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Il miracolo scientifico anti-Covid e la sfida della cooperazione multilaterale

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L’arrivo del vaccino anti-Covid19 alla fine dell’indimenticabile anno 2020 segna una svolta assoluta nella storia della scienza, grazie alla cooperazione fra centinaia di ricercatori di tutto il mondo, alla gigantesca mobilitazione finanziaria da parte dei governi. Mai si era vista prima un’attivazione di questa portata contro il medesimo agente patogeno, vettore di una pandemia ormai non più solo sanitaria ma anche sociale ed economica.

La prima dose di vaccino anti-Covid iniettata a New York

 

Nel mondo occidentale, due vaccini (Pfizer/Biontech e Moderna) sono stati scoperti e prodotti con una velocità inaudita – 10 mesi invece dei classici 10-12 anni – e una efficacia iniziale che lascia semplicemente allibiti, oltre il 90%. Il vaccino Oxford University/Astra Zeneca è stato ritardato di un mese o poco più dal bizzarro errore iniziale della dose – in fase di studio clinico si è scoperto che mezza dose era più efficace di quella intera testata in origine – ed è quello su cui punta gran parte del piano vaccinale europeo, al netto della sospensione precauzionale richiesta dopo i 30 casi di trombosi (5 dei quali mortali) segnalati tra i 5 milioni di europei che hanno ricevuto il vaccino. Intanto altri vaccini sono entrati in scena, come il monodose Johnson&Johnson.

Ma anche fuori dai confini delle economie euro-americane la ricerca scientifica ha fatto miracoli, con tutt’altro modello di business, improntato al deciso protagonismo del settore pubblico. La Russia si è affermata grazie alla validazione, da parte di importanti riviste scientifiche internazionali, del vaccino Sputnik V.  Un nome, una promessa. L’agenzia europea del farmaco (EMA) ha avviato la revisione periodica dei dati (rolling review) in vista di una probabile approvazione, dato lo sviluppo di anticorpi che Sputnik V ha ampiamente dimostrato – e lo stesso vale per l’altro vaccino russo, EpiVacCoriona, efficaci anche rispetto alle varianti di SARS-CoV-2 (come risulta dai recenti dati provenienti dal Sudafrica).

In Cina, sono ormai cinque i vaccini approvati per uso d’emergenza e ordinario, e tre di questi sono stati distribuiti ad altri paesi attraverso accordi commerciali o di cooperazione – una “via della seta sanitaria” che Pechino ha messo in campo dalla scorsa primavera per ripristinare l’immagine e consolidare la sua influenza in Asia, Africa e Sudamerica, come nuovo potente player della salute globale.

Lo scenario internazionale insomma resta assai mobile, anche perché ci sono nuovi vaccini in dirittura di arrivo nei prossimi mesi, nella pipeline dell’intensa ricerca ancora in corso. Con strategie diverse, ogni blocco produttivo sta ridefinendo un proprio posizionamento geopolitico e scientifico, varchi per nuove alleanze con l’Occidente pesantemente colpito dalla pandemia, ovvero per ribadire la forza di modelli di ricerca pubblica da molti ritenuti superati in nome della primazia del mercato.

Insomma, siamo di fronte ad un vero miracolo della medicina; una pietra miliare psicologica entusiasmante, ma anche pericolosa. Non appare del tutto appropriato infatti farsi prendere troppo facilmente dalla pur comprensibile euforia dei vaccini che molta comunicazione ufficiale – non solo in Italia – interpreta come l’inizio della fine della pandemia. Casomai, con uno sguardo più smaliziato sulle molteplici incognite dell’evoluzione virale e delle dinamiche geopolitiche, ci sembra di poter dire che l’avvento dei vaccini segna, per usare le parole di Winston Churchill, la fine dell’inizio della pandemia. Il tunnel in fondo al quale si intravede una luce è molto lungo, ripetono gli studiosi più avvertiti, e anche parecchio insidioso. Perciò sarà necessario che i governi facciano buon uso dei vaccini.

Malgrado le resistenze che puntualmente incontrano, fin dal vaccino di Jenner contro il vaiolo del 1798, questi sono interventi di sanità pubblica assolutamente unici per la loro capacità di combinare benefici individuali e collettivi. Ma a certe condizioni. Nel caso specifico di Covid19, oltre ai diversi aspetti scientifici da tenere sotto stretto monitoraggio, ci sono anche quelli relativi agli scenari futuri del rapporto fra governi e aziende, ivi incluse evidentemente le regole in materia di trattati commerciali, di estrema rilevanza quando si parla di accesso ai farmaci essenziali, a maggior ragione in tempo di pandemia.

Quale che sia il modello di business utilizzato, il finanziamento pubblico ha agito da leva essenziale per attivare la rotta senza precedenti sopra descritta. Sono i fondi pubblici che hanno di fatto rivoluzionato gli studi clinici e permesso l’incredibile accelerazione dei processi scientifici, che per la prima volta sono stati svolti in parallelo e non in sequenza. Un rapporto pubblicato l’11 gennaio dalla kENUP Foundation, una non profit europea che monitora la ricerca in ambito sanitario, rivela che in 11 mesi di ricerca farmaceutica su SARS-CoV-2 il settore pubblico ha investito 93 miliardi di dollari; di questo colossale impegno finanziario il 95% è stato destinato ai vaccini – 86,5 miliardi di dollari – e il 5% ai farmaci e ai diagnostici.

La gran parte dei fondi pubblici è arrivata dai paesi industrializzati, con il 32% di investimenti dagli USA (attraverso l’operazione WARP Speed), il 24% dall’Unione Europea (tramite la Commissione), il 13% dal Giappone e dalla Corea del Sud. L’iniziativa multilaterale COVAX – sotto l’egida di OMS, Banca Mondiale, Commissione Europea e Fondazione Gates – ha avuto un ruolo importante nel convogliare il 93% dei fondi per accelerare ricerca, produzione e distribuzione dei vaccini tramite il meccanismo vincolante di impegno di acquisto preventivo (Advance Market Commitment, AMC), che ha reso subito disponibile i finanziamenti e spinto molto l’attività scientifica.

E’ forse più sorprendente sapere che la fetta finanziaria più consistente sia andata alle piccole e medie imprese e solo il 18% ai grandi produttori farmaceutici. La realtà è che le aziende biotech hanno avuto un ruolo determinante nella ricerca contro Covid19. Piccole aziende sconosciute fino a poco tempo fa, come l’americana Moderna o le tedesche CureVac e BionNThec, specializzate nella tecnologia dell’Rna messaggero, sono diventate protagoniste di questa storia dei vaccini. Covid19 ha rappresentato un trampolino senza pari. Basti pensare alla tedesca CureVac, che si è lanciata sul mercato finanziario a metà agosto, e che ha visto svettare i suoi titoli del 249,4% in 24 ore, e del 400% in due giorni. Per la felicità della Fondazione Bill & Melinda Gates, da tempo uno dei principali investitori di Curevac, BioNThec, e della ricerca nei vaccini mRNA.

Mai avremmo immaginato, un anno fa, che un bene di salute pubblica come il vaccino sarebbe diventato lo strumento principe della diplomazia, e della riconfigurazione della geopolitica mondiale, in un mondo multipolare che ha perduto il senso – significato e direzione – del multilateralismo. Meraviglioso sarebbe oggi l’uso del vaccino per fare la pace tra Israele e Palestina, o tra India e Kashmir – tanto per citare due esempi – in risposta alla pedagogia feroce ma razionale di Covid19. Meravigliosa sarebbe oggi una presa di posizione favorevole e ragionevole alla richiesta di moratoria dei diritti di proprietà intellettuale in campo farmaceutico, una delle dorsali più simboliche della patogenesi alimentata dalla globalizzazione.

Un furgone per il trasporto dei vaccini nelle aree rurali dell’India

 

La proposta di India e Sudafrica, forte della co-sponsorhip di 57 paesi e dell’appoggio di altri 100 governi in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), tiene banco e mobilita le opinioni pubbliche, sotto la spinta di agenzie ed esperti dell’ONU, di Papa Francesco, di movimenti sindacali e politici, di oltre 400 organizzazioni della società civile, che puntano a rompere l’opposizione minoritaria di USA, Commissione Europea, Canada, Giappone, Russia, Australia.

La gestione proprietaria della conoscenza su cui poggia la ricerca scientifica è agli antipodi dello sforzo di intelligenza collettiva che serve di fronte a una sfida come SARS-CoV-2. Mentre esaltiamo i risultati della scienza nel 2020, non riusciamo a immaginare gli esiti nella lotta alla pandemia se gli scienziati di tutto il mondo avessero potuto condividere pienamente know-how e dati della filiera scientifica, le piste tecnologiche già battute, per combinarle creativamente e generare un portafoglio di candidati vaccini con le caratteristiche più adatte a debellare il nuovo coronavirus.

Ma non si sfugge: SARS-CoV-2 impone un ripensamento del sistema di produzione della conoscenza, a 25 anni dalla creazione della OMC. Oltre la retorica, il vaccino bene comune è la sfida della politica intorno a Covid19, e al futuro del pianeta.

 

 


* L’autrice è affiliata all’associazione indipendente di giornalisti Lettera22