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L’Unione Europea e la guerra: il fantasma dell’unità

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L’invasione russa dell’Ucraina ha posto l’Unione Europea di fronte a uno dei suoi peggiori incubi: un conflitto bellico in Europa in cui la UE ha importanti interessi (economici, strategici, umanitari e di principio) ma non dispone degli strumenti migliori per perseguirli. Gli Stati Uniti hanno preso l’iniziativa, soprattutto attivando il canale della NATO, e hanno così creato un corso d’azione da seguire e in qualche misura da modificare o adattare rispetto alle specifiche prospettive europee.

 

La corrispondenza degli obiettivi e delle misure operative tra Washington e Bruxelles non è completa – come è normale che sia nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, anche vista la sua storia recente – ma nessuno contesta il peso prevalente degli USA soprattutto in chiave militare. Intanto, però, molte analisi critiche si sono concentrate sulla insufficiente coesione tra gli europei stessi nonché sulla carenza strutturale di una politica di sicurezza e difesa “autonoma”.

Fin qui, si tratta di considerazioni di buon senso con cui è difficile dissentire, ma c’è un rischio di malinteso sia nel concetto di autonomia europea sia nell’idea di una piena coesione d’intenti tra i Paesi della UE. Quando si parla di una capacità di azione congiunta dell’Unione in termini di proiezione esterna, troppo spesso ci si riferisce in realtà alla volontà di attivare strumenti comuni per perseguire gli obiettivi che l’osservatore/analista ritiene più giusti e corretti. In altre parole, non si discute davvero di coesione politica, ma piuttosto dell’adozione di policy che corrispondono alle proprie aspettative. E’ un ragionamento del tutto legittimo, ma tende a confondere l’oggetto della discussione.

E’ opportuno a questo punto fare un passo indietro, prima di arrivare alle decisioni che ci attendono nell’immediato futuro. Se torniamo all’agosto del 2021, quando questo dibattito esplose rispetto al ritiro precipitoso dall’Afghanistan deciso da Joe Biden, molti europei (esperti ma anche personalità governative) si dissero risentiti per una scelta sorprendente che non era stata condivisa dall’alleato americano e che non aveva consentito di proporre alternative. In realtà, la situazione dello schieramento militare e civile nel lontano Paese centro-asiatico era un po’ meno nitida, visto che vari Paesi europei si erano di fatto già ritirati o lo stavano facendo gradualmente e che dopo quasi esattamente vent’anni di operazioni multinazionali c’erano state moltissime opportunità per offrire progetti di intervento originali e magari migliori. Il vero nodo della controversia fu semmai, l’estate scorsa, la modalità perentoria del ritiro americano, e ciò proprio perché la presenza americana era assolutamente decisiva per l’intera missione multilaterale, e in particolare per il ruolo svolto dalla NATO.

Il forte sospetto che emerge quindi nel rivisitare la vicenda afgana è che gli europei non volessero effettivamente rendersi “autonomi” dall’alleato statunitense, ma piuttosto influenzare le sue scelte e garantirsene comunque il contributo fattivo. Ma se questo è vero, siamo allora di fronte a una normale dialettica tra alleati che hanno una capacità di proiezione di potenza altamente asimmetrica; la cosiddetta “autonomia strategica europea” è, o dovrebbe essere, altra questione. Purtroppo, però, essa viene sistematicamente inquinata dalle critiche (di per sé perfettamente legittime) all’operato americano, nel senso che gli europei sembrano desiderare con grande forza una loro capacità indipendente soltanto quando non si trovano d’accordo con l’amministrazione in carica a Washington. Dunque, è come se ricercassero una “autonomia a intermittenza”, senza intanto porsi il problema dei costi (o, se si preferisce, degli investimenti) necessari a rendersi strutturalmente indipendenti.

Giungiamo così alla vicenda russo-ucraina, nella quale è stato subito notato che i costi delle sanzioni economiche pesano in larghissima misura sugli europei – il che è verissimo, ma deriva dalle scelte energetiche fatte in passato e dalla oggettiva realtà geografica, non da una perversa volontà di Washington. In questi tre mesi di guerra, le tensioni transatlantiche sono rimaste sotto controllo, visto che tutti (o quasi) hanno concordato sulla stragrande maggioranza delle misure economiche e militari da prendere. C’è però una comprensibile preoccupazione sulla tenuta della coesione euro-americana, che in realtà nasconde in qualche modo una più profonda questione intra-europea: appunto, la coesione tra gli europei su difficili e costose scelte di politica estera e di sicurezza verso la Russia. Non si può negare che proprio la poderosa spinta americana su una risposta congiunta verso Mosca abbia finora ridotto il rischio di uno scivolamento verso posizioni nazionali diverse o addirittura tra loro incompatibili.

 

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Dovremmo dunque rinunciare per sempre a una politica di sicurezza europea comune, e affidarci soltanto al tradizionale vincolo transatlantico? La risposta è certamente no, a condizione di definire con più precisione cosa la UE intende fare, con quali risorse e con quali meccanismi decisionali. Ci sono senza dubbio problemi di funzionalità delle istituzioni europee, ben noti da decenni e tuttora irrisolti. Li hanno ben sintetizzati, ad esempio, Michelangelo Freyrie e Nicoletta Pirozzi, ricordando come gli unici organi che ad oggi esprimono un approccio compiutamente comune alle politiche di sicurezza e difesa sono l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’Agenzia Europea per la Difesa, e la Direzione Generale Industria della difesa e dello spazio – tutti relativamente secondari nella sostanziale gestione dei dossier, a causa delle gelosie nazionali.

Si fa spesso notare che il meccanismo di voto all’unanimità, tuttora in vigore per la politica estera e di sicurezza, concede un paralizzante potere di veto ad ogni singolo Paese membro, come si è visto una volta di più nel caso dell’Ungheria sulle sanzioni contro Mosca e non solo. Ma immaginiamo per un istante che la UE si dotasse di un meccanismo di voto a maggioranza qualificata per la politica estera e aumentasse l’accentramento decisionale sulla Commissione (di cui l’Alto Rappresentante è già Vicepresidente). Per definizione, vi sarebbero vivaci voci dissenzienti tra coloro che voterebbero contro la maggioranza – magari un terzo del Consiglio. Ciò, peraltro, sarebbe altamente probabile perfino in una struttura realmente confederale, che non solo garantirebbe il dissenso espresso all’interno delle istituzioni e del sistema politico, ma ovviamente (in un contesto liberale) deve tutelare il diritto di critica nella società civile. Le decisioni imposte dall’alto non sarebbero certo una garanzia di sostegno dell’opinione pubblica, come sappiamo perfettamente dalla vita quotidiana delle democrazie nazionali che compongono l’Unione Europea.

Del resto, quelle decisioni potrebbero ad esempio prefigurare un pieno accordo con gli Stati Uniti su alcune questioni, spiazzando così uno degli assunti concettuali dietro l’idea della “autonomia strategica” – il sottinteso per cui la UE esiste davvero soltanto se può distinguersi dagli USA. E’ fin troppo facile immaginare le polemiche che esploderebbero se gli organi preposti alla politica estera europea dovessero fare (a maggioranza) scelte di totale allineamento, magari temporaneo, con Washington.

C’è poi un’altra considerazione, quasi banale se non fosse regolarmente sottovalutata: perfino un sistema federale con un organo esecutivo piuttosto forte (seppure certo non onnipotente) in politica estera, come quello degli Stati Uniti, risente moltissimo delle divisioni interne e della polarizzazione politica. E perfino sistemi costituzionali assai accentrati in alcune materie, come quello italiano, sperimentano talvolta fortissime tensioni tra le autorità locali e quelle centrali – si pensi alla politica sanitaria nella crisi del Covid. Come si può allora pensare che la UE, in qualunque modo fosse riformata, sia in grado magicamente di evitare tutti questi normali ostacoli di percorso, tipici di società aperte e di assetti istituzionali rappresentativi?

Va allora sottolineato che qui non siamo soltanto sul terreno dell’ingegneria istituzionale, ma soprattutto su quello della dinamica democratica. E non c’è architettura europea che possa di per sé liberarci dal fastidioso problema della cacofonia politica. E’ comunque questa la prospettiva dalla quale guardare alla sfida della coesione intra-europea: la sfida sta nell’accettare la formazione di maggioranze instabili e temporanee che riducano l’autonomia nazionale, in vista di un vantaggio collettivo superiore che possiamo anche chiamare “autonomia strategica europea”. Si tratta ora di spiegarlo ai cittadini dell’Unione.

Quello della piena coesione europea sulla guerra russo-ucraina, come del resto su qualsiasi questione di politica internazionale, è insomma una sorta di fantasma che aleggia sul continente. Nessuno ha chiarito le condizioni necessarie e sufficienti perché si possa certificare che c’è piena coesione, e anzi si è spesso dimenticato che in un sistema politico fondato su istituzioni democratico-liberali rappresentative avremmo (e di fatto avremo) sempre e comunque fenomeni di dissenso, dibattiti aspri sulle scelte degli organi esecutivi, e una dialettica interna permanente tra maggioranze e minoranze mobili. E’ bene che sia così: invece di inseguire i fantasmi, dovremmo tutti concentrarci sulle soluzioni pratiche legate ai processi decisionali e alle capacità di attuazione delle scelte operative. Questo è il vero obiettivo urgente e realistico.

 

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Se puntiamo a un’Europa che abbia maggiore peso negoziale sul piano globale, si deve necessariamente ragionare in termini di ulteriori cessioni di sovranità nazionale per rendere più funzionali gli organi comuni, senza però perseguire una visione idealizzata o mitizzata di totale concordia civile e quasi-unanimismo. Come dovremmo sapere, lo scontro politico non si ferma praticamente mai, neppure di fronte alle più gravi emergenze di sicurezza nazionale. E’ opportuno che i fautori dell’integrazione se ne facciano una ragione, proprio nell’interesse di un’Europa più forte ed efficace.