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Il Mali e le sue ramificazioni, dopo il primo intervento francese

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A oltre un mese dall’inizio dell’operazione Serval in Mali, è possibile tracciare una prima sintesi su questa vicenda bellica: vicenda che, come spesso accade, ha vissuto un primo momento di sovraesposizione mediatica, mentre ora è soggetta a una quasi totale marginalità nei palinsesti.

È un silenzio che non tocca solo i media occidentali, lontani dal cuore del conflitto fatta eccezione per una manciata di inviati embedded, ma le stesse emittenti presenti sul campo: Radio France, per fare solo un esempio, relega l’argomento a notizia secondaria, e così vale per le principali testate transalpine o britanniche.

Le ragioni di questo mutato flusso informativo sono duplici: da un lato vi è l’oggettiva complessità della situazione sul piano logistico; dall’altro vi è l’esigenza strategica di Francia e Gran Bretagna di mantenere un basso profilo sul piano della comunicazione per operare con elasticità e pragmatismo – un’esigenza che spesso l’opinione pubblica europea è poco propensa a tollerare.

Occorre essere molto chiari su un punto: il presidente Hollande e la Francia sono percepiti dai maliani come liberatori; le immagini del presidente francese sono diffusissime a Bamako mentre il tricolore sventola per le strade principali del paese. Questa euforia non deve tuttavia far passare in secondo piano un dato cruciale: le truppe francesi, contrariamente ai primi annunci, sono rimaste nel teatro di guerra e non hanno in progetto, a parte dichiarazioni d’intenti valide sul piano diplomatico ma molto meno su quello militare operativo, un ritiro a breve termine.

Nonostante la situazione finanziaria della Francia sia fonte di preoccupazione a Bruxelles, il conflitto in Mali, costato circa 70 milioni di euro nella prima settimana, non è una voce troppo onerosa, e anche in condizioni di  crisi economica la Francia può sopportarne il peso. Ma qui iniziano le criticità: anzitutto, Hollande ha lanciato Serval (costretto certo dall’offensiva jihadista verso sud del gennaio scorso) quando l’addestramento delle truppe panafricane non era ancora completo.

Questo spiega due aspetti cruciali della situazione odierna: il primo è che le uniche truppe davvero efficaci nel contrasto ai fondamentalisti costretti in fuga verso il Nord del Mali sono quelle del Ciad, abituate a combattere in zone desertiche; il secondo attiene al ruolo della Gran Bretagna, che ha appena annunciato l’invio di addestratori destinati a fermarsi nella regione ben 15 mesi. Quest’ultimo è un dato temporale che rivela come l’impegno militare delle forze occidentali non possa essere di breve termine e come – per evitare un dibattito a livello di opinione pubblica che evochi scenari magari poco attinenti ma comunque scomodi (il celebre pantano afghano o lo stallo iracheno) – si cerchi di dar poco risalto mediatico alla missione.

Lo sforzo è, come si dice in questi casi, davvero a 360 gradi. Si muove la macchina militare ma anche la diplomazia: lo testimonia l’azione di Romano Prodi nella veste di inviato speciale di Ban Ki-moon per il Sahel, che ha di recente presieduto un’importante riunione in Mauritania. Intanto sono state annunciate le date delle prossime consultazioni: il voto presidenziale è fissato per il 7 luglio, quello legislativo per il 21 dello stesso mese. Ma certo sino all’estate molta strada resta da fare.

I nodi nel nord del paese riguardano soprattutto Gao e Kidal. Nella prima una settimana fa si sono verificati i primi attentati suicidi nella storia del Mali. Si è trattato, sia detto senza cinismo, di prove tecniche conclusesi con la morte dei soli due attentatori; ma il segnale, corroborato dal rinvenimento di 600 kg di esplosivo in una casa privata, è inequivocabile.

A Kidal invece sta andando in scena la principale spaccatura politica a livello etnico: ovvero nella zona controllata dal MNLA (Mouvement National pour la Libération de l’Azawad) – che al principio del conflitto, nell’aprile 2012, aveva proclamato unilateralmente l’indipendenza delle regioni col nome di Azawad – i nazionalisti tuareg hanno negato l’ingresso alle truppe dell’esercito regolare del Mali. Territorio off-limits per i militari di Bamako, e non per francesi e truppe del Ciad dunque, in una frattura etnico-politica che getta una luce d’incertezza sullo svolgimento delle prossime elezioni in questa provincia.

L’MNLA è d’altronde un alleato tattico di primaria importanza per dare la caccia alle milizie islamiste che si sono rifugiate verso l’Algeria e soprattutto negli Adrar degli Ifoghas, catena montuosa non così imponente ma fitta di canyon usati come nascondigli quasi inaccessibili, dove una settimana fa è stato ucciso il secondo militare francese dall’inizio delle operazioni.

Un altro fronte preoccupa Parigi: la questione degli ostaggi francesi, sia quelli in mano alle sigle islamiste prima dell’inizio del conflitto, sia quelli rapiti pochi giorni fa in Camerun. Ecco perché Parigi ha chiesto ai propri connazionali di lasciare il nord del Camerun e ha, per ora, dissuaso fortemente viaggi o permanenze in Nigeria. È proprio in Nigeria, infatti, che un nuovo gruppo denominato ANSARU (Vanguard for the Protection of Muslims in Black Africa), costola dei sempre più forti Boko Haram, ha lanciato un’offensiva specializzata in sequestri che rischia di mettere Hollande, ma anche Cameron, in seria difficoltà (i due leader hanno entrambi già perso ostaggi e uomini nell’area, proprio nel tentativo di liberarli dai rapitori).

Il Sahel si conferma quindi un tragico teatro di sintesi nella storia trentennale del Jihad: elementi di “somalizzazione” si mescolano ad ascendenze afghane, tattiche di guerriglia a sequestri su larga scala. Il tutto in un concorso di sigle e formazioni che, pur con obiettivi diversi nel lungo termine, nel breve attraversano i confini del continente africano per fare causa comune contro l’Occidente.

Oltre al contributo delle truppe dell’MNLA per la riconquista di Kidal, va ricordato quello della popolazione civile che non ha paura di denunciare quegli islamisti che hanno tentato di mescolarsi nelle città e nei villaggi, nascondendo armi. Anche questo aspetto racconta come la società maliana sia di fatto estranea alle sirene del fondamentalismo islamista, ma altrettanto debole nel potere di contrastarlo con le proprie forze.

Con gli stessi argomenti il presidente dell’Uganda Yoweri Museveni ha lanciato nei giorni scorsi un forte j’accuse a tutto i paesi africani colpevoli di aver dovuto ricorrere al decisivo aiuto francese per scacciare i fondamentalisti. A cosa serve avere eserciti nazionali, è il suo argomento condiviso da gran parte delle élite africane, se poi senza il sostegno occidentale essi sono di fatto inefficaci o, ancor peggio, fattore di destabilizzazione?

Non è infatti un mistero per nessuno che a Bamako l’uomo forte rimanga il capitano golpista Amadou Sanogo. Quest’ufficiale dell’esercito ha dovuto a sua volta cedere il potere formale sotto pressione dell’ECOWAS all’attuale presidente a interim Dioncounda Traore, ma rimane il cardine attorno al quale ruota il potere in Mali, a partire appunto dal ruolo cruciale delle forze armate. E Sanogo, che piaccia o meno, rimane attualmente l’interlocutore principe per Parigi e Londra.

All’Occidente non basta insomma che Timbuctù, la città simbolo, abbia visto tornare gli uomini dell’UNESCO per dare il via alla ricostruzione dei mausolei brutalizzati dal fanatismo islamista. Occorre il pieno controllo del Nord, specie della regione di Kidal; e questa a sua volta è una condizione che non può prescindere da un accordo (attraverso concessioni politiche o addirittura di governance territoriale) con l’MNLA, perché le prossime elezioni di luglio siano prima di tutto confermate in agenda e poi si svolgano in termini credibili per quella parte di Mali che è insofferente verso la capitale.

Ecco, in conclusione, i due poli strategici attorno ai quali ruota il futuro del paese: la gestione di Sanogo a Bamako, e quella dell’MNLA a Kidal. Gli islamisti cercheranno probabilmente di destabilizzare ulteriormente la situazione, adottando le tecniche di  guerriglia, attacchi suicidi e sequestri: se lo faranno con successo, la soluzione del problema si allontanerà ulteriormente, e la stessa permanenza di truppe straniere nell’area cesserà di essere interpretata, sia dall’opinione pubblica occidentale cha da quella dei paesi africani, come fattore ineluttabile di sicurezza.