Il ritiro degli USA dall’Afghanistan, da tempo annunciato ma effettuato in modo precipitoso, caotico e senza un valido coordinamento con gli alleati NATO, ha creato delle serie e comprensibili frizioni se non con tutti gli alleati europei, almeno con i più importanti che erano da anni impegnati sul terreno. Tutto a poca distanza da un vertice del G7 e uno della NATO in cui era sembrato che l’arrivo di Joe Biden promettesse di voltare definitivamente pagina dopo gli anni di Trump.
Lo sconcerto diffuso in Europa ha spinto alcuni a chiedersi se non ci troviamo di fronte a un game changer, un momento di svolta nelle relazioni transatlantiche. Chi ha un po’ di memoria sa che le frizioni, anche gravi, non sono mai mancate. Nella maggior parte dei casi tuttavia esse hanno avuto una doppia caratteristica. La prima è stata quella di dividere gli europei, per esempio in occasione dell’invasione dell’Iraq, la seconda di essere in generale ricomposte con successo. Alcuni episodi hanno avuto invece effetti durevoli e hanno condotto a svolte effettive.
I tornanti transatlantici
Il primo caso a cui si può pensare è quello della crisi di Suez del 1956 che ebbe due importanti conseguenze. Il perentorio ordine americano di por fine all’intervento franco-britannico per riacquistare il controllo del canale, segnò la fine irreversibile dell’epoca in cui gli europei potevano decidere da soli questioni suscettibili di influire sugli equilibri globali. Inoltre le due principali potenze europee ne trassero insegnamenti opposti. Per la Gran Bretagna, la conclusione che il suo destino era quello dell’alleato fedele degli Stati Uniti. Per la Francia la scelta irreversibile della carta europea e della riconciliazione con la Germania. Le scelte non erano in realtà opposte. L’Europa franco-tedesca restò malgrado i fremiti gollisti un alleato degli USA, mentre la Gran Bretagna almeno fino a Brexit si avvicinò all’Europa. Tuttavia Suez aveva alterato gli equilibri e la percezione che gli europei avevano del proprio ruolo internazionale.
La seconda svolta avvenne il 15 agosto del 1971 quando il presidente americano Richard Nixon sconvolse con decisione unilaterale gli equilibri monetari decisi un quarto di secolo prima a Bretton Woods. Da quel momento cominciò il tormentato cammino con cui l’Europa intraprese di trasformare, con profonde implicazioni politiche, la sua unione economica in unione monetaria.
Molti si chiedono anche se la presidenza Trump non rappresenti una terza svolta, per la brutalità con cui gli alleati sono stati trattati, per l’aperta sfida all’ordine internazionale così caro all’Europa e per il dubbio seminato sulla validità dell’irreversibilità dei legami atlantici. Il trauma fu tanto forte da indurre addirittura Angela Merkel a dichiarare finita l’epoca in cui gli europei potevano affidare interamente il loro destino all’alleato. Resta però il fatto che alla retorica trumpiana sono seguiti pochi fatti; al contrario, la macchina del governo USA non ha mai cessato di lanciare segnali rassicuranti. L’arrivo di Biden ha poi fatto pensare che la situazione potesse tornare non necessariamente normale: le difficoltà erano comunque evidenti, ma almeno ricondotte nel solco della tradizionale dialettica fra alleati.
L’episodio afgano rimette tutto in discussione, o almeno spinge a porsi delle nuove domande. Un messaggio è, se non certo, almeno molto probabile. Sfrondato dalla brutalità trumpiana e dalla gestione pasticciata della nuova amministrazione, esso ci dice che ci troviamo di fronte a una volontà di disimpegno che ha le sue origini ben prima di Trump, già con Obama. Le radici del fenomeno non sono internazionali, ma interne agli Stati Uniti, e derivano dalla crescente polarizzazione sociale e politica e dalla fine del tradizionale consenso bi-partisan sulla politica estera. Le conseguenze da trarre sono preoccupanti, anche perché nel loro complicato rapporto con gli USA la maggioranza degli europei teme più di tutto il disimpegno dell’alleato: nec sine te nec tecum vivere possum, come scrisse Ovidio.
Fare previsioni è in questa fase azzardato. Una grande potenza mondiale non si disimpegna con facilità. Alla fine dell’800 la Gran Bretagna fece vari tentativi di scegliere “lo splendido isolamento” e disimpegnarsi dall’Europa per dedicarsi interamente al consolidamento dell’impero. Alla fine non poté esimersi dall’essere coinvolta in due tragiche guerre mondiali iniziate come conflitti europei. È forse possibile sostenere che fu allora proprio una non sufficiente attenzione britannica agli equilibri europei che permise di creare le condizioni per cui il nazionalismo tedesco non fosse più controllabile.
Del resto, per tornare agli USA di oggi, nessuno – nemmeno i più ardenti critici dell’interventismo – chiede che il Paese si chiuda al resto del mondo come fece in Cina la dinastia Ming. Si tratta invece di una ridefinizione di priorità, verso la Cina e il Pacifico in primo luogo ma senza dimenticare la Russia e l’Europa. Un certo disimpegno dal Medio Oriente e implicitamente anche dall’Africa ne sono l’inevitabile conseguenza.
Pazienza strategica ed eclisse di leadeship
Sembra logico, ma si rivelerà molto più complicato di quanto alcuni a Washington sembrano credere. Da un lato perché il Medio Oriente continuerà a contenere la questione israeliana da cui nessuno in America potrà prescindere. Soprattutto, perché la “questione cinese”, ha ormai ramificazioni nell’Oceano Indiano, in Africa e, con il dramma afgano, anche in Asia centrale. Il problema che si pone agli USA non è quindi quanto disimpegnarsi, ma come e con chi. È stato detto che il caos afgano è il frutto di una mancanza di “pazienza strategica”. Joseph De Maistre sosteneva che le guerre si perdono per la mancanza di volontà prima che sul terreno. A sostegno dell’importanza della pazienza strategica sono addotti gli esempi del Giappone e della Corea; due esempi di successo di massiccia presenza americana che hanno però richiesto un impegno, anche militare, costante e prolungato. È una critica di peso, ma viene da domandarsi se negli ultimi evidenti fallimenti degli interventi americani prima ancora che la “pazienza” non sia mancata la strategia.
Attualmente gli USA sono impegnati su due fronti concettuali. Da un lato devono definire una politica cinese. Dall’altro devono prendere atto che, malgrado il grande successo con cui hanno affrontato la Guerra Fredda, non sono mai riusciti a definire una strategia con cui riempire il vuoto creato dalla fine degli imperi coloniali europei; fine che avevano essi stessi fortemente contribuito ad accelerare. Per evitare che una simile affermazione diventi una manifestazione di arroganza europea, è doveroso notare che la stessa assenza di spessore strategico si nota nell’avventura libica e nelle difficoltà della Francia in Sahel.
Non è comunque assurdo che gli europei si pongano la domanda delle possibili conseguenze di una durevole eclisse della leadership americana. Timoty Garton Ash ha delineato tre possibili scenari. Il primo è quello del “secolo cinese”. È curioso constatare come alcuni in Europa, con una perversa manifestazione di Schadenfreude considerino questa prospettiva con un certo fatalismo. Mentre un confronto con la Cina è piuttosto probabile, il “secolo cinese” sembra per fortuna ancora lontano. Troppo importanti sono le debolezze strutturali della Cina e troppo forte ancora, malgrado tutto, la superiorità tecnologica, economica, militare e culturale degli USA e dell’Occidente. Il secondo scenario è che l’eclisse americana conduca semplicemente al caos. È certamente la prospettiva più cupa che bisogna evitare a tutti i costi perché può solo condurre a un nuovo conflitto mondiale. Il terzo è quello di un risveglio dell’Europa. Garton Ash è un fervente europeista e suggerisce che la debolezza di Biden potrebbe ridare vigore al concetto di “autonomia strategica” di cui si parla da tempo in Europa anche se senza grande costrutto. Del resto, già durante l’era Trump l’ex primo ministro australiano Kevin Rudd aveva invocato un’iniziativa europea coordinata con le democrazie asiatiche per salvare quanto restava dell’ordine liberale internazionale.
È bene che gli europei si concentrino con impegno, non tanto su questa ipotesi, ma su ciò che possono fare per migliorare la situazione. È nostro interesse in tutti gli scenari possibili. Se effettivamente la dinamica interna agli Stati Uniti dovesse condurre a un’eclisse della loro leadership, non potremmo fare a meno di riflettere su come salvare il salvabile. Nessuno crede che potremmo sostituire la nostra leadership a quella americana. Che l’ipotesi di mantenere una presenza europea in Afghanistan dopo la partenza degli americani sia stata prontamente scartata, è un buon esempio. Si tratterebbe invece di una dolorosa ma inevitabile limitazione di danni. Se invece, come è auspicabile, Biden comprendesse che la ridefinizione delle priorità richiede una più forte coesione occidentale e quindi un più serio coordinamento con gli alleati, la richiesta di maggiore impegno europeo diventerebbe ancora più grande.
L’Europa in un mondo hobbesiano
È convinzione diffusa che su questa strada l’Europa abbia bisogno, da un lato di un impegno molto più forte in campo militare, dall’altro di una più efficace coesione politica e istituzionale. È sicuramente così, ma ci sono due questioni che condizionano l’intero processo e riguardano i due paesi maggiori. Il mondo che si prepara sarà molto più hobbesiano che kantiano. Il sogno dell’Europa “gigante gentile”, capace di costruire con le regole e i commerci un sistema multilaterale e pacifico a sua immagine e somiglianza, non è purtroppo d’attualità.
Ne discende che non è più possibile separare concettualmente le questioni economiche e commerciali da quelle strategiche e geopolitiche, affidando le prime alla nostra forza di persuasione o al fascino delle nostre regole e le seconde alla protezione americana. Come disse una volta Hubert Vedrine, verrà il giorno in cui dovremo scegliere fra essere una potenza ed essere la Svizzera. Questo nodo deve essere sciolto in primo luogo dalla Germania, ma anche da altri paesi più piccoli.
C’è però anche una questione francese. Essa ha due aspetti. Da un lato, accompagnare gli appelli all’autonomia strategica con sistematiche iniziative unilaterali o con un’esclusiva attenzione alla collaborazione con la Germania, è del tutto controproducente. Inoltre, dare l’impressione che l’autonomia è in primo luogo definita in funzione della distanza che comporta dagli USA è non solo fonte di inevitabile divisione in Europa, ma rischia di favorire dall’altro lato dell’atlantico proprio quel disimpegno americano che la maggioranza degli europei teme più di ogni cosa.
Il banco di prova della capacità di sviluppare una comune visione transatlantica allargata all’India e alle altre democrazie asiatiche, sarà ovviamente la questione cinese allo stesso tempo sul piano della tecnologia, dell’economia e della sicurezza. C’è tuttavia un’altra sfida che accomuna europei e americani. I fallimenti iracheno e afgano, ma anche le difficolta che abbiamo in Libia e nel Sahel mostrano le complessità del nation building in paesi la cui instabilità può creare gravi problemi sistemici. Queste complessità non possono né essere scartate a priori come estranee alla nostra capacità d’azione, né ridotte a semplici slogan come “esportazione della democrazia”.
Le condizioni che permettono lo sviluppo della democrazia e il rispetto dei diritti umani che stanno al cuore dei nostri valori e quindi anche in difficile equilibrio con i nostri interessi, richiedono la definizione di strategie politiche, culturali, economiche e militari di cui ancora non si vede il segno né in America né in Europa. In fondo, è proprio la complessità di una simile strategia che avrebbe dovuto giustificare la “pazienza” che è mancata a Biden. La lezione afgana potrebbe almeno servire a questo.