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Il senso del paradosso spagnolo

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Il lungo periodo nell’ombra, dopo tanta ribalta sul palcoscenico continentale, sembra concluso: negli ultimi anni, la Spagna si è dedicata alle ferite profonde inferte dalla congiuntura negativa, e alle sue multiple crisi politiche – il secessionismo catalano, il declino dei socialisti, la crescita impetuosa di nuovi partiti. Ma ora, in Europa, si torna a guardare oltre i Pirenei, grazie alla situazione paradossale che vive il paese.

Da quasi un anno non c’è un governo: le elezioni del dicembre 2015, le prime a cui oltre ai tradizionali contendenti popolari e socialisti hanno aspirato alla vittoria anche i neonati liberali di Ciudadanos e radicali di Podemos, sono state uno spartiacque. Se prima, in Spagna, il voto aveva sempre dato un vincitore netto, che avrebbe governato senza problemi di maggioranza, senza dover formare intese, coalizioni o inciuci post-elettorali, quello di nove mesi fa invece si è chiuso sì con la vittoria dei popolari dell’uscente Mariano Rajoy, ma senza che alcun partito fosse vicino alla maggioranza assoluta dei seggi.

L’ex presidente socialista Felipe González ha commentato: “sembra l’Italia, ma ci mancano gli italiani” – riferendosi all’arte del compromesso e dell’accordo parlamentare, così affinata nel nostro paese. E in effetti, nell'”Italia senza italiani”, anche se molte combinazioni erano possibili, i quattro partiti non sono riusciti a mettersi d’accordo. A giugno, subito dopo la Brexit, gli spagnoli sono quindi tornati a votare; e anche se il risultato è stato leggermente diverso (i popolari sono cresciuti un po’), la situazione non è cambiata: tre mesi dopo, ancora nessun accordo, tanto che lo scenario di una terza elezione ora sembra abbastanza probabile.

Ma c’è anche un’altra cosa che accade, nell'”Italia senza italiani”: mentre nell’Italia originale restiamo inchiodati, nonostante provvedimenti e incentivi vari, a una crescita infinitesimale, l’economia spagnola vola a un ritmo superiore al 3%, ed è ormai tornata ai livelli pre-crisi per quanto riguarda il pil – sebbene la disoccupazione sia ancora attorno al 20%, la seconda più alta in Europa dopo la Grecia.

Chi è convinto che la politica, in buona sostanza, sia un inconveniente che siamo costretti a sopportare, o peggio una disgrazia intollerabile, approva – ricordando come, nell’Italia degli anni ’80, il pil galoppasse rapido mentre la politica romana si accartocciava su se stessa.

Ma a cosa dobbiamo la crescita spagnola attuale? Da un lato, lo scoppio della bolla immobiliare-finanziaria del 2008 ha travolto il sistema bancario, che a costo di gravi ristrutturazioni, riduzioni, fusioni, è stato rifondato negli ultimi anni sotto una regia centralizzata inflessibile, e ora gode di solidità sufficiente a finanziare gli investimenti. In secondo luogo, le grandi imprese spagnole, durante gli anni della crisi, si sono aggrappate a un salvagente di cui le loro cugine francesi, italiane, portoghesi o greche non hanno goduto: l’attività in Sud America. I bilanci positivi di quella regione, fino a poco fa in ottima salute, gli hanno consentito di resistere in Spagna; e ora di accedere alle casse delle banche.

Ma il credito facile offerto dal sistema bancario, gli investimenti su larga scala delle grandi imprese e la spesa pubblica – il debito ha appena superato il record del 100% sul pil, e l’indebitamento privato è tornato a salire – riportano la Spagna pericolosamente vicina alla traiettoria che si rivelò fallimentare nel 2008, originando il crollo di tutto il sistema. L’assenza di un dibattito parlamentare si sta facendo sentire su una questione cruciale come il modello di sviluppo, che è tornato sui suoi soliti binari proprio per i vecchi automatismi del sistema economico – come notava di recente un’inchiesta di Forbes.

Ad esempio, dalle regioni spagnole meno dipendenti dalla spesa pubblica, costellate di un’ossatura tradizionale di piccole e medie imprese, cioè Catalogna e Comunità di Valencia (simili in qualche maniera alle nostre Lombardia e Veneto, ma con meno peso politico), si chiedono da tempo trasporti più efficienti e razionali, capace di valorizzare le potenzialità produttrici ed esportatrici della zona, riequilibrando un’economia nazionale basata sul credito. Senza successo: il sistema infrastrutturale spagnolo mantiene la sua stella polare su Madrid, senza che in parlamento se ne possa dibattere.

Ma non sono solo le questioni economiche – come la crescita della produttività, della qualità del lavoro, dell’inclusione sociale, della lotta alla disoccupazione di lungo periodo – a necessitare di decisioni. La Spagna, nell’ultimo anno, è restata assente da tutti i grandi dossier su cui l’Europa sta provando a costruire il suo futuro: la sicurezza interna, l’immigrazione, i conflitti alle nostre frontiere, gli accordi diplomatici con i vicini: Madrid, se ha detto la sua, lo ha fatto debolmente.

Per compiere scelte strategiche c’è bisogno di una struttura salda che le sostenga; prima o poi, altrimenti, se ne paga il prezzo – che si tratti del posizionamento internazionale di un paese, della politica industriale di una regione o dell’amministrazione di una città. Anche gli abitanti dell'”Italia senza italiani” ne sono consapevoli, e c’è da credere che, se non ne saranno capaci i loro partiti, risolveranno da soli lo stallo, con il voto, al terzo tentativo.