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Il ritorno della questione abitativa nelle città europee: finanza e politica – e geografia

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Negli anni le politiche per le città sono state tra le leve più popolari di legittimazione del progetto europeo. Dagli anni Ottanta dello scorso secolo una serie di iniziative lanciate da Bruxelles – Urban, Urban Innovative Actions, gli stessi programmi urbani nazionali finanziati dalle iniziative regionali europee – hanno assunto un ruolo rilevante nel dibattito sulle e nella pratica delle politiche urbane.

Tuttavia, è sempre più evidente la scarsa presenza delle politiche dell’Unione su uno dei temi che sempre di più definisce la questione urbana contemporanea nelle città europee: quella delle abitazioni. Scarsa presenza che è sia esito sia fattore di riproduzione della persistente, significativa varietà dei sistemi abitativi che si possono osservare fra i Paesi membri. Vi sono senza dubbio tendenze comuni, risultato di spinte che possiamo ascrivere ai processi di globalizzazione neoliberale, che tuttavia sono mediate – temperate in alcuni casi, radicalizzate in altri – dalla lunga durata di politiche pubbliche, dalla conformazione dei mercati e degli attori che li strutturano, dalle aspettative sociali diffuse.

Questa varietà si apprezza non solo comparando i sistemi nazionali, ma anche guardando alla traiettoria di singole città di diversi contesti nazionali che talvolta si assomigliano fra loro – soprattutto dal punto di vista delle risposte pubbliche – più di quanto si assomiglino con città del medesimo contesto nazionale. Se è quindi vero che la tendenza complessiva ha puntato verso il sostegno all’accesso alla proprietà, la contrazione dell’intervento pubblico e la privatizzazione dei patrimoni pubblici precedentemente esistenti, è egualmente vero che al livello di ogni singola città le condizioni rimangono profondamente diversificate.

L’eredità socialdemocratica ancora visibile a Vienna, dove poco meno del 50% del patrimonio abitativo complessivo è di proprietà del comune o di attori dell’economia sociale, in una città dove i proprietari della casa nella quale abitano sono poco più del 20% dei residenti. Agli antipodi, troviamo molte città dell’Europa meridionale e orientale dove la vastissima maggioranza dei residenti possiede l’abitazione nella quale risiede – più dell’80% a Barcellona e a Bucarest – e la presenza pubblica (e anche dell’economia sociale) nella produzione e fornitura di abitazione è del tutto trascurabile. Nel mezzo troviamo una grande varietà di casi in cui modelli di godimento degli alloggi (quella che in inglese si definisce housing tenure: essenzialmente, l’affitto o la proprietà), di loro produzione e gestione e di forme di sostegno pubblico si combinano e ricombinano in modi peculiari. Come si può leggere nel recente rapporto “Housing policy under the conditions of financialisation: the impact of institutional investors on affordable housing in European cities” (HoPoFin), la risposta alla grande crisi del 2008, la crisi a maggiore componente immobiliare della storia del capitalismo, ha se possibile ulteriormente divaricato le traiettorie locali.

Il complesso di edilizia pubblica Matteotti-Hof a Margareten, Vienna

 

Le risposte alla crisi immobiliare del 2008: sia convergenti, sia variegate

In Spagna, le misure di austerità concordate con la Commissione Europea hanno comportato l’acquisizione da parte di fondi di investimento di importanti quote di patrimonio residenziale da proprietari insolventi e la privatizzazione del già scarsissimo patrimonio pubblico. Questo è avvenuto anche in Grecia dove però, soprattutto in una prima fase, lo Stato ha protetto la proprietà diffusa ponendo dei limiti stringenti ai pignoramenti. La gestione dei “not performing loans” – i mutui immobiliari con proprietari insolventi – ha rappresentato una questione decisiva anche in altri paesi, si pensi all’Irlanda in particolare, e gli impatti sociali sono stati differenziati anche perché la risposta pubblica è stata differenziata.

Più complessivamente, specie nelle aree metropolitane più dinamiche, si è assistito all’esaurirsi della spinta alla residenza in proprietà come orizzonte inevitabile della traiettoria abitativa, anche per parte delle stesse classi medie. In Gran Bretagna, il decennio post-crisi è stato dominato dall’avvento della cosiddetta “generation rent”, una generazione per la quale l’approdo alla proprietà – specie a Londra – si è sempre più allontanato, divenendo per molti sostanzialmente impossibile.

Dietro alla crisi della proprietà diffusa ci sono diversi fattori: la parossistica rivalutazione di suoli e patrimoni edilizi urbani che attrae masse crescenti di capitale negli impieghi immobiliari, una geografia che vede la crescita economica sempre più concentrata nelle grandi aree metropolitane, una più spiccata preferenza delle giovani generazioni per la vita urbana, e fattori demografici quali lo slittamento in avanti dell’età della procreazione o la maggiore propensione a restare single (con il relativo impatto sul tipo di alloggio che si desidera, e che ci si può permettere).

La crisi dell’accesso alla proprietà ha condotto ad una crescente domanda di affitto, determinando una affordability crisis anche su quel mercato – sulla risoluzione della quale le opinioni differiscono molto. Se gli investitori fossero lasciati liberi di investire – sostengono economisti liberali – la crisi si risolverebbe perché la maggiore offerta farebbe scendere prezzi e canoni. Sulle pagine dell’Economist periodicamente si denuncia il ruolo distorsivo giocato dalla Green Belt, la cintura verde metropolitana stabilita per legge attorno alla capitale britannica, nel comprimere l’offerta abitativa. Altri economisti, si vedano ad esempio Andrés Rodríguez-Pose e Michael Storper, sostengono invece che anche dove l’offerta è stata maggiore non si sono prodotti effetti apprezzabili su prezzi all’acquisto e canoni.

In alcune zone dell’area urbana di Amsterdam il prezzo degli affitti è cresciuto fino al 130% in dieci anni

 

Il ritorno della casa in politica (nelle grandi metropoli)

La politica della casa è comunque divenuta un terreno di costituzione, legittimazione ed ovviamente anche delegittimazione di coalizioni di potere urbane. L’immagine di città sempre più diseguali ma politicamente pacificate, ed assediate da periferie non metropolitane impoverite e che tendono a scegliere la destra e i cosiddetti “populisti”, è stata messa di recente almeno un po’ in discussione: questo è successo o per le rivolte del sottoproletariato urbano – si vedano quelle francesi del 2022 – o per i movimenti per la casa. La varietà di condizioni che abbiamo richiamato contribuisce a differenziare le stesse forme di scontento popolare, e di intervento pubblico sulla questione urbana e delle abitazioni.

A Berlino, come si può leggere nel già richiamato rapporto HoPoFin, l’emergere di grandi attori finanziarizzati che nel tempo hanno concentrato nelle loro mani la proprietà di decine di migliaia di alloggi un tempo pubblici, ha reso questi i bersagli naturali dei movimenti per la casa. A Barcellona, il bersaglio sono state principalmente le banche che pignoravano le abitazioni e gli investitori istituzionali che le acquisivano. A Milano, viceversa, dove la proprietà del patrimonio in affitto è molto frammentata, la protesta degli studenti e dei giovani lavoratori ha faticato a trovare un bersaglio preciso e anche un interlocutore pubblico, considerato che – come spesso capita nell’Europa meridionale – il blocco elettorale su cui si regge l’amministrazione comunale è fatto in parte decisiva dai ceti medio-alti che hanno guadagnato dai processi di valorizzazione immobiliare prodottisi negli ultimi decenni.

Di fronte a questi movimenti gli attori politici locali hanno risposto in modi molto diversi e, in qualche rarissimo caso, sono stati sostituiti proprio sull’onda delle varie mobilitazioni: è il caso di Barcellona, con l’arrivo al potere di un’attivista dei movimenti per la casa, Ada Colau, che ha governato la città per due mandati.

 

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Spesso, le città hanno mostrato di volere più riforme di quanto i livelli nazionali di governo siano disponibili a concedergli. In Germania, Spagna e Francia vi sono stati conflitti costituzionali che hanno visto le amministrazioni delle grandi città proporre forme di intervento pubblico – regolazione degli affitti, acquisizioni pubbliche – che non sono state giudicate compatibili con la potestà nazionale di regolare mercati e diritti di proprietà. E perfino nell’assai conservatrice Italia, i grandi comuni richiedono un intervento nazionale per regolare gli affitti brevi che governo e relativa maggioranza parlamentare non stanno considerando.

Diversamente dalla crisi abitativa di altre fasi dello sviluppo del capitalismo europeo, la sua apparente iper-concentrazione – specie nell’Europa del Sud e dell’Est – in un numero ridotto di grandi poli urbani la rende politicamente meno appetibile per le classi politiche nazionali. Varare riforme della regolazione o inaugurare programmi di spesa pubblica sulla casa d’impronta redistributiva in un contesto simile può scontentare i ceti medio-superiori di quei grandi poli urbani. Ma anche lasciare allo stesso tempo fredda e disinteressata quella parte, assai cospicua, dell’elettorato che risiede in territori dove i valori immobiliari stagnano o decrescono ma che magari insegue il miraggio dello sfruttamento turistico di quel patrimonio.

Anche in questo caso la fase attuale del capitalismo si conferma essere tutta una questione – assai difficile – di geografia.

 

 

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