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Israele, Hamas e un possibile nuovo equilibrio della deterrenza

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Lo scorso 7 ottobre, con un feroce attacco contro la popolazione civile e le forze armate israeliane nell’area confinante con la Striscia di Gaza, Hamas ha dato inizio ad una nuova fase nel conflitto tra la componente palestinese e lo Stato ebraico, uno scontro che va avanti da oltre trent’anni.

Gli esiti prodotti dall’attacco a livello regionale, su cui media e commentatori si sono molto concentrati, appaiono già piuttosto chiari. Agendo come spoiler Hamas, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya‎ (Movimento Islamico di Resistenza), è riuscito ad innescare una dinamica di violenza che destabilizzasse gli equilibri emergenti nella regione, minando le fondamenta di quella “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e il mondo arabo in atto da qualche anno, incentrata su integrazione economica e sviluppo infrastrutturale, e di cui gli Accordi di Abramo e i colloqui diplomatici per l’adesione dell’Arabia Saudita rappresentavano le manifestazioni più evidenti. Meno chiare appaiono le conseguenze determinate dall’attacco a livello locale, e in particolare se esso abbia in quale modo alterato la relazione strategica tra Israele e Hamas.

Rovine dopo l’attacco israeliano sul campo rifugiati di Nuseirat, nella Striscia di Gaza.

 

La strategia di Israele

Dal momento della sua nascita, nel 1987, Hamas è stato classificato da Israele come minaccia ordinaria alla sicurezza nazionale, all’interno della categoria di bitachon shotef (sicurezza generale): in altre parole un avversario che non poneva un pericolo esistenziale per lo Stato ebraico. Per tale ragione non fu sviluppata una strategia specificamente incentrata sul Movimento Islamico di Resistenza, ma si ritenne di poter inquadrare le misure politiche e militari volte a contrastarlo all’interno di una più ampia strategia il cui obiettivo primario era il contenimento di al-Fatah (tra il 1987 e il 1992), e la coercizione dell’Autorità Nazionale Palestinese – ANP (tra il 1993 ed il 2005).

Nel corso della prima e della seconda intifada, così come nel periodo degli accordi di Oslo, Israele si concentrò dunque su operazioni militari e di polizia volte ad indebolire le reti terroristiche e l’infrastruttura civile (Da’wa) di Hamas in Cisgiordania e a Gaza, ed impiegò una serie di misure punitive nei confronti dei sostenitori del movimento, come ad esempio l’imposizione di coprifuoco prolungati alle città e villaggi da cui originavano attacchi terroristici, o la demolizione delle abitazioni degli attentatori. L’obiettivo era quello di generare cumulativamente un effetto deterrente nei confronti dei membri dell’organizzazione, di modo che limitassero attacchi e attività terroristiche, così come nei confronti dei sostenitori di Hamas, al fine di “prosciugarne” il sostegno.

Tale approccio cambiò nel 2007, a seguito della violenta presa del potere di Hamas a Gaza in funzione di aperto contrasto non solo a Israele ma anche all’ANP. L’evoluzione del Movimento di Resistenza Islamica in attore quasi-statuale, dotato di un’infrastruttura burocratica ed esercitante la sovranità sul territorio, portò ad una revisione della strategia israeliana. La principale differenza rispetto al periodo precedente consistette nel fatto che il suo elemento centrale diventò la deterrenza di Hamas come organizzazione, mentre passò in secondo piano la deterrenza dei suoi sostenitori tra la popolazione civile di Gaza.

 

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La logica delle campagne militari israeliane a Gaza del 2009, 2012, 2014 e 2021, nonché di ripetute operazioni di minore entità, fu non solo di indebolire le capacità di Hamas e danneggiarne l’infrastruttura e la legittimità, rivelandone attività che violavano il diritto internazionale, ma soprattutto creare un effetto deterrente che plasmasse il comportamento della leadership e dei quadri intermedi del Movimento Islamico di Resistenza, al fine di mantenere la violenza al livello più basso possibile per un periodo di tempo più lungo possibile.

Come evidenziato dagli intervalli sempre più ampi tra le campagne militari israeliane a Gaza, nonché dalla natura delle operazioni (nel 2012 e nel 2021 Israele condusse solo attacchi aerei), nel corso degli anni la strategia di Israele aveva avuto progressivamente sempre maggior successo, riuscendo a generare rispetto ad Hamas una deterrenza sempre più stabile.

 

La strategia di Hamas

Dalla sua fondazione, l’obiettivo strategico di Hamas è rimasto inalterato: porre fine all’esistenza dello Stato di Israele e creare uno Stato islamico palestinese al suo posto. La strategia scelta per raggiungere tale obiettivo, come indica il nome stesso del movimento, è quella della Muqāwama, ovvero la “resistenza”. In pratica, tale strategia consiste nel condurre in maniera pressoché ininterrotta attività ostili di varia natura, generalmente di tipo terroristico, contro Israele, nel tentativo non solo impedire allo Stato ebraico di sfruttare appieno le sue maggiori risorse e i suoi molteplici vantaggi competitivi, ma anche di inibirne la libertà d’azione, imponendo costi molto alti per l’uso della forza da parte israeliana.

Negli anni i mezzi impiegati da Hamas per portare avanti la propria strategia sono cambiati: dagli attacchi all’arma bianca, omicidi e rapimenti mirati dei primi anni, si è passati a quella che fu a lungo la tattica d’elezione del movimento, gli attentati suicidi nei centri abitati. A seguito del ritiro israeliano da Gaza nel 2005, e ancor più dopo la violenta presa del potere nella Striscia nel 2007, Hamas iniziò a sviluppare capacità missilistiche sempre più sofisticate, nonché una rete di tunnel da impiegare (oltre che per rifornimenti e contrabbando) per operazioni offensive di vario tipo in territorio israeliano.

 

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Solo una caratteristica del modus operandi del movimento palestinese è rimasta costante nel tempo: lo sfruttamento della popolazione civile palestinese e delle sofferenze ad essa imposte dalle misure anti-terrorismo ed operazioni militari israeliane, come leva strategica per legittimare il movimento stesso. Quali che fossero i mezzi adottati, la logica della strategia di Hamas rimaneva la stessa: tramite attività ininterrotte e continuative (seppur di varia natura e intensità a seconda delle capacità e opportunità del momento) si sono perseguiti due obiettivi:  da un lato imporre un logorio continuo ad Israele, in particolare, quando possibile, alla società civile; dall’altro dimostrare di essere il solo attore politico realmente impegnato a difendere le aspirazioni di autodeterminazione del popolo palestinese – dunque un obiettivo di competizione diretta con l’ANP.

Nel corso di quasi quarant’anni, la strategia di Hamas, seppur di successo sul fronte interno, rispetto all’ANP, non ha prodotto esiti favorevoli nella lotta contro Israele. Hamas si è visto costretto a perseguire in quella che potrebbe definirsi una strategia “modesta”: sopravvivere e continuare a combattere contro Israele nel tentativo di logorarne lentamente la determinazione. Mai, tuttavia, il Movimento Islamico di Resistenza era riuscito a spingersi oltre, vanificando la superiorità israeliana, e tantomeno a esercitare una qualche forma di deterrenza nei confronti dello Stato ebraico.

 

Un nuovo equilibrio?

L’attacco del 7 ottobre sembra aver modificato l’equilibrio precedente: si profila oggi infatti, per la prima volta, una possibile relazione di deterrenza reciproca.

La teoria della deterrenza ha identificato due condizioni necessarie affinché un attore più debole possa generare un effetto deterrente nei confronti di un avversario con capacità superiori,. Primo, ridurre le proprie vulnerabilità al minimo, ovvero assicurarsi di mantenere una capacità di infliggere danni all’avversario anche dopo un suo attacco. Secondo, impedire all’avversario di sfruttare la sua superiorità per timore delle conseguenze che da ciò potrebbero derivare.

Finora Hamas sembra essere riuscito a minimizzare le proprie vulnerabilità, dimostrando di possedere un livello di capacità senza precedenti, che ha consentito al movimento di assorbire gli attacchi israeliani mantenendo intatta una certa capacità di risposta. Dal giorno dell’attacco infatti il Movimento Islamico di Resistenza ha mostrato di possedere di una capacità missilistica in grado di saturare le difese aree israeliane, così come, al di là dei danni, di paralizzare la zona meridionale e, in parte, la zona centrale dello Stato ebraico anche durante attacchi aerei della portata di quelli condotti dall’aviazione israeliana nelle ultime settimane. Non è possibile fare ipotesi su quanto a lungo Hamas sarà in grado di mantenere capacità missilistiche sufficienti a produrre danni di questa portata, soprattutto alla luce dell’eventuale espansione delle operazioni di terra israeliane, si è tuttavia spinto ben oltre quanto era stato in grado di fare in ogni precedente scontro. Nel 2014, il movimento aveva lanciato circa seimila razzi, a lungo, medio e corto raggio, durante uno scontro durato cinquanta giorni, tra il 7 e il 10 di Ottobre di quest’anno, Hamas ne aveva già lanciati oltre 4.500 oltre al bombardamento effettuato in concomitanza con l’attacco terroristico.

 

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Apparentemente, il Movimento Islamico di Resistenza è riuscito inoltre a soddisfare anche la seconda condizione: i 200 israeliani, tra civili e militari, tenuti in ostaggio a Gaza, così come le nuove capacità difensive acquisite da Hamas, in particolare droni e armamento anti-carro, e una notevole espansione della rete di tunnel sotterranei, sembrano infatti aver condizionato tempi e forme della risposta israeliana, limitando pesantemente sia gli obiettivi dell’operazione sia le sue modalità esecutive. Ciò sembra trasparire da diversi elementi.

Al di là delle dichiarazioni pubbliche del primo ministro Netanyahu, del ministro della Difesa Gallant e del Capo di Stato Maggiore Halevi, circa l’intenzione di “eliminare per sempre Hamas”, il gabinetto di sicurezza del governo, l’organo per legge deputato a definire gli obiettivi strategici della guerra, ha deliberato in termini piuttosto generici esattamente come era avvenuto nel 2009 e nel 2014; in ogni caso non ha fatto alcun esplicito riferimento al rovesciamento del regime di Hamas a Gaza.

In secondo luogo le forze armate israeliane hanno operato fino a questo momento in maniera ambigua. Le operazioni aeree hanno avuto un carattere particolarmente aggressivo: non sono stati infatti risparmiati obiettivi civili in cui Hamas aveva collocato strutture militari, una scelta che ha prodotto un numero molto alto di vittime tra la popolazione di Gaza. Le forze di terra israeliane tuttavia, dopo essere penetrate nel nord della Striscia in tre punti diversi, sono rimaste ai margini di Gaza City e si sono limitate a condurre una serie di raid di portata e raggio d’azione piuttosto circoscritti. Ciò è sicuramente almeno in parte frutto di una precisa scelta operativa, ma potrebbe anche essere legato ad un effetto deterrente. Già nel 2014 Israele aveva optato per un approccio incrementale e di lungo periodo nelle operazioni di terra, ma in tale circostanza da principio le forze israeliane avevano occupato l’intera Striscia lungo il confine con Israele per una profondità di due chilometri. Vale la pena inoltre ricordare che sia nel pensiero che nella prassi strategica israeliana una massiccia manovra terrestre è sempre stata ritenuta fondamentale per creare un robusto effetto deterrente, e dal 2007 erano stati solo fattori interni a indurre Israele a limitarne in alcune circostanze l’utilizzo.

Una simile incertezza sia negli obiettivi che nella portata della risposta militare all’attacco terroristico del 7 ottobre è, di fatto, un evento senza precedenti nella storia del conflitto tra lo Stato ebraico e Hamas.

Formulare ipotesi su quanto stabile e duratura si riveli la relazione di deterrenza reciproca ingenerata dall’operazione di Hamas è praticamente impossibile, e potrebbe rivelarsi puramente transitoria qualora Israele decidesse a breve di ampliare in maniera significativa le operazioni di terra a Gaza. Il fatto stesso che si sia profilata, tuttavia, indipendentemente dalla sua durata, si configura come un elemento cruciale per quelli che saranno gli sviluppi futuri del conflitto.