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La barra raddrizzata della politica estera americana

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 Non ci si deve far ingannare dalle due tempeste in un bicchier d’acqua seguite alle dichiarazioni del Presidente Biden su Vladimir Putin (il 17 marzo, in un’intervista all’ABC) e poi dalla conferenza stampa del Segretario di Stato, Antony Blinken, con la sua controparte cinese, Yang Jiechi (il 18 marzo, negli incontri bilaterali ad Anchorage, Alaska). In entrambi i casi, ciò che conta di più è il giorno successivo, e gli effetti “secondari” delle nuove posizioni assunte da Washington.

Il presidente americano Joe Biden

 

Il Presidente russo ha risposto con una battuta, senza poter certo negare l’accusa di essere un “killer” (in termini di responsabilità politica, lo è praticamente qualsiasi leader politico con ruoli istituzionali di vertice), e soprattutto non ha forse voluto rinunciare alla sua immagine oscura di uomo duro al comando. Quanto al ben più importante rapporto USA-Cina, la due-giorni di Anchorage si è aperta con una prova retorica di forza (fatta di accuse reciproche certo al di fuori dell’etichetta diplomatica), che però ha introdotto una seconda giornata di colloqui pragmatici che le due parti hanno infatti definito “utili e costruttivi”.

Ora, se alziamo lo sguardo rispetto alle vicende immediate della cronaca, quello a cui stiamo assistendo è un riassetto della politica estera americana che era ampiamente atteso e annunciato. Dopo i quattro anni confusi, poco produttivi e talvolta incomprensibili di Donald Trump, abbiamo a Washington un’amministrazione che parla in modo piuttosto coerente attraverso almeno quattro-cinque figure chiave (e dunque non è ossessivamente dominata dalle esternazioni imprevedibili del Presidente): oltre a Joe Biden, abbiamo il capo della diplomazia Blinken, il National Security Adviser Jake Sullivan, l’Inviato Speciale per il Clima John Kerry (che è membro del National Security Council), e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin.

Questa squadra di governo ha raddrizzato la barra della politica estera e di sicurezza, ponendola su basi razionali – ovviamente opinabili e non certo di sicuro successo, ma pur sempre razionali. Con disciplina e pazienza, l’amministrazione sta fissando alcuni paletti di principio, per poi aprire tavoli negoziali dove alcuni accordi saranno possibili.

Si potrà dire che le dichiarazioni di principio sono un puro sfoggio retorico in politica estera, e in parte è così; ma la retorica ha un suo ruolo da giocare, soprattutto quando si confrontano, agli occhi del mondo, modelli politici radicalmente diversi. E’ allora utile ricordare a tutti che gli Stati Uniti non condividono la repressione cinese a Hong Kong oppure nello Xinjang, sia per ragioni di principio che di interesse. Come è utile sottolineare che i metodi utilizzati dal Cremlino per silenziare gli oppositori interni dimostrano una debolezza intrinseca, cioè il terrore del dissenso.

Stabiliti questi punti fermi, si può procedere ad avviare negoziati, discussioni pragmatiche, e auspicabilmente raggiungere accordi selettivi e parziali. E’ questa l’arte del possibile. E per negoziare da una posizione di forza non basta ripetere come un mantra “America First”, dimenticando proprio i vantaggi comparati del modello politico, economico e sociale americano. Per farlo è necessario invece evidenziare le debolezze dei modelli alternativi, pur riconoscendo con realismo i dati di fatto del potere globale.

Vedremo se e come l’America di Biden vorrà enfatizzare la contrapposizione tra democrazie liberali e autocrazie repressive, e in che misura dovrà magari inserire in una qualche categoria intermedia Paesi come l’India e il Brasile. In ogni caso, è chiaro che a Washington si vede ora il soft power come parte integrante dell’azione internazionale: dunque anche la natura dei regimi politici, e il metodo multilaterale con la conseguente esigenza di attrarre partner e creare consenso.

Per l’intero mandato di Donald Trump, gli strali verbali del Presidente americano erano rivolti contro quasi tutti, indistintamente: alleati tradizionali, organizzazioni internazionali, immigrati, perfino agenzie del governo statunitense – e a volte anche avversari e nemici geopolitici, che però nella confusione non spiccavano neppure. Oggi non è il caso di farsi prendere dal panico se i membri dell’amministrazione Biden si permettono di criticare apertamente i leader russi e cinesi. In una cornice razionale per la condotta degli affari esteri, ci sarà ampio spazio sia per la fermezza che per la cooperazione.