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Brasile, la trappola dei grandi eventi

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Sebastian Coe, stella imperitura dell’atletica mondiale e capo del comitato organizzatore delle Olimpiadi di Londra 2012, ebbe a dire in un’intervista che più importante del come viene organizzata un’Olimpiade, è importante il perché la si organizza. Già, perché le nazioni competono tra di loro per aggiudicarsi l’organizzazione dei mega-eventi sportivi? Grande domanda, insieme sportiva e politica.

Negli ultimi vent’anni, governanti ed organizzatori hanno inseguito la strada della legittimazione economica. Ad ogni Mondiale di calcio e ad ogni Olimpiade un fiorire di studi e report commissionati ad hoc, dai risultati sempre uguali: impatto positivo sui posti di lavoro, sui flussi turistici durante e dopo l’evento, sulle infrastrutture. Oggi però un gruppo molto nutrito di economisti dello sport europei ed americani sta tentando di decostruire questo mito. Secondo tale filone di studio, non ci sarebbero ritorni economici significativi dall’ospitare Mondiali di calcio o Olimpiadi, per una serie di ragioni ben precise. I costi finali per le opere quasi sempre raddoppiano o triplicano rispetto a quelli previsti, e sono tutti a carico dei contribuenti. Il periodo in cui si disputano i grandi eventi attira in effetti meno turisti, perché molti preferiscono evitare la congestione e il caos e visitare la/le città ospitanti in altri periodi dell’anno. Molti soldi spesi in loco per biglietti e attività di ristorazione finiscono altrove, perché FIFA (l’organizzazione mondiale del calcio) e CIO (quella olimpica) non pagano le tasse nei paesi ospitanti, come non le pagano i grandi brand che fanno da partner ufficiali delle manifestazioni. Infine, c’è l’aumento smisurato dei costi per la sicurezza dopo gli attentati dell’11 settembre. Solo per fare un esempio, sono circa 660 i milioni di euro spesi dal governo brasiliano per garantire la sicurezza dei Mondiali 2014, un grande costo per un periodo temporale molto piccolo. Quanto ai posti di lavoro creati, non è un falso mito, ma andrebbero confrontati con altri tipi di investimenti pubblici che potrebbero risultare più produttivi.

Tuttavia non è la strada dell’economia quella da seguire per capire le motivazioni reali della scelta di ospitare un grande evento. Va precisato che parliamo di costi sì rilevanti, ma molto piccoli se rapportati al PIL delle nazioni ospitanti, e spalmati su più anni. La risposta al quesito di fondo è in effetti bifronte: cambia cioè se la guardiamo dall’alto o dal basso, dalla prospettiva delle classi dirigenti o della cittadinanza – due prospettive diverse anche se complementari.

Dall’alto, la vera leva è il poter disporre di una delle principali occasioni di visibilità globale oggi esistenti. La finale dei mondiali sudafricani del 2010 è stata vista da un’audience totale di poco superiore al miliardo di persone. Il potere di catturare l’attenzione umana su vasta scala non si concentra solo sulle poche settimane degli eventi, ma anche negli anni precedenti. In alcuni casi (pensiamo alle recenti assegnazioni di Mondiali e Olimpiadi), come certamente nel caso del Brasile, servono anche per legittimare una posizione di potenza raggiunta, certificare uno status. Infine, c’è l’obiettivo – come direbbe il maggiore teorico della public choice in economia politica, James Buchanan – di massimizzare gli interessi privatistici di alcuni gruppi, da cui nasce anche il “potere di corruzione” che è spesso causa degli aumenti nei costi organizzativi.

Dal basso, agisce soprattutto il feel good factor vissuto dai cittadini delle nazioni ospitanti, oggetto anche di numerosi studi accademici. Le emozioni indelebili regalate dai grandi campioni, le notti magiche, il senso di comunità, il patriottismo, la felicità condivisa, le città trasformate, la possibilità di aver memoria di quei momenti irripetibili per molti decenni a venire, la nuova impiantistica sportiva che può generare un vantaggio competitivo duraturo ai propri movimenti sportivi nazionali. C’è anche una precisa ragione climatica che contribuisce a questo concentrato di emozioni positive, cioè la stagione estiva. Non sono aspetti di contorno, bensì fattori decisivi. I Mondiali tedeschi del 2006 e le Olimpiadi inglesi del 2012 rappresentano dei casi-studio positivi di questa tendenza.

Il caso brasiliano è probabilmente catalogabile come il caso di feel good factor preventivo più rilevante della storia dei grandi eventi sportivi. La storica doppia assegnazione, nel 2007 dei Mondiali di calcio e nel 2009 delle Olimpiadi, è stata infatti vissuta con un’euforia senza pari, quasi come un fine in sé. È sembrato il simbolo perfetto del Brasile finalmente incamminato verso un destino trionfale di grande potenza economica globale: un’immagine davvero potente in termini comunicativi. Una promessa di prosperità fatta al proprio popolo dinanzi al mondo spettatore: cresceranno gli investimenti, si sbloccheranno alcuni storici ritardi (su tutti quello delle infrastrutture di trasporto, aeree, ferroviarie e stradali), sarà una festa non solo dello sport ma della classe media sempre più numerosa e sottratta con gioia alla povertà.

L’entusiasmo però rifugge alla prudenza. Più una nazione ha problemi pre-esistenti di corruzione, basso livello di efficienza amministrativa, ritardi infrastrutturali, problemi di criminalità, povertà diffusa, più l’organizzazione di un grande evento sportivo e la relativa pioggia di risorse pubbliche collegata rischia di aggravare ed oliare questi meccanismi, incentivando la sfiducia collettiva invece di portare delle eredità positive.  È la “trappola” dei mega-eventi sportivi analizzata da Wolfgang Maennig e Andrew Zimbalist, che non è stata tenuta in nessun conto dalle classi dirigenti brasiliane. Complice anche un rallentamento della crescita economica brasiliana, questa sindrome ha presentato il conto. I ritardi nei lavori hanno così rappresentato la normalità, con gran parte dei progetti infrastrutturali previsti che non è stata nemmeno iniziata, e con gli aeroporti che hanno registrato l’unico cambiamento tangibile. Non è stato infatti così nel trasporto urbano, e intanto il costo di costruzione dei 12 stadi che ospiteranno le partite è risultato essere il più alto della storia dei Mondiali di calcio. I dati di una recente ricerca del Pew Research sono emblematici: il 61% dei brasiliani ha espresso un giudizio negativo sull’organizzazione di questo evento. Non sorprende dunque che uno dei capisaldi delle proteste diffuse sia stato il tema di come i soldi pubblici potessero essere spesi per obiettivi più essenziali ed importanti dei nuovi stadi, ad esempio sanità ed istruzione.

La messa in questione del ruolo della FIFA è l’altro aspetto importante, e per certi versi storico, offertoci dal cammino preparatorio di questi Mondiali brasiliani. Per la prima volta l’istituzione che governa il calcio mondiale è entrata obtorto collo nell’agone politico, ed è stata fatta oggetto diretto di conflitto da parte dei manifestanti durante le proteste. In particolare è stata attaccata l’opacità della gestione del suo grande potere monopolistico-estrattivo, espresso nel fatto che la FIFA non mette un centesimo per gli stadi, ma tiene per sé i ricavi dei diritti televisivi, degli sponsor e dei biglietti (anche se è vero che parte delle risorse viene redistribuita alle federazioni nazionali e che la FIFA ha investito in alcune commesse in loco).

In ogni caso, rimane il fatto che nessuno obbliga certo i governi a candidarsi, e quando ci si candida si conoscono preventivamente le regole del gioco. È troppo comodo trovare dei nemici esterni – la FIFA, nello specifico – e non vedere invece in questo le responsabilità delle classi dirigenti brasiliane. 

Resta comunque innegabile il feel good factor e il potere emozionale dello sport, in particolare del calcio. È evidente che una vittoria della nazionale brasiliana potrebbe mutare completamente questo scenario, facendo dimenticare proteste e problemi per dissolverli nella gioia collettiva di una storica (sesta) affermazione. Ma è anche vero che una sconfitta potrebbe scatenare ancora di più le critiche e il malcontento popolare, aspetto da non sottovalutare in chiave politica, vista l’imminenza delle elezioni presidenziali. Molto, insomma, dipenderà dal verdetto dei campi di gioco.