Come l’Ucraina arriva alla guerra
73%: è la percentuale di voti con cui, nel 2019, Volodymyr Zelensky si aggiudicava le elezioni presidenziali ucraine. Un successo enorme, costruito in pochi mesi attraverso una campagna elettorale fondata su un concetto netto: Zelensky si presentava come alternativa totale rispetto alla politica oligarchica, un uomo diverso in tutto dai suoi predecessori e pronto a trasformare l’Ucraina in una vera democrazia diretta, espressione plastica del volere dei suoi cittadini. Il plebiscito ricevuto dava al partito politico di Zelensky, Servitori del Popolo, una maggioranza parlamentare senza precedenti, tecnicamente in grado di lavorare a fondo sui punti considerati cruciali dall’opinione pubblica interna: la risoluzione della guerra nel Donbass; la lotta alla corruzione nelle istituzioni e per l’indipendenza del sistema giudiziario e la correlata de-oligarchizzazione dell’Ucraina. Dopo un inizio promettente, soprattutto sul fronte economico, le riforme strategiche progettate da Zelensky si sono però arenate, anche a causa dell’inasprirsi della battaglia di posizione con la Russia.
Da una parte, sotto la presidenza Zelensky, l’Ucraina ha approvato una serie di riforme che hanno provato a bilanciare il mercato per la prima volta dall’indipendenza del 1991. La misura più importante, in questo senso, è stata l’eliminazione della moratoria, di epoca sovietica, sulla vendita di terreni coltivabili, grazie a cui si è dato un impulso enorme agli investimenti nel settore fondiario. Inoltre, il governo ucraino è riuscito negli ultimi due anni a tagliare notevolmente il debito pubblico, portandolo sotto al 50% del prodotto interno lordo, e ha capitalizzato l’aumento dei prezzi in due settori trainanti della sua economia, agricoltura e materie prime. L’Ucraina oggi è il quarto paese esportatore di prodotti agricoli verso l’Unione Europea, cui fornisce l’88% dell’olio di semi, il 41% di colza e il 26% di miele rispetto a tutto il fabbisogno dei paesi UE. Nonostante questi numeri incoraggianti, l’Ucraina resta però fortemente indebitata verso l’estero, nella misura di 8.5 miliardi di dollari secondo le stime – una cifra che sarebbe fondamentale per coprire il deficit di bilancio. Il pil continua a crescere in maniera costante, ma il suo ammontare non ha ancora raggiunto il livello del 2013, prima che scoppiasse la crisi con la Russia che portò all’annessione della Crimea e alla guerra separatista nel Donbass.
Naturalmente, i venti di guerra che soffiano da Mosca creano panico sui mercati. Da metà gennaio 2022 ad oggi, gli interessi sugli Eurobond governativi ucraini sono saliti di oltre il 10%, una corsa che non accenna a fermarsi e che taglia fuori Kiev dall’accesso ai mercati finanziari internazionali. Gli investimenti stranieri, così come quelli interni, già ben lontani dal boom del periodo pre-Euromaidan del 2013, si sono completamente bloccati, mentre la grivnia, la valuta ucraina, è scesa fino a quota 0.034 al cambio con il dollaro, il valore più basso dal 2014 ad oggi. Turismo e viaggi commerciali sono ovviamente del tutto azzerati, mentre salgono i costi assicurativi.
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Già solo le minacce di invasione sono costate all’Ucraina, nelle ultime settimane, svariati miliardi di dollari. Senza contare la diversione di fondi cui la minaccia russa ha obbligato il governo ucraino. Dagli 1.6 miliardi di dollari destinati da Kiev alle spese militari nel 2013 (1,6% del PIL), prima della rivoluzione di piazza di Euromaidan, si è passati ai 4.3 miliardi del 2020 (il 4% del PIL). Le spese militari hanno sostituito altri investimenti fondamentali per lo sviluppo economico del paese.
I dati economici appena menzionati, ma non soltanto, hanno trascinato verso il basso la popolarità di Volodymyr Zelensky. Solo il 30% degli ucraini, secondo un recente sondaggio dell’Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev, pensano che dovrebbe ricandidarsi alle elezioni del 2024, e di questi appena il 23% lo voterebbe. Il suo rivale del 2019 ed ex presidente, Petro Poroshenko, appena tornato in Ucraina, dov’è accusato di “alto tradimento”, è in risalita, al 16%. In un’altra rilevazione, realizzata in ottobre dal Razumkov Center, ben il 73% della popolazione dichiara che l’esecutivo presieduto da Zelensky non è significativamente differente dal precedente, con il 36% che lo considera addirittura peggiore.
Il clima politico interno non è sereno anche a causa delle mancate riforme giudiziarie, cruciali per implementare i meccanismi di controllo anti-corruzione e lavorare in maniera organica alla de-oligarchizzazione del paese. Il programma di riforma ha subito un’importante battuta d’arresto lo scorso 21 dicembre, dopo che il comitato designato per l’elezione del procuratore capo dell’Ufficio speciale anticorruzione (SAPO) si è rifiutato di convalidare la nomina proposta da Zelensky, accusato di voler indicare un candidato politicamente vicino al suo partito. L’Ufficio speciale anticorruzione (SAPO), l’Ufficio nazionale anticorruzione e l’Alta Corte anticorruzione costituiscono i pilastri centrali dell’infrastruttura anticorruzione ucraina, un sistema politicamente indipendente fondato nel 2014. Il SAPO, che ha il compito di condurre le indagini e di agire come pubblico ministero in tribunale, ha un ruolo centrale, ma è ormai in attesa di un nuovo procuratore capo dall’agosto 2020, dopo le dimissioni di Nazar Kholodnytsky. Attualmente è così sotto il controllo della procuratrice generale Iryna Venediktova, già consulente di Zelensky e del suo partito e per questo considerata politicamente non imparziale.
Le difficoltà incontrate da Zelensky nell’elezione del procuratore capo dell’ufficio speciale anticorruzione sono in qualche modo legate a un approccio che ha visto il presidente ucraino passare da una modalità di gestione “aperta”, molto comunicativa con la sua base elettorale, a un modello di costruzione verticale del potere, in qualche misura simile, seppure con connotazioni politiche molto differenti, a quello dei suoi predecessori.
Zelensky, rispetto a Poroshenko, non è un oligarca, non ha una famiglia politica stabile e dunque, inevitabilmente, non è esposto ai meccanismi corruttivi tradizionali del sistema di potere ucraino. Ciononostante, dopo i primi due anni di relativa calma, si è costruito una squadra di ministri a lui fedeli, con un rimpasto pressoché totale di tutti i dicasteri rispetto alle nomine del 2019, e in alcuni casi con più di due cambi dall’insediamento a oggi: nel corso della sua presidenza Zelensky ha nominato sette ministri dell’Energia e cinque ministri dell’Economia.
Questo sistema di costruzione verticale del potere si è reso necessario per permettere a Zelensky di combattere la sua battaglia interna più difficile, quella contro la Corte Costituzionale, considerata il motore della corruzione del sistema giudiziario. Proprio all’interno di questo meccanismo Zelensky ha portato avanti i più importanti atti contro la corruzione emanati dal suo governo, aggirando il potere giudiziario attraverso provvedimenti diretti del Consiglio di Difesa e di Sicurezza, che presiede direttamente in quanto presidente ucraino: la battaglia contro l’oligarca e leader di uno dei maggiori partiti di opposizione Viktor Medvedchuk, ad esempio, considerato tramite le sue televisioni la voce in Ucraina di Vladimir Putin, è stata sinora giocata solo attraverso le misure promulgate dal Consiglio. Medvedchuk, oggi ai domiciliari, è stato accusato di alto tradimento e le sue emittenti sono state chiuse.
Di nuovo, i critici di Zelensky fanno però notare come, nonostante siano stati fatti degli importanti passi avanti, l’architrave delle istituzioni ucraine non abbia registrato particolari progressi e sia ancora molto influenzata dalla corruzione degli oligarchi. Nello specifico manca ancora, nel paese, un approccio realmente indipendente e organico nella lotta alla corruzione, e così misure come quella contro Medvedchuck, così come le accuse di terrorismo e alto tradimento a Petro Poroshenko, anche se giustificate, vengono però lette come azioni di forza che hanno come primo scopo quello di portare un vantaggio diretto a Zelensky. Non aiuta, peraltro, la vicinanza del presidente ucraino (il cui nome è anche venuto fuori nei Pandora Papers, che hanno dimostrato il collegamento di Zelensky con numerose società offshore) con Ihor Kolomoysky, sotto accusa da parte dell’FBI per riciclaggio, ma nei confronti del quale non vi è alcuna indagine in corso in Ucraina.
Quello che si trova ad affrontare una possibile invasione su larga scala dell’esercito russo è insomma un paese ancora solcato da profonde divisioni sociali, con un sistema di potere dominato dalla corruzione, che l’elezione a sorpresa di Zelensky del 2019, nonostante alcuni tentativi importanti, non è ancora riuscita a riequilibrare e che continua a subire, specialmente sul fronte economico, le destabilizzazioni geopolitiche della Russia.
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I partner occidentali dell’Ucraina, in questo senso, sono corsi in aiuto di Kiev, con il Fondo Monetario Internazionale disposto a concedere un nuovo prestito da 5 miliardi di dollari, da erogare entro il prossimo aprile. L’Unione Europea ha offerto 1,2 miliardi di euro di assistenza finanziaria per il quadro macroeconomico. Washington ha proposto 1 miliardo di dollari in garanzie sui prestiti, il Canada 0,5 miliardi di dollari e la Francia un credito da mezzo miliardo di euro per l’acquisto di locomotive elettriche Alstom, fondamentali per il trasporto ucraino. Insieme al sostegno in arrivo da Banca Mondiale e Banca Centrale Europea (complessivamente 2 miliardi di dollari) il sostegno finanziario totale per l’Ucraina in arrivo da paesi e istituzioni estere si aggirerà intorno ai 10 miliardi di dollari, una cifra importante, che dovrebbe permettere di garantire stabilità interna, almeno sul fronte economico, anche in caso di un attacco russo su vasta scala.
In questo senso il governo ucraino ha dimostrato di sapersi muovere con confidenza sullo scenario internazionale, un passaggio non scontato considerata la scarsa esperienza politica di Zelensky. L’Ucraina sta gestendo la crisi ricompattandosi fra le difficoltà. L’esercito può contare su circa 200.000 effettivi, mentre tutti gli uomini e le donne sotto i 60 anni sono soggetti a eventuale mobilitazione, in caso di necessità, per il servizio militare. Un sondaggio dell’Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev mostra che il 43% degli ucraini è pronto alla resistenza armata in caso di invasione, mentre il 21% dichiara di essere disponibile per atti di resistenza e collaborazione non violenta con l’esercito. Sono numeri importanti, fondamentali in un momento nel quale si insiste sul concetto di “difesa dell’identità ucraina”.
Per un paese che nel solo 2021 ha visto emigrare all’estero 600.000 persone (circa l’1,5% della popolazione, fanno quasi 2 milioni dal 2014 ad oggi) quella contro una possibile invasione russa viene vista come una vera e propria battaglia per la sopravvivenza.