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L’ultima sfida per Erdogan, dopo due decenni al potere

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A pochi giorni dalle elezioni presidenziali e parlamentari in Turchia (14 maggio) il contrasto non potrebbe essere più eclatante: non tanto tra il numero di persone mobilitate nella corsa al voto – i due grandi appuntamenti di fine campagna organizzati nell’ultimo fine settimana a Istanbul dai candidati principali, il presidente uscente Recep Tayyip Erdogan e l’esponente della coalizione esa-partito di opposizione Kemal Kiliçdaroglu, hanno entrambi visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone. Quanto nei toni e nei contenuti proposti dai due rispettivi schieramenti all’elettorato.

 

Erdogan si rivolge al suo partito presso la Grande Assemblea di Ankara

 

Nel parco di Maltepe, un popolarissimo lungomare che si stende sulla sponda asiatica della metropoli turca, i sei partiti d’opposizione hanno lasciato che i sei rispettivi leader elencassero a turno le proprie proposte politiche e illustrassero criticamente lo stato del Paese, senza tema di apparire perfino contraddittori in qualche caso. Molto più di un comizio, l’evento si è concluso a notte fonda, tra canti e balli e festa, come se i partecipanti volessero far capire a Erdogan che davvero si tratta dell’elezione più difficile della sua carriera, che davvero i sondaggi non mentono quando pronosticano una sconfitta del presidente uscente, che davvero il risultato sarà il volere del popolo, nel nome di “diritti, legge e giustizia”, come recitano gli slogan della “Tavola dei Sei”.


Il giorno dopo, sulla pista del vecchio aeroporto Atatürk – Erdogan non ha mai fatto mistero di considerare sé stesso l’erede politico del fondatore della Turchia moderna, per aver restituito al Paese la sua condizione di potenza regionale dopo lunghi decenni di irrilevanza e per avervi calcato la sua impronta come nessun altro – colui che è ancora “l’uomo forte di Ankara” ha invece monopolizzato la scena. Sfoderando la sua logorrea fiammeggiante, nel suo metro e ottantacinque che lo fa tuttora svettare tra i suoi interlocutori, il 68enne Erdogan ha parlato per più di un’ora e mezza offrendo l’immagine di un capo più guerriero che politico, con il chiaro obbiettivo di presentarsi come l’unico possibile garante dell’interesse nazionale di fronte a un’opposizione le cui inconciliabili divisioni sarebbero nascoste dietro la figura – quella del 75enne Kiliçdaroglu – di un semplice portavoce.

“Altro che mandarmi a casa”, martellava Erdogan, “l’usignolo del Corano” lo chiamavano in gioventù per l’abilità retorica, a una folla che per gli organizzatori era di due milioni di persone, lieto di elencare ai fan i “misfatti” dei suoi avversari, in un crescendo che arrivava naturalmente all’accusa di terrorismo, data la presenza nella coalizione d’opposizione del Partito Democratico dei Popoli, di sinistra e pro-curdo, additato dal presidente uscente come fiancheggiatore dei combattenti del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi. “Qui se c’è qualcuno che sa fare qualcosa, quello sono io: ricordatevi com’eravamo ridotti vent’anni fa” – aggiungeva menzionando Istanbul ricoperta di spazzatura, l’acqua corrente assente in quasi tutte le abitazioni, il reddito nazionale un terzo dell’odierno. “Quegli ubriaconi” – definizione che nel parlato di Erdogan si applica tanto ai politici dell’opposizione quanto ai media internazionali (se criticano), come a chiunque contesti la narrativa ufficiale sottolineando il 50% d’inflazione sofferto oggi dalle tasche di chi vive in Turchia, o le enormi falle del sistema pubblico svelate dal terremoto di febbraio – “saranno rottamati dal vostro voto”.

Se Erdogan, dopo un decennio di presidenza e un precedente decennio di premierato, si trova a utilizzare parole tanto aggressive, è anche perché la stanchezza della gente nei suoi confronti non è affatto immaginaria, e lo stesso elettorato di bandiera dev’essere mobilitato – benché il partito del presidente, l’AKP, continui ad avere undici milioni di iscritti: una macchina elettorale senza paragoni. Tra i partecipanti al comizio dell’aeroporto, quasi tutte le donne indossavano il velo intorno al volto, se non quello integrale – va ricordato che l’elettorato femminile costituisce una colonna portante del consenso di Erdogan, autore della riforma che ha consentito anche alle donne “velate” di occupare incarichi nell’amministrazione pubblica. E molti uomini portavano la barba e il turbante delle confraternite religiose. Eppure, a rovinare lo smalto politico del presidente turco sembra proprio esserci l’appannamento di quella sintesi nazionalista-religiosa che negli anni passati era stata accolta con benevolenza da una parte importante della società turca, e che si era concretizzata politicamente nell’alleanza con il Partito d’Azione Nazionalista, mossa risultata decisiva nella permanenza di Erdogan al potere e nella sua vittoria schiacciante al primo turno nel 2018.

Dal punto di vista diplomatico (e culturale), questo aveva significato l’allontanamento da un’Europa considerata traditrice – per aver scaricato la Turchia e le sue velleità di ingresso nella UE, soprattutto in effetti per decisione francese – ma anche corruttrice, con le sue idee sulle libertà individuali. In Turchia a un omosessuale resta vietato persino donare il sangue – mentre nella dirimpettaia Grecia le unioni tra persone dello stesso sesso sono riconosciute dal 2015. Inoltre, tale svolta aveva permesso di mandare in soffitta la dottrina degli “zero problemi con i vicini” che aveva caratterizzato il sodalizio del capo di Stato turco con Ahmet Davutoğlu, suo consigliere e ministro degli Esteri fino al 2014, e la distensione dei rapporti regionali che ne era scaturita fino a metà degli anni ’10.

Tra i vicini con cui Erdogan voleva avere “zero problemi” c’era infatti soprattutto Vladimir Putin, visto come dominus di un’area di interesse cruciale per la Turchia, tra Caucaso, Vicino Oriente e Mediterraneo orientale, (teatri in cui non a caso si sono moltiplicate le spedizioni militari turche in cooperazione più o meno stretta con Mosca: Nagorno-Karabakh, Kurdistan iracheno, Libia, più il massiccio intervento in Siria), con cui dunque cercare l’intesa più larga possibile. Larga quanto, ad esempio, la centrale nucleare di Akkuyu, di cui il primo reattore è stato appena inaugurato, che è stata costruita, è gestita e resterà di proprietà dell’agenzia statale russa Rosatom.

Un’altra ragione: la ripresa dei conflitti regionali offriva una formidabile arma di coesione collettiva e di consenso personale. La sequenza del 2015 è eloquente: alle elezioni parlamentari di giugno l’AKP perde la maggioranza assoluta; ma Erdogan rifiuta di coinvolgere l’opposizione nella formazione del nuovo governo, benché la Costituzione lo esiga, ed indice nuove elezioni; a fine luglio, l’aviazione turca attacca di sorpresa il Kurdistan iracheno, mandando in pezzi un processo di pace in corso da tre anni; in ottobre, in un clima di estrema tensione, due kamikaze si fanno esplodere ad Ankara durante una manifestazione per la pace, provocando duecento vittime; il 1° novembre, l’AKP stravince le elezioni in nome dell’unità nazionale di fronte al “pericolo” e riconquista la maggioranza assoluta.

Erdogan decideva così di giocare una partita da battitore libero all’interno della NATO. Partita pericolosa, che gli valse l’insubordinazione di parte dei quadri militari culminata in un tentativo di colpo di stato nell’estate del 2016, mirato a riportare la Turchia più stabilmente nell’orbita geopolitica occidentale. Fallito il golpe, di cui non sono chiari gli ispiratori, ma che Erdogan ha attribuito al movimento politico Hizmet (Servizio) di Fethullah Gülen, figura culturale e religiosa di spicco in esilio in Pennsylvania dal 2002, il presidente colse l’occasione per una purga in grande stile, con oltre 50mila arresti soprattutto tra militari, personale giudiziario, insegnanti (oltre a 160mila licenziamenti). Anche in questo caso avvicinando la Turchia alla Russia, nel poco piacevole record del più alto numero di detenuti in Europa rispetto alla popolazione.

 

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Ma in questa vigilia del voto 2023, nelle città della riviera egea come Bursa, o Gölcük – difficile immaginare un luogo più triste di questo sobborgo portuale della corona urbana di Istanbul, una distesa di grossi e grigi condomini cresciuta su una striscia di pietra tra terra e mare, punteggiata da cantieri navali e installazioni militari, sferzata da venti gelidi e acque inquinate, dove il più grande monumento ricorda i 17mila “martiri” del terremoto del 1999 – città roccaforti-simbolo del cartello elettorale presidenziale, il clima non solo atmosferico risulta freddo, deluso e distaccato, ed è una cattiva notizia per Erdogan. La regione – considerata la culla dell’Impero ottomano – è infatti radicalmente conservatrice da decenni, e da qui sono scaturite molte delle idee che hanno forgiato la sintesi politica degli ultimi mandati: l’islamismo del partito del presidente, più nazionalista. E il nazionalismo turco, più islamizzante.


Ma non solo: quel terremoto del 1999 era stato uno dei trampolini della carriera politica del futuro presidente turco, che da sindaco di Istanbul aveva utilizzato la catastrofe per scatenare le sue accuse di corruzione, impreparazione, approssimazione contro istituzioni nazionali ritenute colpevoli delle immani proporzioni del disastro – attacchi che i turchi mostrarono vivacemente di apprezzare, alle elezioni del 2002, quando spazzarono via l’80% della vecchia classe politica dal parlamento. Il monumento ai “martiri”, parola carica di significato spirituale e religioso, era stato costruito a Gölcük proprio per volere di Erdogan, una volta salito al potere. Per una terribile ironia della sorte, potrebbe essere un altro terremoto a chiudere la sua parabola.

 

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L’eterogenea coalizione d’opposizione sa bene infatti che il sisma del febbraio 2023, con circa 50mila vittime ufficiali, ha lasciato un segno incancellabile. Il meeting di Maltepe è cominciato con l’elenco delle città e dei villaggi colpiti, pronunciato nel silenzio assoluto della moltitudine: centri spesso rasi al suolo sì dalla potenza del terremoto, ma anche dalla mancata osservanza delle più elementari norme anti-sismiche. Tra esponenti conservatori e altri progressisti, forse il volto più popolare tra gli oppositori – anche qui si tratta di un déjà-vu preoccupante per Erdogan – è quello del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, rieletto con una valanga elettorale nel giugno del 2019 dopo che il voto di marzo, in cui già si era imposto, era stato annullato per presunti brogli.

Pubblico a Maltepe

 

La girandola oratoria del comizio dell’opposizione è stata chiusa dalle parole di Kiliçdaroglu, che a notte ormai inoltrata, con le luci della scena a riverberare sulle acque nere del Bosforo, aveva lanciato: “Porterò la primavera e la pace in questo Paese. Ritroveremo la luce”. Forse però l’intervento più concretamente convincente era stato quello di Ali Babacan, ex ministro delle Finanze di Erdogan, passato all’opposizione e fondatore di DEVA (Partito della Democrazia e del Progresso, “rimedio” nell’acronimo), che è salito sul palco sventolando una banconota da 200 lire turche: “Valeva 134 dollari dieci anni fa, adesso ne vale 10: chi vi ha rubato la differenza?” – ha chiesto alla folla. Erdogan, in un recente discorso in cui negava che il carovita fosse una questione cruciale per i turchi, aveva affermato: “non si cambia un capo per le patate o le cipolle”. Ma il pubblico di Maltepe non sembrava d’accordo, e ha risposto a Babacan intonando il coro diventato ormai l’”inno” dell’opposizione: “patate, cipolle, addio Erdogan!”