international analysis and commentary

Estonia, segnali dalla “buffer zone”

970

I rapporti tra i Paesi baltici e la vicina Russia presentano, sul piano storico come su quello attuale, evidenti criticità. Ma proprio per questa ragione occorre evitare, in sede di analisi, di acuirli con stereotipi o sofisticate gabbie ideologiche poco utili a una disamina oggettiva.

L’Estonia, come la Lettonia, confina direttamente col suolo russo, e rappresenta in questo senso un interessante case study. Passando dalle tenui influenze culturali alle marcate ingerenze politiche, fino alle brutali occupazioni manu militari, appare evidente che non solo di Russia (ora zarista, ora sovietica) si dovrebbe parlare, per il Paese la cui capitale è a soli 350 km da San Pietroburgo, ma anche a soli 80 km – via mare – da Helsinki.

L’Estonia nella regione baltica

 

L’influenza danese, quella svedese e naturalmente quella tedesca (dal medioevo sino all’occupazione nazista del 1940) sono parte del mosaico culturale e antropologico dell’identità estone, sul quale la Russia ha – ora alternativamente, ora contemporaneamente – giocato a sua volta un ruolo di primo piano assoluto.

Di certo l’Estonia, nel contesto dell’attuale crisi ucraina, ha via via assunto il ruolo di severo e intransigente interlocutore nei confronti di Mosca, ponendosi in una sorta di discontinuità rispetto alla politica di relativo buon vicinato (al netto di scorie storiche maturate nei quarant’anni vissuti da satellite sovietico) che ne aveva definito l’agenda a partire proprio dai giorni del 1990-91, cioè della ritrovata indipendenza fattuale e formale da Mosca.

Ancora oggi l’Estonia ricorda con gratitudine come l’allora presidente russo Boris Elstin permise una transizione di potere pacifica, evitando una prova di forza con tutte le drammatiche conseguenze del caso.

Targa dedicata a Eltsin nella capitale Tallin – © Federica Miglio

 

Andiamo con ordine. Innanzitutto un quinto della popolazione estone, che conta nel complesso un milione e trecentomila abitanti, è russa: di etnia e di passaporto. La cifra ammontava però a un terzo (475 mila persone) solo trent’anni fa, al momento della separazione dall’Unione Sovietica. Altre 80 mila unità sono apolidi, cioè individui giunti in Estonia in epoca sovietica e, a tutt’oggi, sprovvisti sia di passaporto estone, sia di passaporto russo. I frontalieri nella regione orientale di Narva infine costituivano prima del conflitto ucraino un rilevante settore di scambio tra i due paesi. Ora è noto che la minoranza russa in Estonia, a differenza del Donbass, non hai mai subito persecuzioni, né si è vista proibire l’uso della propria lingua madre. I governi estoni cercano sì di promuovere la diffusione dell’estone a lingua ufficiale della burocrazia e dell’istruzione, ma non per questo vietano l’uso quotidiano del russo.

 

Leggi anche: Un voto all’ONU che certifica il fallimento russo

 

Nella recente storia nazionale c’è tuttavia un significativo precedente (nel 2007) che dalle cronache è balzato ai libri di storia come i “disordini della Bronze Night”, molto utile a lumeggiare alcune dinamiche odierne del dibattito politico interno.

I disordini luttuosi durarono tre giorni. Li innescarono la reazione della fazione russa, a Tallinn, che si opponeva allo spostamento della tipica statua del fante sovietico, l’eroe della vittoriosa campagna dell’Armata Rossa contro le truppe naziste, dalla sua sede originale. Avanzando da Stalingrado a Berlino, in altre parole, dal punto di vista dell’internazionale comunista anche l’Estonia fu liberata dal giogo del Reich; benché in realtà il Paese si ritrovasse libero anche grazie alla ritirata dei nazisti su posizioni più arretrate nel fronte orientale, per essere immediatamente dopo occupato dall’Armata Rossa. Il tutto in un contesto, per così dire en abyme per gli estoni, cioè all’oscuro del patto nazi-sovietico di spartizione del loro territorio.

Nei successivi quarant’anni di signoraggio russo, per alcuni estoni, la statua cambiò significato: da simbolo di liberazione a vessillo di nuova occupazione. Tuttavia, quando alla luce degli scontri del 2007 i media locali condussero un sondaggio tra l’opinione pubblica, emerse come per la maggioranza degli estoni la statua poteva tranquillamente restare al suo posto. Insomma, la leadership politica aveva imposto una fuga in avanti rispetto al più conciliante sentire della popolazione.

Forse, non diversamente da allora, in tema di concessione di visti Schengen ai cittadini russi il governo dell’Estonia ha deciso oggi di occupare una posizione di avanguardia intransigente. Tallinn si è posta alla guida dei baltici, distinguendosi così dall’alveo europeo molto più prudente se non refrattario (si veda la posizione tedesca) nel colpire Mosca in tema di circolazione alle frontiere.

Ne è scaturito, al momento, un compromesso europeo al ribasso; la misura è stata messa in agenda ma in forma depotenziata e nel frattempo Mosca ha minacciato – da prassi – contromisure di pari portata. S’innesca così nuovamente il pernicioso computo se producano più effetti le sanzioni o danni le contro sanzioni, quando invece sarebbe più utile sottolineare come l’attuale ministro degli esteri estone, Urmas Reinsalu, appaia una figura politicamente molto connotata.

Reinsalu – esponente del partito Isamaa (Patria) – è stato nel 2012 al centro di polemiche perché tra i promotori di una legge basata su un sibillino enunciato giuridico e nota come Valentine’s Day Law. Il dispositivo equiparava, di fatto, i combattenti estoni inquadrati nelle Waffen-SS allo status di freedom fighters. E ancora, l’elogio in occasione dei funerali Harald Nugiseks nel 2014, un veterano estone delle SS decorato con la Ritterkreuz, la più alta onorificenza militare della Germania nazista, diede ulteriore impulso alle polemiche. Anche perché se è vero che non ci fu presenza ufficiale del governo alle esequie del veterano, Reinsalu era all’epoca dei fatti il Ministro della Difesa in carica.

Certamente l’Estonia democratica non è rimasta a guardare inerte la recrudescenza delle forze di destra nel Paese, e le autorità hanno sistematicamente distrutto – coi bulldozer – vessilli che glorificavano la brutale amicizia tra la Germania nazista e i nazionalisti locali. Non è d’altronde semplice, dal punto di vista estone, giudicare una storia patria che ha visto il piccolo Paese inevitabilmente preso nella morsa d’acciaio dei totalitarismi (si veda il Patto Molotov-Ribbentrop del 1939 e il protocollo segreto che destinava l’Estonia alla sfera d’influenza sovietica), concordi entrambi nel concedere a Tallinn una neutralità di facciata, ma in realtà determinati a occuparne militarmente il territorio alla prima occasione utile.

Occorre ora vedere come la leadership estone – che certamente si basa su criteri d’eccellenza in termini di reclutamento e cooptazione della classe dirigente – gestirà in futuro la propria posizione di avamposto della Nato e di membro convinto e orgoglioso della UE. Il vicinato con la Russia è geograficamente sancito, e sembra poco lungimirante (ma rassegniamoci, siamo in piena guerra di propaganda) immaginare una contrapposizione basata sui simboli ideologici del Novecento.

 

Leggi anche: La fine di Memorial e l’uso politico della storia

 

Una cosa è allestire uno o più musei sui misfatti di nazismo e comunismo – equiparando le due ideologie come la storiografia anglosassone suggerisce da decenni – ma un’altra è gestire la complessità del presente e del futuro. I leader estoni, tranne alcune eccezioni, sembrano avere nelle proprie corde visione e pragmatismo. Il Paese è all’avanguardia mondiale nell’economia informatica e tecnologica e per numero di start-up pro capite, ma è membro di un club europeo che sul dossier Ucraina parla a più voci e non sempre fa quello che promette (e spesso promette quello che non può fare).

La credibilità dell’Europa, insomma, passa anche dalla sua periferia baltica. Una periferia che diventa epicentro, rispetto alla faglia orientale, ed emette segnali sempre molto rivelatori rispetto alla strategica, e obiettivamente indispensabile, buffer zone tra est e ovest.