L’intervento militare francese in Mali (operazione Serval) si svolge con il consenso di tutti paesi dell’Unione Europea. I membri dell’UE sanno bene che la stabilità del Mali, e di tutti gli stati dell’area, è un fattore chiave per la sicurezza dell’intero continente europeo, data anche la loro vicinanza al Mediterraneo: sia dal punto di vista del controllo dei gruppi terroristici, sia da quello dei floridi traffici illeciti diretti verso nord.
In effetti, già da più di un anno l’Unione Europea si apprestava a inviare una missione militare di controllo nel Sahel. Le attività di gruppi jihadisti in quella parte dell’Africa andavano intensificandosi – soprattutto da parte del gruppo multinazionale di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) – e si legavano finanziariamente alle reti criminali operanti nella zona. Inoltre, la fine del regime di Gheddafi, unito allo sbandamento delle sue milizie e dei mercenari, molti dei quali originari del Mali e del Niger, mettevano “su piazza” un gran numero di armi e di persone capaci di usarle – spesso appartenenti alle minoranze politiche degli stati del Sahel, come i tuareg.
L’obiettivo della missione europea sarebbe stato quello di aiutare dal punto di vista logistico e finanziario i deboli eserciti locali. Il Niger, che all’inizio degli anni Novanta era stato già teatro di una lunga ribellione della minoranza tuareg, sostenuta in vari modi da Tripoli, e che con la Libia e l’Algeria ha in comune una frontiera di centinaia di chilometri (non è altro che una linea nel bel mezzo del deserto del Sahara, ma il terreno che attraversa è ricchissima di uranio), era il paese prescelto per l’invio di qualche centinaio di “formatori” europei.
Lo scoppio della rivolta nel nord del Mali (marzo 2012), partita proprio dalla minoranza tuareg in alleanza con i gruppi jihadisti, ha però cambiato i piani di Bruxelles. Un piccolo contingente militare è comunque stato spedito in Niger, con l’obiettivo di proteggere i civili di questo paese dalla guerra, dal terrorismo e dalle attività illecite fiorenti nella zona, ma in realtà soprattutto col compito di rafforzare la sorveglianza dell’esercito ufficiale sui confini e di controllare eventuali infiltrazioni dei rivoltosi. Il centro operativo di AQMI in Mali si trova infatti non lontano dalle frontiere del Niger, e inoltre la composizione etnica e sociale di questi due paesi è molto simile: il rischio di un contagio diretto della guerra è davvero concreto.
A partire dalla seconda parte del 2012, la diplomazia europea ha preparato il terreno per una missione più consistente che sostenesse, sempre dal punto di vista logistico e della formazione, l’esercito ufficiale del Mali, da affidare al comando del generale francese François Lecointre. La regia dell’operazione è infatti sempre restata sulle rive della Senna, sebbene Parigi abbia preferito un ruolo dietro le quinte, perché la sua politica non apparisse “neocoloniale”. La Francia è profondamente legata ai paesi del Sahel: questi, appartenenti ai domini coloniali francesi per un periodo di anni più lungo rispetto a quello della loro indipendenza, fanno ormai parte del mondo culturale francofono e hanno spesso nella Francia uno dei principali partner commerciali e politici.
La risoluzione ONU sul Mali (n. 2085 del dicembre 2012) prevedeva perciò, accanto all’invio di un contingente militare di 3.300 soldati proveniente dai paesi dell’Africa Occidentale, l’attivazione dell’EUTM (European Union Training Mission). Già venti giorni dopo però è arrivato il successo dei ribelli capaci di aprirsi contro ogni previsione la strada verso la capitale Bamako – mentre c’era invece chi credeva che gli insorti si sarebbero accontentati di controllare il nord secessionista. La nuova situazione convinceva il presidente francese François Hollande all’intervento militare diretto e unilaterale.
Parigi ha potuto registrare un consenso praticamente unanime alla sua azione (avvenuta “forzando” la risoluzione ONU), il che ha fatto parlare più di un analista di “miracolo europeo”: non si vedeva da tempo un allineamento tanto stabile di tutti i membri UE su un intervento militare. Naturalmente, non tutte le capitali hanno reagito allo stesso modo: all’entusiasmo inglese – seguito qualche settimana dopo da quello americano – ha fatto da contraltare la tiepidezza tedesca; Londra ha mobilitato immediatamente le sue forze per un aiuto logistico all’esercito francese, mentre l’atteggiamento di Berlino è restato ambiguo e di fatto poco convinto della reale utilità di Serval (se non sarà seguita da un lungo e profondo lavoro di consolidamento politico). La Germania si è decisa solo dopo più di un mese a concedere un sostegno di mezzi più che altro simbolico; sarà però suo il contributo più grande alla missione europea.
L’invio dell’EUTM, infatti, è stato confermato ed è già parzialmente in corso; ma si aspetta una pacificazione più certa del territorio per completarlo: a regime, dovrebbe contare su quasi 3.000 militari. Il loro impegno non sarà solo nei confronti dell’esercito del Mali, ma anche dei circa 8.000 soldati inviati dai paesi vicini che faranno parte dell’AFISMA (African-led International Support Mission to Mali). In realtà, non si può certo parlare di una guida africana: l’obiettivo centrale della missione europea è appunto quello di attrezzare meglio gli eserciti locali (a cominciare da quello di Bamako, privo anche delle divise e della benzina). Soprattutto, l’EUTM dovrà impedire che i militari del posto si abbandonino, come stanno già facendo, a vendette, regolamenti di conti o abusi di ogni tipo nelle zone riconquistate del nord. Dovrà poi controllare che i soldati dell’AFISMA non intreccino rapporti con organizzazioni criminali che agiscono nel deserto del Sahel (i gradi più alti della missione africana sono già sospettati di corruzione). Due condizioni indispensabili alla ricostruzione di uno stato in Mali.
La dinamica dell’intervento francese evidenzia comunque l’inadeguatezza militare europea. Senza l’aiuto anglo-americano, soprattutto in termini di rifornimento in volo degli aerei, le forze francesi non avrebbero avuto i mezzi per bombardare le postazioni dei ribelli e costringerli a ripiegare in breve tempo: avrebbero dovuto impegnarsi molto più massicciamente in combattimenti di terra dall’esito imprevedibile. Anche l’opzione del mantenimento delle truppe in Mali è impraticabile da Parigi: Hollande vuole procedere al ritiro, anche se non completo, il prima possibile. Non è detto che il consenso dell’opinione pubblica su questa guerra duri ancora a lungo; inoltre, le casse dello stato non possono permettersi altre spese (è già arrivato un prestito ad hoc da Washington). Dunque, l’operazione Serval dovrebbe ridimensionarsi, per essere sostituita dall’impiego delle forze africane sotto la tutela dell’EUTM e soprattutto da una missione ONU.
L’esistenza di una forza consolidata di intervento europea potrebbe forse compensare o perfino superare le deficienze dei singoli eserciti nazionali. Oggi si è comunque molto lontani da un obiettivo del genere: non solo gli stati tendono a tagliare le spese militari, ma soprattutto i paesi dell’UE appaiono molto poco disposti a costruire un dispositivo difensivo complementare al comodo ombrello della NATO.
Le varie spedizioni in corso non interromperanno il lento declino dell’influenza diretta europea sull’Africa Occidentale, una volta considerata una sorta di cortile di casa di Parigi; non sono certo sufficienti a stabilire un ordine di lungo periodo. Tra le opzioni praticabili dalla diplomazia di Bruxelles, rimangono quelle di una revisione della politica di vicinato nei confronti del Maghreb – finora davvero poco efficace, data la freddezza se non contrarietà dell’Algeria all’intervento francese – e di un migliore uso dei fondi di cooperazione internazionale, a cominciare dai duecento milioni di euro stanziati poco prima dello scoppio della rivolta.