Il voto europeo 2019: evoluzione e rivoluzione
Le elezioni europee 2019 segnano un’evoluzione del sistema politico dei Paesi dell’Unione. Non comportano un sovvertimento negli equilibri delle istituzioni della UE; ma mostrano alcuni cambiamenti di cui è bene tenere conto, sia per ciò che riguarda gli orientamenti politici complessivi a livello di Unione sia nelle mutazioni del consenso all’interno degli Stati membri, in particolare di quelli più “pesanti” (dal punto di vista demografico, economico e politico).
Vediamo anzitutto i cambiamenti politici a livello “sistemico” europeo:
- Un significativo aumento della partecipazione elettorale, arrivata a superare la soglia critica del 50% degli aventi diritto per la prima volta dal 1994. Tale aumento è stato significativo per due ragioni: in primis, perché ha invertito una tendenza – calante – che proseguiva ininterrotta sin dal 1979, anno delle prime elezioni europee; e, in secondo luogo, perché si è trattato di un aumento di intensità notevole, pari ad oltre 8 punti, sintomo di una nuova, diversa percezione dell’importanza delle elezioni europee da parte degli elettori.
- Venendo ai risultati, si è registrato un sensibile calo di consensi (e di seggi) per i partiti delle due storiche famiglie politiche principali: i popolari (EPP) e i socialisti (S&D). Entrambi i gruppi hanno perso oltre 30 seggi rispetto al Parlamento uscente, e per la prima volta dal 1979 – come del resto in molti avevano previsto prima del voto sulla base dei sondaggi – non hanno, messi insieme, la maggioranza assoluta dei seggi. Per contro, sono cresciuti il gruppo dei liberal-democratici (ALDE, che ha superato quota 100 seggi), quello dei Verdi e quello dei nazionalisti (EAPN – European Alliance of Peoples and Nations). Popolari e socialisti continuano ad essere i due gruppi maggiori, ma il loro peso relativo all’interno del Parlamento si è ridotto.
- Altro elemento che ha confermato le attese della vigilia – anche se in misura probabilmente inferiore al previsto – è la crescita dei partiti ascrivibili alla galassia “sovranista”, nazionalista e/o euro-scettica. Questi partiti appartengono in realtà a diversi gruppi: il partito Fidesz del premier ungherese Viktor Orban fa (ancora) ufficialmente parte dei popolari dell’EPP; la Lega di Matteo Salvini e il Rassemblement National (RN) francese (Marine Le Pen) appartengono all’EAPN; il partito Libertà e Giustizia di Kaczinsky, al governo in Polonia, è iscritto al gruppo dei conservatori e riformisti (ECR); infine, il nuovo Brexit Party di Nigel Farage può essere ricompreso nell’ex gruppo EFDD (Europe of Freedom and Direct Democracy) insieme al Movimento 5 Stelle italiano e all’AfD tedesca. Oltre alla crescita meramente numerica in termini di eletti, il dato politico è che in molti dei principali Paesi UE tali partiti sono risultati i più votati: la Lega in Italia, il RN in Francia, il Brexit Party nel Regno Unito, il PiS in Polonia, Fidesz in Ungheria – per non citare i casi in cui pur non essendo giunti in prima posizione hanno comunque ottenuto percentuali a doppia cifra (Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Svezia).
- A crescere, come detto, sono però anche dei partiti di impronta chiaramente europeista, appartenenti alle famiglie dei liberal-democratici e degli ecologisti. I primi ottengono buoni risultati in quasi tutti i Paesi dell’Europa centro-settentrionale e orientale (Benelux, Scandinavia, ex-URSS) ma anche in Francia (La République en Marche!), Regno Unito (Lib-Dem) e Spagna (Ciudadanos). I secondi si affermano superando il 10% in ben 14 Paesi, diventando il secondo partito in Germania (con più del 20%), il terzo in Francia e il quarto nel Regno Unito. Nel complesso, si rimodulano i rapporti di forza interni al fronte progressista, con un calo della componente socialdemocratica e laburista compensato dalla crescita di quella liberale ed ambientalista. La contemporanea marginalizzazione della sinistra radicale (contenente al suo interno non pochi elementi “euro-critici”) sembra suggerire che il cleavage economico stia perdendo forza rispetto a quello culturale nell’orientare le scelte di voto in opposizione alle forze conservatrici e/o nazionaliste.
Passando all’analisi del voto nei singoli Paesi, ci limitiamo ai quattro principali Stati dell’Unione (in termini demografici e di “peso” in seggi): Germania, Francia, Regno Unito e Italia rappresentano quasi metà del Parlamento europeo (316 seggi su 751). Un’analisi del voto in questi Paesi può raccontare molto in termini di rapporto tra politica e società nell’Europa del 2019.
Partiamo dalla Germania, il maggiore degli Stati membri con i suoi 96 seggi. Le notizie principali del voto tedesco sono essenzialmente due: il primato “stentato” della Union cristiano-democratica (CDU/CSU), prima forza politica ma per la prima volta sotto il 30% dei voti; e l’exploit dei Grünen (Verdi), secondo partito con il 20,5% a scapito dei socialdemocratici della SPD, crollati al 15,8%. Il risultato delle elezioni in Germania era particolarmente atteso, per varie ragioni oltre a quella, ovvia, riguardante il peso – demografico, economico e politico – di Berlino all’interno della UE. Due degli Spitzenkandidaten (i “candidati di punta” dei raggruppamenti europei tra cui si sceglierà il prossimo presidente della Commissione) erano tedeschi: Manfred Weber (EPP) e Ska Keller (Verdi).
Si attendeva anche il risultato dei populisti “euro-critici” di AfD (Alternative für Deutschland), che però si sono fermati all’11%, in aumento rispetto al 2014 ma in diminuzione rispetto al 12,6% delle elezioni federali di due anni fa. AfD ha confermato di essere forte in particolare nelle zone orientali della ex DDR, meno avanzate economicamente e dove sono maggiori i timori legati all’immigrazione proveniente da Est: nonostante il risultato non eccellente a livello nazionale, AfD è risultato il primo partito nei Land del Brandeburgo e – soprattutto – della Sassonia.
L’analisi di dettaglio della distribuzione del voto consente di apprezzare maggiormente l’elemento di novità (e, in potenza, dirompente) costituito dal risultato dei Verdi. Come già accaduto nelle elezioni regionali tenutesi nel 2018 (in Baviera e Assia), gli ambientalisti si sono confermati particolarmente competitivi nei centri urbani: sono il primo partito nelle principali città (Berlino, Monaco di Baviera, Francoforte, Stoccarda, Hannover). Inoltre, secondo un’indagine dell’istituto Infratest Dimap, che ha realizzato gli exit poll, i Verdi sono di gran lunga la prima scelta degli elettori più giovani: nella fascia d’età 18-24 i Grünen avrebbero il sostegno di un elettore su tre.
Anche in Francia, secondo Paese per numero di eurodeputati (74, che diverranno 76 dopo la Brexit) i Verdi hanno ottenuto un ottimo risultato – peraltro a sorpresa, quasi doppiando le stime che i sondaggi attribuivano loro. EELV (Europe Ecologie Les Verts) ha infatti ottenuto il 13,5%, piazzandosi terzo e ben davanti a partiti storici come quello gollista (Les Républicains) e quello socialista, o ben più accreditati alla vigilia come la sinistra radicale di La France Insoumise (che nel 2018 sfiorò il 20% con Jean-Luc Mélenchon alle Presidenziali).
Ma la notizia principale è il primato del Rassemblement (ex Front) National di Marine Le Pen, sia pure di un soffio (poco più del 23% dei consensi contro il 22,4% di La République en Marche (LRM), partito del Presidente Emmanuel Macron. Le elezioni europee 2019 in Francia confermano quanto emerso alle Presidenziali di due anni fa: il precedente bipolarismo, basato sull’alternanza tra socialisti e gollisti, è stato sostituito da un nuovo bipolarismo, i cui pilastri sono il partito liberal-centrista di Macron da un lato e quello nazionalista euro-scettico della Le Pen dall’altro.
Studiando la distribuzione geografica del voto, vale la pena notare come si sia replicata la netta differenza tra il voto nelle zone urbanizzate e quello nelle zone rurali: se nelle prime a prevalere è stato LRM (e in certi casi i Verdi, come negli arrondissement nord-orientali della capitale Parigi), le seconde sono state dominate dal partito lepenista, tanto è vero che nello scrutinio – che vede sempre arrivare per primi i dati dei piccoli centri – quest’ultimo è stato per lungo tempo avanti di molti punti, vantaggio poi drasticamente ridottosi con l’arrivo dei dati dalle grandi città.
Il primato del RN ad ogni modo rischia di essere fuorviante: già nel 2014 l’allora Front National giunse primo, e con una percentuale persino maggiore (24,8%), ma ciò non bastò a rendere competitiva Marine Le Pen alle Presidenziali; il motivo risiede nel sistema di voto, che in Francia è basato sul doppio turno. Anche nel 2017 il FN superò il 20% (pur arrivando in seconda posizione) ma al ballottaggio Macron vinse con circa i due terzi dei voti. Un sondaggio dell’istituto Ifop, realizzato all’indomani del 26 maggio, indica che tale esito si ripeterebbe: nonostante il successo alle elezioni europee, Marine Le Pen sarebbe nuovamente sconfitta da Macron, sia pure in modo meno netto (57 a 43).
Il caso del Regno Unito è particolarmente interessante. Si tratta di un risultato “a tempo determinato”, poiché gli europarlamentari eletti dai britannici decadranno nel momento in cui sarà concretizzata – se lo sarà – la Brexit. Ma il voto ha di nuovo certificato quanto la frattura aperta dallo storico referendum del giugno 2016 sia tuttora profonda. A vincere è stato il Brexit Party, nuova creatura di Nigel Farage, politico nazional-populista ed ex leader dello UKIP che in poche settimane ha messo in piedi una lista capace di raccogliere oltre il 30% dei consensi a livello nazionale.
Già nel 2014 Farage aveva vinto le europee, quando il suo UKIP giunse primo con oltre il 26% dei voti, ma stavolta l’impresa è persino più impressionante. Farage ha intuito che, mentre la metà degli elettori britannici contrari alla Brexit avevano già dei riferimenti politici (Lib-Dem, buona parte del Labour, financo il nuovo, bipartisan Change UK), vi era un enorme potenziale nella frustrazione dell’altra metà che nel 2016 votò Leave e che nei tre anni successivi ha visto fallire ogni tentativo del governo Conservatore di Theresa May di portare a compimento l’uscita dall’Unione Europea. Ma la rivoluzione del quadro politico non si è limitata all’affermazione del Brexit Party. A conferma di quanto il cleavage pro/anti UE sia radicato, il secondo posto è stato ottenuto dallo storico partito dei Lib-Dem, che ha raggiunto il 19,6% ponendosi come il miglior interprete del sentimento contrario all’uscita (i Lib-Dem propongono un secondo referendum per “ribaltare” quello del 2016).
Per contro, il Labour di Jeremy Corbyn paga le ambiguità del suo leader proprio sulla principale tematica nazionale, certo non aiutato dal tipo di competizione elettorale: il 13,6% è uno dei peggiori in assoluto nella storia del partito, che ha sofferto anche la concorrenza, a sinistra, dei Verdi (quarto partito con oltre l’11% e davanti ai laburisti in tutte le regioni dell’Inghilterra sud-orientale, ad eccezione di Londra – unica regione dove il partito di Corbyn arriva davanti al Brexit Party). Ancora peggiore è però il dato del partito Conservatore, sprofondato sotto il 9% e in piena crisi per la lotta alla successione di Theresa May.
Di fronte allo stravolgimento visto in Regno Unito, la rivoluzione elettorale che si è verificata in Italia (la quarta dal 2013 ad oggi) sembra quasi passare in secondo piano. Eppure, anche il risultato nel nostro Paese è ricco di spunti meritevoli di riflessione. A cominciare dal dato dell’affluenza, in calo rispetto al dato 2014, nettamente in controtendenza rispetto al dato europeo generale. Se negli altri Paesi UE si è in qualche modo percepito che la posta in gioco di queste elezioni fosse più alta che in passato, in Italia ciò non sembra essere avvenuto.
Le elezioni europee sono state in tutto e per tutto un’elezione “nazionalizzata”, in cui i temi europei sono stati quasi totalmente assenti dalla campagna elettorale e in generale dall’agenda politica. I dati dell’instant poll di Quorum/YouTrend per SkyTG24 hanno indicato che ben il 74% degli italiani ha votato pensando prima di tutto all’Italia. Dagli stessi dati emergono segnali positivi per il governo in carica, a quasi un anno esatto dal suo insediamento. Il 51,4% ottenuto complessivamente da Lega e Movimento 5 Stelle è – anche se di poco – superiore al consenso raccolto dai due partiti in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo 2018. È una percentuale che si ritrova, praticamente identica, in altri due elementi dell’indagine Quorum/YouTrend: quella degli intervistati che hanno dichiarato di votare per “sostenere il Governo” e quella di chi prevede che l’attuale esecutivo sia destinato a cadere non prima di due anni, entrambe – incredibilmente – pari al 51,3%.
L’analisi del voto – al di là del clamoroso risultato complessivo, che ha visto la Lega di Salvini ribaltare completamente i rapporti di forza nei confronti del M5S rispetto al 2018 – mostra anche qui degli elementi estremamente interessanti. Un primo elemento è la geografia: la nazionalizzazione della Lega può dirsi compiuta, dal momento che il partito di Salvini risulta il più votato in più di 5.800 comuni (circa 3 comuni su 4) da Nord a Sud e che ottiene in media più del 20% dei consensi anche nelle circoscrizioni Italia Meridionale e Italia Insulare; la maggior forza relativa della Lega al Nord appare come un elemento di continuità rispetto al passato, così come la distribuzione fortemente sbilanciata sul Mezzogiorno del Movimento 5 Stelle e la maggior competitività del Partito Democratico nelle regioni centro-settentrionali e nei grandi centri.
L’analisi del voto per dimensione del comune è anch’essa rivelatrice: la Lega mostra un andamento discendente, toccando oltre il 40% nell’insieme dei comuni più piccoli (fino a 5.000 abitanti) e calando al 24% in quelli maggiori (da 300.000 in su). Viceversa, il Partito Democratico fa più fatica proprio nei centri minori (18%) ma la sua percentuale cresce in misura proporzionale al numero dei residenti, arrivando a superare il 30% nelle città più grandi, dove molto spesso è il primo partito.
Andando ancora più in dettaglio, il PD conferma il suo carattere di “partito delle ZTL” ottenendo i suoi risultati migliori proprio nei quartieri più centrali e/o benestanti, delle 4 principali città: Roma, Milano, Napoli e Torino. Mentre il M5S ha sofferto pesanti perdite di elettori sia verso l’astensione che verso gli altri partiti (in primis proprio la Lega), i democratici hanno guadagnato in percentuale rispetto al 2018 ma continuano a fare molta fatica tra i ceti meno abbienti e tra gli elettori con una condizione lavorativa meno prestigiosa. Secondo uno studio dell’istituto SWG, in questi segmenti prevale nettamente il voto alla Lega, che alle europee 2019 avrebbe raccolto il 47% tra gli operai e il 48% tra la fascia più povera degli elettori.