Il nodo di Taiwan, il precedente ucraino e le scelte europee
La visita di Nancy Pelosi a Taipei rischia di accelerare la deriva verso uno scontro fra Stati Uniti e Cina su Taiwan, che alla lunga appare ineluttabile ma che Washington cerca di spostare alle calende greche. Il gesto della presidente della Camera, senza precedenti negli ultimi 25 anni, non poteva che essere visto come una provocazione dalla Cina, e come tale è stato definito anche dal portavoce del Cremlino.
Autorevoli commentatori americani l’hanno criticato come irresponsabile. “Utterly reckless” dice il titolo dell’editoriale di Thomas Friedman sul New York Times. Se la stessa Casa Bianca l’ha giudicato inopportuno nell’attuale fase è perché l’Occidente è già impegnato in una partita militare con pesanti conseguenze economiche. Già prima dell’annuncio di questa visita la guerra in corso in Europa imponeva maggiore prudenza sul fronte asiatico. Tanto più che Joe Biden sperava, ottimisticamente, di convincere Pechino a non alleviare gli effetti delle sanzioni contro la Russia.
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Non possiamo dare per certo che l’esempio di spregiudicatezza dato dalla Russia con l’aggressione all’Ucraina spingerà la Cina a fare altrettanto con Taiwan. Ma di sicuro crea condizioni più favorevoli per un attacco di quelle che esistevano un anno fa: l’America non può permettersi due simultanee confrontazioni militari con due grandi potenze.
Fra i due focolai vi è un indubbio parallelismo. Di fatto, Taiwan, come l’Ucraina, è uno Stato indipendente; ha un regime democratico e un orientamento politico filo-occidentale; e per Xi Jinping la sua riconquista, come quella dell’Ucraina per Putin, sarebbe giustificata da legami etnici e storici, e costituirebbe un degno coronamento di un lungo regno.
Ma non va ignorata una fondamentale differenza: la Russia aveva, in base allo Statuto dell’ONU e gli impegni in ambito OSCE, il preciso dovere di rispettare la sovranità dell’Ucraina; inoltre aveva sottoscritto nel 1994 un accordo con cui garantiva la sua integrità territoriale; eppure non ha avuto scrupolo a impadronirsi di suoi territori con la forza nel 2014 e nel 2022 e tentare di sopprimere del tutto la sua indipendenza. Per contro la Repubblica Popolare Cinese, al momento dello stabilimento di rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e altri paesi negli anni Settanta, ha ottenuto il riconoscimento del principio “una sola Cina”; e infatti le è stato aggiudicato il seggio in Consiglio di Sicurezza ONU sino ad allora detenuto da Taiwan; nel caso che ritenesse arrivato il momento opportuno per tagliare il nodo di Formosa, non sarebbe giuridicamente infondata la sua tesi che si tratti di questione interna e che qualsiasi ingerenza di terzi sia inammissibile.
Perciò, mentre le forniture di armi all’Ucraina, e persino un ipotetico intervento militare di Paesi NATO in suo aiuto, ricadrebbero sotto l’articolo 51 dello Statuto ONU (diritto alla legittima difesa collettiva), ciò non vale per Taiwan.
Naturalmente, la principale remora ad un intervento militare americano in sua difesa non è questa, bensì la pericolosità di una guerra con la Cina, oltretutto in una situazione di asimmetria geografica molto svantaggiosa.
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Gli europei avrebbero un forte interesse ad impedire l’assorbimento di Taiwan nella RPC, in primo luogo perché è un importantissimo fornitore di semiconduttori: impadronendosene, Pechino potrebbe porre gran parte delle nostre industrie sotto ricatto. Non potremmo dunque disinteressarci della sorte di Taiwan; ma non saremmo in grado di correrle in aiuto. Difficilmente potremmo fare a meno di adottare sanzioni contro la Cina.
L’esempio della crisi in corso dovrebbe averci insegnato che se certi tipi di sanzioni fanno male al destinatario (anche se non sono efficaci come deterrente, e quindi servono solo come penalizzazione), altre sanzioni fanno più male a chi le adotta. Avevamo programmato di punire Mosca rinunciando al suo gas (non subito, fra qualche anno), e ora invece ci preoccupiamo che sia la Russia a punirci tagliandocelo anzitempo; e sin d’ora paghiamo un altissimo prezzo in termini di inflazione e recessione, e relative conseguenze sociali e politiche.
Nel pianificare le prevedibili sanzioni contro la Cina dovremo analogamente tener conto degli effetti autolesionistici. E prepararci per tempo. Così come si sarebbe dovuto pensare già anni fa a ridurre la dipendenza dell’Europa dagli idrocarburi russi, così dovremmo sin d’ora indirizzare le politiche industriali alla riduzione della dipendenza dalla tecnologia e dall’industria della Cina (e di Taiwan!). Anzitutto nei settori strategici, e quindi in primo luogo nella produzione di chip per mille apparecchiature elettroniche.
Qualcosa ma non abbastanza è stato avviato dalla Commissione UE dedicando alla digitalizzazione una quota importante del Recovery Fund e incoraggiando investimenti nella produzione di semiconduttori. Ma è ben poca cosa rispetto all’esigenza di affrancarci dalle supply line asiatiche, e anche rispetto a quello che si apprestano a fare gli Stati Uniti: 280 miliardi di investimenti per il re–shoring (ri-localizzazione) della produzione di semiconduttori e la ricerca nel campo dell’elettronica informatica.