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Come le monarchie del Golfo aggirano lo Stretto di Hormuz

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Nel corso degli ultimi vent’anni, l’Iran ha più volte minacciato la chiusura dello Stretto di Hormuz come forma di rappresaglia per le crescenti pressioni internazionali legate al suo controverso programma nucleare. Il passaggio di Hormuz è uno snodo geo-strategico di grandissima importanza su scala mondiale, che collega la regione del Golfo con l’Oceano Indiano: da esso transitano, secondo i dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, circa 17 milioni di barili giornalieri, ossia più del 20% del petrolio mondiale. Il timore di un’escalation delle tensioni tra l’Iran e la comunità internazionale ha spinto, dunque, le monarchie del Golfo a studiare delle contromosse per garantirsi un flusso continuo delle esportazioni petrolifere.

Da qualche anno, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Oman, Qatar e Kuwait stanno impiegando ingenti risorse nella costruzione di linee ferroviarie, gasdotti, oleodotti e altre infrastrutture utili a mettere in comunicazione la costa orientale della Penisola Arabica con i mercati europei ed asiatici. Questi sono i principali fruitori del petrolio dell’area, e l’obiettivo è costruire un continuum terrestre che congiungerà i porti omaniti con quelli del Kuwait.

In particolare, Abu Dhabi – che con Teheran ha alcuni contenziosi aperti riguardanti le isole di Abu Mussa e Grande e Piccola Tunb, situate nello Stretto di Hormuz – sta finanziando numerosi progetti infrastrutturali al fine di accrescere la propria rilevanza politica-economica nello scacchiere regionale. Tra i progetti promossi dal governo spicca l’oleodotto on-shore Abu Dhabi Crude Oil Pipeline (ADCOP): i 370 Km di condutture che congiungeranno i porti di Habshan, a Nord-Est di Abu Dhabi, con quello di Fujairah, al confine con l’Oman, saranno in grado di smistare il 70% del petrolio degli EAU. L’ADCOP – come anticipato recentemente dal Ministro dell’Energia Mohammad Ben Dhaen al-Hamili – sarà collaudato nel maggio 2012 e diverrà pienamente operativo in giugno. L’intera infrastruttura è finanziata dal governo emiratino in join venture con il fondo di investimenti nazionale IPIC (International Petroleum Investment Company) e con la compagnia petrolifera cinese CNPC (China National Petroleum Corporation), per un costo complessivo di 3.3 miliardi di dollari.

Secondo alcuni analisti internazionali, come Robin Mills e Dalton H. Garis, il nuovo oleodotto garantirà una riduzione dei costi di spedizione e dei tempi di trasporto del petrolio da Abu Dhabi verso i mercati di riferimento: ciò a sua volta potrà assicurare forniture continue di greggio nonostante le possibili azioni di disturbo iraniane nel corridoio di Hormuz.

Ma i progetti degli EAU non sono un caso unico nella regione: tutte le petrol-monarchie – Qatar, Arabia Saudita, Oman e Bahrain – ne hanno di analoghi. Ad esempio, Doha sta realizzando Dolphin, un gasdotto transfrontaliero offshore che collegherà Qatar, EAU ed Oman, disponendo di una capacità di trasporto di 33 miliardi di metri cubi di GNL (gas naturale liquido). Altrettanto ambiziosi sono i progetti dell’East-West Pipeline (EWP), un oleodotto che – pienamente operativo dal 2015 – trasporterà 5 milioni di barili di greggio al giorno dal Turkmenistan all’Arabia Saudita. C’è poi TAPLine (Trans Arabian Pipeline), che taglierà l’intera regione mediorientale partendo da Qaisumah, in Arabia Saudita, per giungere fino a Sidone, in Libano, trasportando 1.5 milioni di barili al giorno.

L’importanza di tali investimenti risiede nella duplice scelta delle monarchie del Golfo di far fronte alla crescente richiesta di energia da parte dei mercati europei e afro-asiatici e al contempo di contenere l’influenza iraniana nell’area. La futura rete di oleodotti e gasdotti promette indubbiamente di avere ricadute positive a livello economico, ma è altrettanto chiaro il senso politico delle scelte infrastrutturali: incidere sugli equilibri regionali, lasciando di fatto l’Iran in una posizione di svantaggio strategico rispetto ai suoi concorrenti arabi.