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Cosa non è la geopolitica

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La geopolitica non dovrebbe avere lo scopo primario di interpretare in modo del tutto libero. L’interpretazione, insomma, dovrebbe essere al servizio dei fatti oggettivi, invece di sfruttare i medesimi come un pretesto per interpretazioni e teoremi. Se scarseggiano fatti certi e acclarati (come accade spesso in un teatro di guerra) anche la geopolitica scarseggia o, meglio, procede cauta (o meglio, dovrebbe farlo). Alla Wittgenstein, per intenderci: su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

“Il mondo secondo Ronald Reagan” (1983) – una classica satira su una visione geopolitica parziale.

 

Ci riferiamo qui all’accezione del termine che si è affermata negli ultimi anni, superando gli studi propriamente ‘geopolitici’ della prima metà del XX secolo per insistere, in senso più ampio, sul legame tra il realismo politico e le analisi che fanno largo uso di rappresentazioni cartografiche.

Sui fatti a disposizione, è invece sacrosanto esprimersi e rendere la geopolitica uno strumento teorico, tra altri teorici e pratici, come contributo per la soluzione di problemi complessi.

 

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Tuttavia, quando la geopolitica – come la virologia, come lo sport professionistico, come la culinaria – lambisce il giornalismo e la cronaca, è proprio la geopolitica a risultarne contaminata, a scendere a patti con la “narrazione”, insomma a snaturarsi.

Queste premesse di metodo appaiono in tutta la loro necessità nel contesto attuale. Uno scenario dove il dato morale del conflitto finisce per avere il primato su quello oggettivo: ossia la constatazione che c’è un conflitto. Le differenze di logos emergono lampanti: è l’unico conflitto al mondo? No. E’ l’unico conflitto al mondo a coinvolgere super-potenze e scenari globali e non solo regionali, vedi Siria? Sì, anche per l’ampiezza dello sforzo bellico russo e della riposta diplomatica e sanzionatoria occidentale. E’ dunque logico che la guerra in Ucraina monopolizzi il dibattito. E’ invece assai meno logico e scontato il “come” lo monopolizza.

In altre parole: quando il vocabolario della politica e dei media perde il controllo, si smarrisce l’aderenza con la realtà. Un esempio: almeno da metà marzo due enunciati si contrappongono spudoratamente nelle parole di alcuni analisti e, per osmosi, nei titoli di tutti i quotidiani mainstream. L’enunciato: “La Russia ha dieci giorni per risolvere il conflitto altrimenti finirà le risorse” è fronteggiato da “La Russia non intende fermarsi e in conflitto durerà a lungo”. Ora, senza scomodare la scuola logica di Cambridge, è chiaro che gli enunciati non possono essere veri entrambi. Ma possono essere falsi entrambi.

Possono inoltre svolgere una funzione psicologica, cioè quella di calmierare, consolare, dare speranza a chi legge che le sorti del conflitto vadano nella direzione auspicata. Chi desidera la rovinosa ritirata della Russia farà suo il primo titolo.

Chi stima invece che il conflitto porterà a un nuovo equilibrio (certo forgiato sul sangue e sui rapporti di forza sul campo, ma questa non è una novità, in termini analitici: cioè geopolitici) accoglie senza turbamenti eccessivi, o forse con mesta rassegnazione, la seconda.

 

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Come non procede per emozioni (o non dovrebbe farlo), la geopolitica non procede per paragoni o similitudini. La crisi missilistica a Cuba del 1962 è attualmente la più quotata per spiegare la tensione ai confini orientali della Nato. Ma le due crisi in comune hanno solo un principio teorico, che non sempre regge alla prova dei fatti. Ciò che la narrazione in voga applica ai Caraibi lo dimentica ad esempio sull’Himalaya.

Il principio non scritto dovrebbe essere quello scaturito dal secondo conflitto mondiale e cioè: mai frizioni di confine tra due potenze atomiche vicine. Si direbbe: per ovvi motivi. Ma in realtà non così ovvi come dimostra la ben poco mediatica crisi bellica tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir, in piena escalation militare, e che vede appunto convolti due membri del club atomico. Tre con la Cina, che nel dossier himalayano ha significativa voce in capitolo.

La geopolitica ci appare allora come un faro (è la similitudine creata da Virginia Woolf per descrivere le caratteristiche del genio), cioè come uno strumento che alterna a un singolo fascio di luce vaste zone d’ombra. E’ nella sua natura specifica. Occorre farsene una ragione e attendere che il fascio di luce compia il suo cammino.