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Kosovo-Serbia: l’accordo che potrebbe cambiare la geopolitica europea

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Kosovo e Serbia sembrano aver trovato l’accordo che consentirà la normalizzazione dei loro rapporti. L’intesa, solo verbale, è stata raggiunta lo scorso 27 febbraio a Bruxelles, dove il Premier kosovaro Albin Kurti e il Presidente serbo Aleksandar Vucic hanno accettato il testo della proposta dell’Unione Europea “senza bisogno di discuterlo ulteriormente”. Il 18 marzo a Ohrid, in Macedonia del Nord, Vucic e Kurti si sono quindi accordati – sempre verbalmente – sulle scadenze per la messa in opera del piano, che verranno monitorate da una costituenda commissione guidata dall’UE.

Al netto di una diplomazia atipica, priva di cerimoniale e firma a garanzia dei patti, l’accordo rappresenta una potenziale svolta geopolitica, non solo per i due Paesi e la regione balcanica, bensì per tutto il continente. L’intento dei negoziatori occidentali che l’hanno propiziato, con gli USA coinvolti come “promotori” mentre Francia e Germania costruivano in concreto la cornice diplomatica, infatti, è sia prevenire nuove tensioni a livello locale, sia provare ad allontanare la Russia da una sua tradizionale area d’influenza.

Il presidente serbo Aleksandar Vucic (sinistra), l’Alto Rappresentante UE Josep Borrell (centro-sinistra), e il primo ministro del Kosovo Albin Kurti in un incontro preparatorio in febbraio a Bruxelles.

 

Cosa prevede l’accordo

Il testo dell’accordo – frutto di una bozza elaborata la scorsa estate da Francia e Germania, mentre in Kosovo crescevano le tensioni per la cosiddetta “guerra delle targhe “– si compone di 11 articoli e si rifà al testo del Trattato di Base siglato nel 1972 tra la Repubblica federale di Germania e la Repubblica democratica tedesca. Come allora, il testo non parla esplicitamente di mutuo riconoscimento, ma ad esso allude in più punti. Nel primo articolo, infatti, Kosovo e Serbia si impegnano a sviluppare “normali relazioni di buon vicinato”, così come a riconoscere documenti, simboli nazionali, passaporti, diplomi, targhe e timbri doganali dell’altra parte. L’accordo contiene poi diversi riferimenti alla Carta delle Nazioni Unite, i cui principi devono guidare i due Paesi, “in particolare quelli dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati, del rispetto della loro indipendenza, autonomia e integrità territoriale”. Belgrado e Pristina si scambieranno poi “missioni permanenti”, ovvero delle rappresentanze diplomatiche.

Ci sono poi due articoli di particolar rilievo: il 4 e il 7. L’articolo 4 impegna la Serbia a smettere di ostacolare l’accesso di Pristina alle organizzazioni internazionali, dando quindi via libera alla sua membership anche presso le Nazioni Unite, dove Belgrado non potrà più rappresentare il Kosovo o “agire per suo conto”. L’articolo 7 riguarda invece l’impegno a “garantire un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo”: un chiaro riferimento a quella che gli Accordi di Bruxelles del 2013 chiamavano “Associazione dei comuni serbi” (ASM), e mai realizzata dal momento che nel 2015 fu giudicata in parte incostituzionale dalle autorità kosovare.

La ASM è stata la principale richiesta di Belgrado durante tutte le crisi dello scorso anno, e su cui hanno fatto perno i negoziati, divenendo la precondizione serba a qualunque futuro accordo, mentre Pristina la subordinava al mutuo riconoscimento.

 

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L’annesso dell’accordo prova quindi a superare questa reciproca imposizione di condizioni, dettando che l’implementazione avvenga indipendentemente dall’altra parte. La roadmap, inoltre, sembra agitare sia il bastone che la carota. Mentre per l’implementazione generale dell’accordo l’UE guiderà una Commissione per il Monitoraggio, da costituire entro metà aprile, nei prossimi cinque mesi Bruxelles si impegna altresì a organizzare una conferenza dei donatori, “per istituire un pacchetto di aiuti agli investimenti e agli aiuti finanziari per il Kosovo e la Serbia”, specificando che “l’erogazione non avverrà prima che l’UE stabilisca che tutte le disposizioni dell’accordo siano state pienamente attuate”. Ciò che però rende l’accordo politicamente vincolante è che questo rientrerà, insieme all’annesso, nel processo di integrazione all’Unione Europea. Per la Serbia – Paese candidato all’adesione da dieci anni – ci sarà una modifica specifica del capitolo negoziale numero 35, che conterrà gli obblighi derivanti dall’intesa. Anche per il Kosovo la normalizzazione dei rapporti con la Serbia diventa ufficialmente propedeutica alla sua futura integrazione nell’Unione, a cui ha presentato richiesta di adesione lo scorso dicembre.

 

Una diplomazia di compromessi e manipolazioni?

A rendere vincolante l’accordo sarà quindi l’impegno delle parti ad implementarlo, piuttosto che la firma dei due rappresentanti politici. Una prassi diplomatica atipica, ma pragmatica. Gli Accordi di Bruxelles, infatti, vennero sì firmati, ma mai del tutto portati a compimento, lasciando quindi il processo di normalizzazione tra Belgrado e Pristina ostaggio delle cicliche crisi locali, inclusa la guerra delle targhe della scorsa estate.

A sua volta, però, l’assenza di una firma ha, per ora, alimentato le contrapposte retoriche. Se Kurti è tornato da Ohrid sostenendo che sia stata la Serbia a non voler siglare gli accordi, presentando il Kosovo come una vittima dell’intransigenza serba, Vucic ha mascherato l’accettazione verbale del piano sottolineando che firmarlo sarebbe equivalso a riconoscere la Repubblica del Kosovo – atto che non è stato ancora compiuto da cinque membri UE: Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna. D’altro canto, lo scorso gennaio, quando il piano era ancora segreto – e preda, da mesi, di diverse speculazioni a mezzo stampa – il Presidente serbo lo presentò al Parlamento come un ricatto europeo, che in caso di rifiuto avrebbe comportato lo stop all’integrazione UE, il ritiro degli investimenti occidentali e altre conseguenze che avrebbero isolato politicamente la Serbia.

Al netto di questa interpretazione, che riflette la necessità del leader serbo di presentarsi ancora come vittima dell’Occidente per considerazioni di politica interna, Vucic ha detto una cosa vera: Belgrado non può fare a meno dell’UE, da cui provengono oltre il 60% degli investimenti essenziali per l’economia locale. Geopoliticamente, invece, col supporto degli Stati Uniti, l’Unione Europea si pone ora come unico interlocutore internazionale sul dossier del Kosovo, adottando un approccio inedito che mira a spingere la Russia un passo indietro dai Balcani. Mosca ha nella Serbia il baricentro delle proprie influenze nella zona, e nella questione kosovara il grimaldello per favorire l’instabilità regionale e il mantenimento dello status quo. Due condizioni che con l’attuale accordo dovrebbero venire meno.

 

La Russia arretra?

Agganciare ufficialmente la normalizzazione dei rapporti al processo di integrazione europea rilancia la missione geopolitica di Bruxelles nei Balcani. Con un duplice obiettivo: spegnere i che nel 2022 hanno fatto temere l’apertura di un nuovo conflitto in Europa, nonché ricompattare il campo occidentale in un momento di forte polarizzazione con la Russia. Per la Serbia, l’aver accettato un’intesa che la impegna a non ostacolare l’accesso di Pristina all’ONU significa che il veto russo al Consiglio di Sicurezza non è più così indispensabile per creare blocchi diplomatici contro il processo di affermazione internazionale del Kosovo. E dunque viene meno il fulcro dell’alleanza politica tra Belgrado e Mosca. Per la Russia, infatti, perdere la leva internazionale sul Kosovo comporta un ridimensionamento della propria influenza nella regione balcanica, i cui interessi a livello economico e commerciale sono limitati alle esportazioni energetiche. E anche queste verranno ridotte in virtù delle sanzioni che bloccano le importazioni di petrolio russo che arriva nei porti europei: la Serbia le riceveva dallo hub energetico di Krk/Veglia, in Croazia, e ora sarà costretta a una parziale diversificazione.

 

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Ridotta la dipendenza energetica e limitata l’azione internazionale sul Kosovo, ciò che resta a disposizione di Mosca nella regione è il suo soft power, che si concretizza soprattutto nella popolarità della Russia in Serbia e nella Republika Srpska (una delle due entità di cui è composta la Bosnia-Erzegovina) e della narrativa della fratellanza tra russi e serbi. Questa è infatti la scorta retorica nei circoli nazionalisti di entrambi i paesi. Per la maggior parte della popolazione in Serbia, stando al sondaggio del Belgrade Centre for Security Policy, la Russia resta il principale “amico” della Serbia e all’interno dello stesso gruppo il mantenimento della sovranità sul Kosovo viene considerato uno dei più importanti obiettivi di politica estera.

Se a Belgrado si è per anni insistito che la Russia avrebbe tutelato gli interessi nazionali serbi, il Presidente russo Vladimir Putin si è piuttosto servito della questione kosovara come “specchio” per legittimare le occupazioni e le invasioni russe nel proprio vicinato – spesso giustificate come operazioni in difesa di minoranze perseguitate, esattamente come sarebbero i serbo-kosovari da parte della maggioranza di etnia albanese – così come per esporre i presunti “doppi standard” dell’Occidente. Una retorica impiegata sin dall’annessione della Crimea e reiterata per paragonare il diritto all’autodeterminazione delle regioni del Donbass al Kosovo, e che ha messo in imbarazzo Belgrado.

L’alleanza politica tra Serbia e Russia non ha mai prodotto alcuna proposta di risoluzione diplomatica della questione kosovara, concretizzandosi piuttosto nel continuare a non riconoscere Pristina e nei blocchi diplomatici presso le varie agenzie ONU. Un’opportunità colta ora dall’Occidente, che con questo accordo può imporre a Belgrado una scelta di campo dopo anni di oscillazioni tra Bruxelles e Mosca, riducendo a quest’ultima una capacità di influenza che nella regione balcanica sembrava intoccabile.