente polarizzato, dove anche andare a fare shopping, guardare un film o commentare gli eventi di cronaca locale implica una presa di posizione politica.

Iniziando il suo terzo mandato, Erdogan ha immediatamente cercato di inserirsi nel solco della storia, annunciando l’inizio di quello che lui chiama “il secolo turco.” Un progetto politico su valori antitetici rispetto a quelli di Ataturk – esattamente un secolo fa nasceva la Turchia moderna – che riguarda l’identità del Paese e la cui realizzazione dipende dalla forza del mandato di Erdogan, eletto da 27 milioni di elettori, in un Paese dove 25 milioni hanno votato per il suo sfidante. Inoltre, le elezioni sono state definite libere e corrette proceduralmente dalla missione di osservatori dell’Osce, ma tutt’altro che trasparenti e competitive, soprattutto a causa della copertura mediatica della campagna elettorale. Erdogan e il suo partito sono stati significativamente favoriti dai media, nell’immobilismo delle autorità regolatorie che non hanno cercato di bilanciare il quadro.

Quello appena iniziato sarà l’ultimo mandato di Erdogan che potrà correre nuovamente solo in caso di scioglimento anticipato del parlamento. Molti analisti concordano nel pensare che in questi cinque anni Erdogan vorrà quindi lasciare la sua eredità politica al Paese, governando in continuità con quanto fatto fino ad ora nonostante i tanti nomi rinnovati nella squadra di governo. Le novità più importanti: all’Economia Mehmet Simsek, già ministro delle Finanze, Vicepremier ed economista della banca statunitense Merrill Lynch; alla Difesa Yasar Güler, ex-Capo di Stato Maggiore delle forze armate; agli Esteri, l’ex-capo dei servizi segreti Hakan Fidan, ritenuto uomo di fiducia del presidente. Non si prevedono stravolgimenti nella politica estera turca, che sarà sempre più concentrata nelle mani di Erdogan e da lui personalizzata.

C’è però una svolta che in tanti si attendono: la distensione con la Siria, nell’ambito della più ampia normalizzazione in corso in Medio Oriente. Nonostante il tanto rumore mediatico sul riavvicinamento con Bashar al-Asad e gli incontri già avvenuti a livello di intelligence, riappacificarsi con la Siria non è solo una questione diplomatica che dipende dalla buona volontà di tornare a stringersi le mani, come fu ad esempio con Israele. Sono infatti tanti i problemi generati dalla guerra che devono ancora essere risolti: dalla questione curda all’influenza del sedicente stato islamico, ai rapporti con l’Iran; dalla presenza statunitense alla questione dei migranti.

E’ stato quest’ultimo tema – più che il continuo peggiorare delle condizioni economiche del Paese – a dominare la campagna elettorale. Tutti i partiti, nei loro programmi, hanno previsto il rimpatrio degli oltre 3 milioni e mezzo di profughi siriani ospitati all’interno del territorio turco. E’ stato soprattutto Kilicdaroglu a spingere su questo tema, abbandonando il tono mite grazie al quale si era aggiudicato l’etichetta del “Ghandi turco” e facendo ricorso a frasi xenofobe e dati gonfiati. Un modo per corteggiare il voto degli ultranazionalisti in ascesa già nel corso delle elezioni parlamentari, conclusesi il 14 maggio. Secondo Hurchan Asli Aksoy, vicepresidente del Centre for Applied Turkey Studies (CATS), è stata questa la prima novità del voto che nei fatti mostra come anche in Turchia è in ascesa una forza simile all’estrema destra europea.

La vittoria di Erdogan è in parte dovuta anche all’endorsment che nel ballottaggio ha ottenuto dal terzo candidato in gara, Sinan Ogan, ultranazionalista con un grande seguito anche tra i giovani. Il ritorno in auge di movimenti dei nazionalisti, il cui partito MHP è stato parte integrante dell’alleanza di Erdogan sin dall’inizio della competizione elettorale, è stato visibile nitidamente nelle strade in giubilo per la vittoria del presidente: tantissime le persone che alzavano le mani al cielo per imitare il simbolo dei Lupi Grigi, movimento xenofobo e militarista legato al nazionalismo turco, tra le bandiere con le tre lune crescenti, simbolo dell’ala estrema dell’MHP.

Di moda anche i tatuaggi e i cappellini con il simbolo dei Lupi Grigi. E’ la risposta alla tendenza più visibile tra i giovani progressisti delle grandi città: nati e cresciuti vedendo solo Erdogan al potere, cercano riparo nella figura laica di Ataturk. Tante le canzoni di quell’epoca intonate ai comizi dell’opposizione tra giovani ragazze con orecchini con la firma del padre della patria, tatuaggi con le sue frasi più celebri e cover dei cellulari con il suo volto. Secondo la ricercatrice Ayşe Çavdar “i giovani progressisti vivono una profonda nostalgia per l’epoca di Ataturk perché individuano in quel preciso momento storico quella pace sociale che ora si sognano, stretti dalla morsa della polarizzazione che si riflette in un’immagine di un futuro di tenebre.”

I giovani sono una delle categorie più deluse e impaurite dal risultato di questo voto, con tanti che arrivano a raccontare progetti per espatriare. Oltre a loro, tra i più preoccupati ci sono i curdi, il cui partito nei fatti non ha potuto partecipare al voto perché in attesa di una sentenza sulla sua dissoluzione. Nel suo primo discorso dopo la riconferma, Erdogan ha esplicitamente detto che il loro leader, Selahattin Demirtas resterà in carcere, tra le grida della folla in giubilo che è arrivata a auspicarne l’impiccagione, nonostante le richieste di rilascio arrivate anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che considera Demirtas un prigioniero politico. Lui stesso, in una dura lettera aperta scritta dal carcere, due giorni dopo il ballottaggio, ha criticato aspramente l’HDP per la sua incapacità di superare i 21 anni di governo dell’AKP, annunciando il suo ritiro dalla vita politica.

Infine, anche donne e comunità LGBTQ+ temono altri cinque anni di Erdogan al potere, ricordando che è stato proprio l’attuale e futuro presidente a ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro le violenze di genere, soprattutto perché questo testo garantisce agli omosessuali una serie di diritti che collidono con il concetto di sacralità della famiglia tradizionale ribadito da Erdogan. Inoltre, nell’alleanza messa in piedi dal presidente c’è un partito – Huda Par – con proposte allarmanti: limiti all’istruzione mista e agli assegni di mantenimento per le donne in caso di divorzio, criminalizzazione dell’adulterio e sistemi giuridici divisi per genere su molte questioni dalla successione all’eredità. Nel mirino di questo partito – considerato vicino al libanese Hezbollah – anche le leggi contro la violenza domestica, ancora oggi una piaga profonda della Turchia.