international analysis and commentary

Beirut ostaggio dei conflitti mediorientali

464

Non è certo un caso che la crisi del governo libanese sia esplosa proprio quando (12 gennaio) il giovane premier Saad Hariri era a colloquio con Barack Obama a Washington. Il gesto di rottura dei ministri di Hezbollah, patrocinati da Teheran, era atteso da tempo; ma è diventato, così, uno schiaffo diretto all’America. O meglio, a un’amministrazione democratica già accusata di non riuscire a cavare un ragno dal buco sul fronte israelo-palestinese e sulla questione iraniana. A un anno e mezzo dal famoso discorso di Obama al Cairo, l’Egitto del vecchio “faraone” Hosni Mubarak non riesce a gestire la successione né a garantire diritti e sicurezza della minoranza cristiana; nell’anno del ritiro americano dall’Iraq, l’Iran appare la potenza regionale in ascesa, sebbene divisa e indebolita all’interno; e dopo i tentativi di nuova mediazione in un processo di pace che processo non è, e pace nemmeno, Hillary Clinton ha più o meno gettato la spugna.

Lungo un arco di crisi che sembra dilatarsi verso il Maghreb, invece che ridimensionarsi, a Washington restano in mano gli alleati del Golfo, con le basi in Qatar, Kuwait e Bahrein. Ma l’America pare ormai chiedersi se i costi e gli sforzi della politica mediorientale valgano davvero la pena: qualunque strategia sia stata tentata negli ultimi due decenni –  da Bill Clinton a George W. Bush ad Obama – risultati concreti non si vedono. Mentre tende a ridursi, per Washington, la dipendenza dal petrolio del Golfo, oggi attorno al 12% delle importazioni americane. Vale davvero la pena, quindi?

Parlando con durezza a una Conferenza negli Emirati, subito dopo l’apertura della crisi politica libanese, Hillary Clinton ha dimostrato di avere (quasi) perso la pazienza: “In troppi luoghi e in troppi modi – ha detto senza troppi complimenti a una platea di diplomatici e businessman arabi – le fondamenta della regione stanno andando a picco”. Perché – ha continuato – senza offrire una speranza ai giovani (punto che evoca l’esplosione in Tunisia ed Algeria), senza colpire la corruzione (passaggio che riguarda un po’ tutti i regimi, incluso l’Afghanistan di Karzai) e senza vere riforme di sistemi politici autoritari che non garantiscono i diritti delle donne e di nessuna minoranza, lasciando invece spazio all’estremismo (dall’Egitto, all’Arabia Saudita, allo Yemen), un Medio Oriente nuovo e dinamico non ci sarà. Tutti punti veri, certamente. Ma che, ha ricordato il New York Times, assomigliano più che altro a una litania familiare; mentre evocano i limiti dell’influenza americana nella regione.

Gli Stati Uniti di Obama sono in effetti alle prese con due problemi di fondo. Il primo è il tipo di riassetto in corso negli equilibri di potere regionali: crescita del ruolo dell’Iran, osteggiato da Israele e contestato dal mondo arabo ma comunque palpabile; gravi difficoltà del vecchio alleato saudita; posizione ambigua della Siria e nuova collocazione di una Turchia che, da sponda storica della NATO, si pensa ormai come protagonista sulla scena mediorientale. Come protagonista e almeno in parte come battitore libero. Qui l’America, se davvero volesse ridurre i suoi costi e impegni diretti, dovrebbe concedere qualche spazio ad iniziative diplomatiche altrui: ma l’ostilità americana all’iniziativa congiunta fra Siria e Arabia Saudita proprio sul Libano, come anche la repulsione di Washington per i tentativi di mediazione turca sull’Iran indicano che gli Stati Uniti non sono pronti a farlo. O a rischiare su questo il rapporto con Israele. Per analisti di intelligence questo dato, insieme alla priorità di bilanciare l’Iran, imporrà di fatto ad Obama di mantenere una qualche presenza in Iraq. Ed è questa dinamica regionale – con la prova a distanza fra Iran e Stati Uniti e con quella ravvicinata fra Iran e Israele, attraverso Hezbollah – a scaricarsi periodicamente sul Libano.  

Il secondo problema che sconta la politica mediorientale degli Stati Uniti ha radici più profonde, ed è ben sintetizzato in questa affermazione: “Per sessant’anni, gli Stati Uniti hanno perseguito la stabilità a scapito della democrazia in Medio Oriente – e non abbiamo ottenuto né l’una ne l’altra”. La citazione è tratta da un discorso ufficiale americano fatto al Cairo, ma non da Obama o da Hillary Clinton bensì da Condi Rice nel giugno 2005. Qui il dilemma americano non è affatto nuovo, ma sta diventando semmai più acuto: perché la politica di promozione della democrazia – con la forza o con i discorsi, con gli incentivi o con le sanzioni – continua a scontrarsi con i problemi indicati dai sommovimenti di inizio 2011. Una conclusione frustrante e che potrebbe condurre Obama, a maggior ragione in una fase di bilanci sotto pressione, a decidere di “riallineare” costi e benefici della politica mediorientale. Una scelta del genere avrebbe almeno un vantaggio: costringerebbe i regimi della regione a fare i conti con le loro responsabilità.

D’altra parte, lascerebbe l’Europa alle prese con la sua vulnerabilità di fondo verso Sud: l’opzione di un parziale disimpegno regionale esiste forse per l’America, non per noi. Per ragioni evidenti – di vicinanza geografica, di flussi migratori, di dipendenza energetica – l’Europa è molto più esposta degli Stati Uniti ai rischi del Medio Oriente. In parte, si è cercato di prenderne atto, a cominciare dal Libano dove restano schierati migliaia di soldati europei e anzitutto italiani. In parte: perché il modo distratto in cui l’Europa sta “perdendo” la Turchia va in senso opposto.

Read also: Tunisi lancia una sfida all’Europa di Marta Dassù – La Stampa – 16/01/2011