international analysis and commentary

Il dibattito americano sull’aborto tra diritti, Costituzione e ideologia

1,825

Secondo un sondaggio Gallup condotto negli Stati Uniti, il 64% degli intervistati ritiene che l’aborto sia una decisione che spetta alla donna e al suo medico. Due terzi degli elettori che si dichiarano repubblicani la pensa allo stesso modo e crede che l’aborto non sia di competenza del governo, e lo Stato non debba quindi occuparsene. Secondo lo stesso sondaggio, il 68% dei cattolici ha risposto “sì” alla domanda se l’aborto è una questione che riguarda la donna e il suo dottore. Correva l’anno 1972, dodici mesi prima della sentenza della Suprema Corte a favore del diritto costituzionale all’aborto, 1973.

Manifestanti per il diritto all’aborto negli anni ’70 al Congresso degli Stati Uniti

 

Il sondaggio Gallup, come altri ai tempi, tra cui quelli del NORC (National Opinion Research Center), mostravano un orientamento crescente dell’opinione pubblica a favore della libertà di aborto. Erano gli anni del movimento dei diritti civili, la decade rivoluzionaria tra i ’60 e i ‘70, e quel 64% di cittadini a favore dell’aborto arrivava solo cinque anni dopo (1967) la prima legge che ha legalizzato, in California, l’interruzione di gravidanza a seguito di stupro, incesto, pericolo per la salute mentale e fisica per la donna (ma non per malformazione del feto). Una legge approvata da Ronald Reagan, all’epoca Governatore repubblicano dello stato della California, che con altri tre stati tra il 1967 e il 1970 aveva dato diritto per legge all’aborto: Hawaii, Alaska, New York, e appunto ‘the sunshine state’.

Quei dati sono molto interessanti dalla prospettiva di oggi, a breve distanza dalla decisione della Corte Suprema che cancella la sentenza Roe v Wade, con cui di fatto si lascia ai singoli Stati la competenza di legiferare in materia di aborto.

Si deve però tener conto anche del fatto che, fino a tutti gli anni Sessanta, l’aborto non era considerato una questione morale né peraltro politica. Secondo i due studiosi di scienze sociali, William Ray Arney e William H. Trescher, l’opinione pubblica americana dalla fine degli anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta ha mostrato una crescente apertura all’aborto, che raggiunge l’apice due mesi dopo la decisione della Corte sul caso Roe v Wade, la quale appunto riconosce l’aborto come diritto costituzionale. Ma i sondaggi, scrivono i due nell’articolo che per primi hanno colto la tendenza alla liberalizzazione “Trends in attitudes toward abortion 1972-1976”, riflettono la trasformazione della questione aborto da un tema medico ad una questione morale, emotiva, politica, quello che oggi negli Stati Uniti chiamano una “partisan issue”, ovvero una questione che divide, di parte.

 

La nuova linea oltranzista

Come ha ricostruito Linda Greenhouse, premio Pulitzer che segue e scrive da quarant’anni delle decisioni della Corte Suprema, nel 1973  alcuni giudici maschi e bianchi, di cui quattro nominati dal presidente repubblicano Richard M. Nixon, decisero di riconoscere il diritto all’aborto come costituzionale, imponendo agli Stati di non vietare con la legge il ricorso all’interruzione di gravidanza entro la 23esima settimana di gravidanza. La Corte legalizzò l’aborto con una decisione 7 a 2 a favore. I contrari furono Byron White, un democratico nominato da John F. Kennedy, e il conservatore William Rehnquist.

La Corte, lo scorso 24 giugno, ha annullato questa decisione con un’argomentazione peculiare, che si richiama alla tesi “originalista” della carta costituzionale (due process clause) e con un’ampia spaccatura al suo interno: 5 a 4 a favore e con il presidente John G. Roberts, conservatore nominato dal presidente George W. Bush, che ha sottolineato in tono critico come i giudici stessero andando oltre il perimetro su cui erano chiamati a decidere.

 

Leggi anche: USA: la sfida politica posta da una Corte Suprema politicizzata

 

Già otto mesi fa, dopo che la Corte era stata invitata ad esprimersi sulla costituzionalità della legge del Mississippi che vieta l’aborto dopo 15 settimane, Roberts aveva tentato di convincere gli altri colleghi della maggioranza conservatrice che non era opportuno entrare nel merito del diritto sancito da Roe v Wade. Un tentativo fallito che ha evidenziato un forte dissenso persino tra i giudici di area repubblicana. Brett Kavanaugh, tra i nominati dall’ex presidente Donald Trump, nel 2018, pur avendo firmato in ogni sua parte l’opinione elaborata dal collega Samuel Alito, che ha redatto le oltre 200 pagine della decisione, ha sostenuto che è comunque incostituzionale che gli Stati dicano ai cittadini residenti che non possono viaggiare in un altro Stato per ricorrere all’aborto; è un punto decisivo, perché si tratta del solo modo –  si presume – a cui le donne ricorreranno, negli Stati dove è vietata la procedura, per aggirare la norma federale. Kavanaugh è visto da alcuni osservatori come un “swing justice” tra i conservatori, e potrebbe ora fare davvero da ago della bilancia nell’attuazione pratica della sentenza e, di conseguenza, sulle altre materie su cui la Corte sarà chiamata a decidere.

Non è la prima volta che i giudici si dividono in modo così netto ma è una delle poche volte in cui emergono così forti differenze, persino nella maggioranza dei giudici conservatori, a riflettere le profonde spaccature del Paese su temi controversi. Il giudice Clarence Thomas, nominato dal presidente repubblicano George H. Bush, nel 1991, ha infatti sostenuto che sebbene questa decisione riguardi esclusivamente l’aborto, la logica della Corte suggerisce che precedenti decisioni possano essere riconsiderate, quali i diritti degli omosessuali, la contraccezione delle coppie sposate, a suggerire che esiste una linea più oltranzista, e con implicazioni ben più ampie, nell’ambito della Corte. Una linea che non si fatica a credere sia ben radicata: la moglie di Thomas, Virginia (detta Ginni), ha avuto un ruolo centrale nell’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021, come è emerso dalle audizioni, e per ora non testimonierà nella commissione del Congresso che aveva previsto di ascoltarla in questi giorni. Non solo: la moglie di Thomas ha inviato dozzine di messaggi all’allora capo di gabinetto di Trump, Mark Meadows, invocando ogni sforzo possibile per annullare il risultato delle elezioni che ha portato Joe Biden alla Casa Bianca.

E’ una rivelazione emersa già mesi fa ma che, in sé, non avrebbe messo in discussione il ruolo del marito nella Corte se non fosse per il fatto che tra quei messaggi della moglie, Ginni fa intendere a Meadows che avrebbe coinvolto anche il marito. Il giudice, sapendo di essere probabilmente sempre più invischiato, è stato l’unico a dissentire con la decisione della Corte che ha rigettato la richiesta di Trump di bloccare il rilascio delle registrazioni della sua amministrazione, relative ai fatti del 6 gennaio 2021. Un segnale che la Corte è condizionata politicamente dall’ala trumpiana del Gop e che le questioni su cui deve pronunciarsi non sono certo affrontate in modo super partes.

 

Diritti e leggi di parte

Secondo un sondaggio del Pew Research Center, condotto tra il 27 giugno e il 4 luglio, nei giorni che hanno seguito la cancellazione di Roe v Wade, il 57% degli americani disapprova la decisione della Corte Suprema, con marcate differenze tra gli elettori: l’82% dei Democratici non è d’accordo con i giudici, mentre il 70% dei votanti repubblicani approva la decisione dell’alta corte. E le differenze sono anche di genere: il 62% delle donne è in disaccordo con la decisione, mentre arriva solo al 52% la percentuale di uomini a sfavore. Una spaccatura che si evidenzia, in termini assoluti e non di genere, tra gli Stati dove la procedura di interruzione di gravidanza è già vietata o sta per esserlo: in questi 17 Stati, il 46% degli americani è a favore della decisione della Corte; nei quattro Stati dove ci sono restrizioni all’aborto o stanno per entrare in vigore, il 47% approva. Negli Stati in cui invece l’aborto è legale fino alla 23esima settimana, il 65% è in disaccordo con la Corte. Il sondaggio mostra anche che il 62% degli americani adulti sostiene che l’aborto debba essere legale, un dato in coerenza con quello del 1972 ma in leggero calo in termini assoluti. Diversamente dal dato suddiviso per elettorato: 84% degli elettori democratici a favore dell’aborto contro un 38% dei repubblicani. Una percentuale, quest’ultima, che cambia tra gli elettori repubblicani più conservatori: tre quarti di loro, il 73%, ritiene che l’aborto debba essere illegale, quasi a confermare la posizione della Corte e dei giudici della linea più oltranzista.

 

Leggi anche: The abortion debate in the US: a split country

 

Oltre Roe v Wade, in queste settimane i giudici sono stati chiamati ad esprimersi anche su altre questioni controverse, marcando la linea ‘originalista’, tra queste il diritto dichiarato costituzionale – per la prima volta – di portare un’arma da fuoco in pubblico per la propria difesa, a cui ha fatto seguito anche la decisione di rimandare alle corti federali le restrizioni a girare armati, inclusi i divieti alle armi d’assalto di Maryland, New Jersey e California.

Con una decisione 6 a 3 (solo i giudici liberal in dissenso) la Corte ha stabilito che esiste un diritto “a tenere e portare con sé un’arma secondo il principio del Secondo emendamento” della Costituzione. Un’interpretazione, ancora una volta, affidata ai tempi dei padri fondatori (dunque a una visione letterale della Costituzione) e che ora potrebbe condurre ad invalidare le leggi restrittive sulle armi a livello nazionale. Diversi Stati hanno applicato restrizioni dopo la drammatica sparatoria alla scuola Sandy Hook, in Connecticut, del 2012. Ma le stragi con i fucili d’assalto ricorrono senza sosta, come quella dello scorso 24 maggio in Texas, a Uvalde; o ancora a Buffalo, nello stato di New York, lo scorso 14 maggio.

Altra importante pronuncia della Corte, in queste settimane, è quella che riduce la separazione della chiesa dallo Stato e che rafforza i finanziamenti alle organizzazioni religiose nelle scuole pubbliche. I giudici hanno infatti rigettato la pronuncia di un tribunale dello Stato del Maine secondo il Primo emendamento della costituzione americana che protegge il libero esercizio della religione. La decisione, anche in questo caso ha visto la divisione netta tra conservatori e liberal, con uno schieramento 6 a 3, in cui anche il giudice Roberts ha preso posizione in favore della decisione, pur con qualche sfumatura che però non ha inciso.

Il Primo emendamento proibisce un sostegno da parte del governo ad una religione in particolare (“establishment clause”). Tanto che i giudici considerati liberal, Sonia Sotomayor, Stephen Breyer (a breve sostituito da Ketanji Brown Jackson, confermata dal Congresso e che entrerà in carica nelle prossime settimane), Elena Kagan, hanno dichiarato che questa decisione forzerà gli Stati a finanziare un’istruzione religiosa, in alcuni casi omofoba, come dimostrano le dichiarazioni dei querelanti delle due scuole che hanno avviato la causa e che dicono di voler “instillare una ‘biblical worldview’”; una visione biblica all’interno dei programmi di istruzione. Sotomayor in particolare, ha scritto che la Corte, con questa decisione, ha stabilito che “la separazione tra Stato e chiesa è una violazione costituzionale”.

A margine di queste decisioni della Corte, il Presidente Biden ha tentato di compensare in qualche misura la deriva conservatrice: il 7 luglio ha firmato un ordine esecutivo che intende garantire lo spostamento delle donne che dovranno andare in un altro Stato per abortire, anche ampliando le strutture pubbliche negli stati dove sarà ancora consentito. Due giorni dopo che la Corte è intervenuta per invalidare le misure restrittive sulle armi, Biden ha firmato una legge sulla riforma del ‘gun control, la prima dopo tre decadi in cui il Congresso si era ripromesso di farlo.

Infine, c’è la decisione della Corte Suprema sull’Environmental Protection Agency, l’agenzia federale che si occupa di limitare le emissioni di Co2 dagli impianti energetici: i giudici hanno infatti limitato il potere dell’EPA con una decisione, di nuovo 6 a 3, marcando il loro scetticismo sul potere delle agenzie federali e sostenendo che le entità governative come EPA devono avere esplicita autorizzazione dal Congresso per decidere su questioni di rilevanza economico e politica come il clima. La Corte ha in questo modo ridotto la possibilità di tagliare le emissioni del 50%, l’obiettivo di Biden e dell’agenda della sua amministrazione entro il prossimo decennio.

Il capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell, ha definito la decisione della Corte utile a “limitare il potere di burocrati non eletti”. Ancora una volta l’alta Corte si è espressa intervenendo nelle decisioni del Congresso, che nel Clean Air Act ha dato all’EPA l’autorità di regolare l’industria energetica. La Corte ha ridotto ma non eliminato la capacità dell’EPA a regolare il settore, tuttavia la decisione si inserisce nel più ampio scenario di contrapposizione dei giudici verso tutte le agenzie federali che intervengono su questioni che riguardano i cittadini, come la moratoria sugli sfratti voluta da Biden con il supporto del CDC che la stessa Corte ha bloccato nel 2021.

Quello che emerge dalle pronunce di questi ultimi mesi è un quadro in cui la Corte sembra imporsi in luogo non solo dell’amministrazione ma anche di un Congresso politicamente bloccato, richiamando a sé le pieghe della Costituzione come strumento di legittimità superiore: quello che non è contenuto nella carta dei padri fondatori non può costituire un diritto; ciò che non rappresenta una soluzione per tutti i cittadini non può considerarsi una legge coerente con la Costituzione.

C’è da chiedersi se un diritto o una legislazione può essere sancito dalla “Due process Clause”, invocata dai giudici della Corte, cancellando quello che un organo eletto dai cittadini ha elaborato negli anni o quello che tribunali e giudici precedenti hanno stabilito. Se si pensa all’aborto, il ricorso alla procedura sicuramente non può essere riscontrato nelle parole dei padri fondatori; ma la partecipazione delle donne alla società, una partecipazione piena quale individuo uguale agli altri, sì.