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Il Brasile e i Mondiali: la posta in gioco per la politica

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Benché ancora in testa nei sondaggi in vista delle presidenziali di ottobre, il capo dello Stato Dilma Rousseff e il Partido dos Trabalhadores (PT) non possono che guardare all’avvio dei Mondiali di calcio con una certa apprensione. L’incognita rappresentata dalla rassegna calcistica, e in particolare dalla sua riuscita sul piano mediatico, mantiene infatti sotto pressione gli eredi di Lula, già alle prese con numerosi mal di testa. Da una parte, i Mondiali potrebbero essere un’occasione di redenzione, un momento di unità nazionale che Dilma può capitalizzare a suo favore per agevolare la rielezione. Dall’altra però, qualora manifestazioni di piazza o evidenti inefficienze dovessero offuscare l’evento, i rivali, a cominciare da Aécio Neves ed Eduardo Campos, potrebbero far emergere i diversi malcontenti che covano in seno alla società brasiliana, insidiando l’egemonia di cui il PT gode di fatto dal 2003.

Il discorso politico del PT, rimasto pressoché incontestato per un decennio, mostra infatti segni di debolezza. In che modo questa narrazione è emersa per poi cambiare ed essere rimessa in gioco? Il Brasile di Lula e di Dilma ha rivendicato il posto al sole imposto dalla sua taglia, puntando a superare i presunti ritardi e anomalie storiche, imputate da parti politiche anche distanti. In questo senso, la retorica adottata in questo decennio ha cercato di mettere d’accordo anime diverse: un fenomeno che in una fase di crescita economica ha permesso di giostrare contraddizioni e ambiguità con una certa disinvoltura. Il Brasile del PT è stato il Paese che ha ridotto profonde disuguaglianze attraverso monumentali politiche sociali, rivendicato la sovranità nazionale rispetto alle potenze straniere, implementato persino ambiziosi programmi di cooperazione in Africa e nel mondo. Un Paese che si è anche affermato come promettente potenza del business all’interno del virtuoso circolo dei BRICS, grazie anche al consolidamento di multinazionali sempre più competitive e mantenendosi ligio alla disciplina macroeconomica. Nato sotto una spinta emancipatoria in consonanza con altre esperienze di segno simile sorte in America Latina all’inizio del decennio scorso, il blocco consolidatosi attorno al PT si è via via attestato su posizioni ben più moderate, dimostrando la capacità di sintetizzare vari interessi con uno spirito concertativo e un atteggiamento che si è fatto più istituzionale. Una narrazione di fattura socialdemocratica-neoliberista (un ibrido ideologico emerso anche al di fuori del Brasile) che, a differenza della variante anglosassone, rimane però più attenta alle problematiche sociali, così come imposto dalla provenienza ideologica del PT (per quanto progressivamente annacquata).

Questo ampliamento dei confini politici è andato incontro, nel medio periodo, a degli ineluttabili limiti. Vari osservatori internazionali di ispirazione liberista (tra i quali il settimanale britannico The Economist) hanno sottolineato, non senza piglio paternalistico, l’insufficienza delle riforme del ciclo Lula-Dilma, tirando in ballo in alcuni casi persino la presunta pigrizia e l’indolenza dei lavoratori brasiliani e concludendo che per incrementare la produttività, il Paese dovrà liberarsi dei lacci e lacciuoli rimasti in vigore. Vi è parimenti una crescente insofferenza all’interno della comunità imprenditoriale brasiliana che vede nel PT un ostacolo per realizzare più ampie riforme di mercato. Con un tasso di crescita decelerato che si dovrebbe attestare intorno al 2,5% nel 2014, un’inflazione a ridosso del 5% e il declassamento del debito di Standard’s and Poor da BBB a BBB-, la base materiale per gridare al disastro economico è tutto sommato ancora poco solida, ma rispetto agli indicatori spumeggianti del decennio scorso si apre un varco per muovere una critica economica al governo.

Dall’altra parte, le varie manifestazioni di piazza dell’anno passato rendono chiara l’insufficienza dell’ampiamento del welfare di fronte allo storico deficit sociale, e riflettono al contempo l’insofferenza verso l’opacità nella gestione dell’apparato statale. Le politiche sociali, di recente corrette al rialzo dal governo, sono avvertite da molti come semplici compensazioni e comunque ancora insufficienti ad affrontare la gravità delle diseguaglianze. Secondo alcuni hanno semplicemente alzato l’asticella delle rivendicazioni di diversi settori popolari.

La corsa finale verso i Mondiali è stata poi caratterizzata da un crescente scontento sociale legato specificamente a questo evento sportivo: le morti dei lavoratori degli stadi e i costi esagerati di opere spesso avvertite come inutili (oltretutto consegnate in ritardo) hanno infiammato le polemiche degli ultimi mesi. A ciò si è aggiunta la violenza di cui gli apparati di sicurezza si sono resi responsabili: violenza spesso brutale ed arbitraria nei confronti dei manifestanti durante la Confederations Cup del 2013, violenza preventiva per sedare le favelas in vista del Mondiale, violenza come extrema ratio per sfrattare le oltre 170 mila famiglie investite dalle opere mundialiste. Si tratta della cartina tornasole di una società e una classe dirigente che, di fronte all’impotenza, ricorrono storicamente all’amara medicina della forza, che permette di esternalizzare verso i settori più deboli le contraddizioni ancora irrisolte.

Sul fronte dell’etica pubblica invece, dopo il celebre caso “mensalão” (mensilità) che nel 2005 vide diverse figure di punta del lulismo finire dietro le sbarre per la corruzione di parlamentari, è ora il turno del caso Petrobras: la multinazionale semi-pubblica degli idrocarburi è al centro di un nuovo scandalo, generato dall’acquisto di una raffineria a prezzo sospettamente maggiorato rispetto al suo valore di mercato. Questo senza contare i rimpasti di governo che recentemente Dilma ha utilizzato per placare una fronda interna articolata intorno ad alcune figure del secondo socio di maggioranza, il Partito del Movimento Democratico Brasiliano. La coalizione a guida PT è, in questo senso, sempre più avvertita come una macchina burocratica che assegna poltrone e incarichi con eccessiva disinvoltura.

A farsi maggiormente eco delle istanze economiche, con un accento liberista, è Aécio Neves, prossimo all’investitura ufficiale come candidato presidenziale per il Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB), che promette una radicalizzazione delle politiche iniziate da Ferdinando Henrique Cardoso, alla guida dell’ultimo governo targato PSDB tra il 1995 e il 2003. A disputarsi le rivendicazioni economiche, ma anche e soprattutto quelle di etica pubblica, è Eduardo Campos, ex governatore di Pernambuco, rappresentante del Partito Socialista Brasiliano, di recente sfilatosi dalla maggioranza di governo. Lo affianca, in qualità di candidata alla vicepresidenza, Marina Silva, ambientalista, ex ministra di Lula e terza nelle presidenziali del 2010, nota per combinare un discorso verde con la difesa di valori di tendenza conservatrice. Con Dilma data tra il 34 e il 38%, Neves tra il 16 e il 24% e Campos intorno al 10%, l’attuale presidente potrebbe vacillare al ballottaggio, viste le alleanze tra i due partiti oppositori a livello locale e l’eventuale reciproco appoggio per chi fra i due contendenti arriverà al secondo turno.

Per ora, occhi puntati sui Mondiali. Alcune sporadiche manifestazioni hanno già causato vittime nelle settimane precedenti, senza però lasciar presagire l’escalation che avvenne l’anno passato. Il dispendioso spiegamento di forze di polizia e militari e il dialogo con diversi movimenti sociali promosso nei mesi scorsi da Planalto (sede del palazzo presidenziale), dovrebbe prevenire la contestazione che trovò impreparato il governo nel giugno 2013. L’egemonia del PT perdura, ma non senza timori: non a caso, alcuni settori del partito hanno perfino iniziato a chiedere il ritorno di Lula, sebbene l’ipotesi sia stata per ora scartata dallo stesso interessato.