Macron bis: le nude cifre e la realtà politica
A leggere le nude cifre, il trionfo di Emmanuel Macron è inappellabile. Il 58,5% dei voti espressi è andato al presidente uscente, ossia quasi 18,8 milioni, contro i 13,3 per Marine Le Pen. Una distanza di sicurezza ancora sostanziosa a vantaggio del candidato che potremmo definire alfiere istituzionale della Quinta Repubblica francese, delle sue istituzioni di punta, e della sua collocazione nel campo euro-atlantico. La vittoria della sfidante, infatti, avrebbe significato un terremoto nella politica non solo continentale; avrebbe probabilmente rotto l’accordo politico alla base dell’attuale conformazione dell’Unione Europea, per spingere gli Stati che ne fanno parte in una direzione nazionalista e conservatrice.
Non è un caso che dei 1200 giornalisti accreditati a seguire la campagna elettorale francese, la metà fossero stranieri: una prova del valore più che mai internazionale del voto francese, segnato in profondità dalla guerra. Emmanuel Macron non fa parte del fronte dei falchi contro la Russia, avendo tentato più e più volte, senza purtroppo nessun successo, la carta del negoziato con il Cremlino prima e dopo l’aggressione all’Ucraina. E Marine Le Pen ha dovuto ammorbidire in parte la sua narrativa pro-russa, visto che i francesi giudicano negativamente l’invasione condotta da Mosca, limitandosi a dire che la Francia dovrebbe uscire dal comando integrato della NATO (come ai tempi di De Gaulle), limitare l’invio di armi all’Ucraina, non toccare il commercio di gas e petrolio con la Russia.
Ma è difficile dimenticare che nel marzo 2017, cioè poco prima delle scorse presidenziali, la leader dell’estrema destra francese era ospite di Vladimir Putin al Cremlino: un vero e proprio endorsement, non solo politico ma anche economico, dato che una banca russa già finanziava il partito di Marine Le Pen dal 2014. “Ho cercato in Russia perché nessuna banca francese mi finanziava”, si è difesa la candidata dell’estrema destra. Certo, un po’ lontana come alternativa. Sempre nel 2014 – anno dell’annessione della Crimea e del primo conflitto in Donbass – due milioni di euro erano stati versati da un ex ufficiale del KGB a papà Jean-Marie.
“Sono una donna indipendente”, ha sempre ribattuto Marine Le Pen, ma a riguardarle, le sue opinioni sulla Russia sembrano prese di peso dalle veline del Cremlino. La rivolta di Euromaidan è stato un colpo di stato, l’annessione della Crimea è legittima, le sanzioni europee contro la Russia sono stupide… Un ritornello che è cessato solo dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio, condannata da Marine Le Pen (“ingiustificabile”) così come dall’altro punto di riferimento di Putin nella politica europea, Viktor Orbàn. A chiudere il cerchio, anzi il triangolo, la notizia che stavolta è stata una banca ungherese molto vicina al primo ministro a finanziare la campagna elettorale di Le Pen, con un prestito di oltre 10 milioni di euro.
Se questo è il quadro internazionale, ben si comprende come nelle capitali del continente il risultato sia stato visto come una grande vittoria, e un sollievo. Le felicitazioni non sono mancate da Berlino, Roma, Madrid, ma soprattutto sono state calorose dai vicini della Russia: dai Baltici e dalla Romania; da Svezia e Finlandia, che valutano l’ingresso nella NATO in chiave di difesa da Mosca; persino dalla Polonia, Paese in cui nonostante la vicinanza ideologica del governo alle idee della Le Pen, in questo momento la convinzione anti-russa domina su ogni altra considerazione. Da Kiev, Volodymyr Zelensky ha commentato: “Ha vinto un vero amico dell’Ucraina”. Un’eccezione c’è, sì: Budapest. Da lì, nessuna reazione.
La Francia divisa, la solitudine del presidente
Ma vista dall’interno della Francia la vittoria di Macron non appare così netta. Rispetto al ballottaggio del 2017, Macron perde due milioni di voti, e Le Pen ne guadagna quasi tre. Nel 2017, in nessuna regione Marine Le Pen aveva vinto; stavolta s’è imposta invece in Alta Francia, Provenza-Alpi-Costa Azzurra, e Corsica. Più, clamorosamente, nelle zone d’oltremare di Guadalupa, Martinica, Guyana Francese, Réunion, Mayotte, Saint Pierre e Miquelon. Sempre nel 2017, Le Pen vinceva in soli due dipartimenti metropolitani (Passo di Calais e Aisne, entrambi nell’Alta Francia); mentre stavolta è arrivata in testa in 23, incluse province nel centro del Paese e perfino nel Sud-Ovest.
Il Sud-Ovest in particolare era tradizionalmente refrattario al voto lepenista, ma il collasso dell’industria locale – più recente rispetto a quello di lunga data del Nord-Est – lo sta alimentando: cavallo di battaglia della Le Pen restano i temi economici più di quelli identitari, come dimostra da un lato il radicamento ormai massiccio nel voto operaio, e dall’altro il fallimento della candidatura del polemista Eric Zemmour, che sempre dall’estrema destra aveva tentato di spostare l’asse del dibattito sull’islamofobia. Infine, nella geografia del voto, si allargano ancora i feudi lepenisti della costa mediterranea e in Corsica.
Insomma, il primo quinquennato di Emmanuel Macron si chiude con un presidente elettoralmente più debole di prima e un’estrema destra più forte e radicata che mai. C’è da chiedersi come sarebbe andato il voto se la guerra in Ucraina non fosse scoppiata. Lo stesso Macron è sembrato conscio delle incertezze che la sua vittoria porta con sé, quando è apparso per festeggiare davanti a pochi sostenitori radunati sugli Champs Elysées, con la moglie e circondato da una trentina di bambini, e i fedelissimi radunati in area VIP, come a ostentare una volontà di nascondere un certo sentimento di solitudine politica.
Macron, che si ritrova pieno di amici a livello internazionale, ha sì disintegrato il sistema politico francese a suo vantaggio, cannibalizzando prima la sinistra socialista e poi la destra repubblicana, ma il rischio concreto è che si ritrovi troppo isolato a livello nazionale. “Faremo in modo che i francesi non abbiano alcuna ragione per votare per le estreme”, auspicava Macron nel 2017, fresco di elezione, ma liberarsi dei vituperati partiti tradizionali non ha fatto altro che gonfiare le vele delle forze più anti-sistema: il voto a forze che mettono in discussione i pilastri politico-istituzionali della Quinta Repubblica ha toccato il 60% al primo turno, e se non si è saldato al secondo è per le grandi divisioni ideologiche che lo attraversano da destra a sinistra, non certo per la simpatia suscitata dal presidente uscente.
E’ per questo che nel suo discorso post-elettorale Emmanuel Macron ha promesso “una nuova era” e “un metodo rifondato”. So che molti di quelli che mi hanno votato non l’hanno fatto per le mie idee, ma per fermare l’estrema destra, ha riconosciuto riferendosi ai tanti elettori di sinistra che una volta ancora e sempre più controvoglia l’hanno sostenuto al secondo turno: i socialisti, gli ecologisti, e i radicali che con Mélenchon il ballottaggio lo hanno mancato di un soffio.
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“La diga” ha funzionato, se consideriamo che nelle zone di forza del partito di Mélenchon, cioè le grandi città e in particolare quelle universitarie, e le periferie multietniche a basso reddito, tra Le Pen e Macron gli elettori si sono diretti su quest’ultimo, o si sono astenuti. Tra le roccaforti del presidente al ballottaggio si confermano Parigi (85%) e la sua regione (73%), i più grandi centri urbani francesi, e il Nord-Ovest, ossia i territori che si affacciano sulla costa atlantica, i più lontani dagli epicentri della crisi economica e del dissenso sociale in Francia.
L’astensionismo ha toccato il 28%: 13,6 milioni di persone che non sono andate ai seggi – più 3 milioni che lo hanno fatto per lasciare la scheda in bianco o annullarla. Certo non è un livello drammatico, ma non lo si vedeva dal 1969. Anche all’epoca la Francia veniva da un periodo molto turbolento, con un decennio “breve” iniziato con l’indipendenza dell’Algeria nel 1962 e concluso con le rivolte del Maggio 1968 e l’uscita di scena di Charles de Gaulle; e anche all’epoca la sinistra era fuori dai giochi – alla fine la spuntò Georges Pompidou.
E’ pur vero che la vittoria di Macron è vissuta con poco entusiasmo in Francia, è vero anche che Marine Le Pen cresce su tutto il territorio nazionale e ha quasi triplicato i voti ottenuti al primo ballottaggio, esattamente vent’anni fa, a cui partecipò l’estrema destra, quello di Jean-Marie Le Pen contro Jacques Chirac, ma è anche vero che tra i due candidati restano 17 punti. Marine Le Pen poteva sperare magari non in una vittoria, ma almeno in una sconfitta più di misura: non è arrivata. “La nostra vittoria è eclatante”, ha invece insistito la sfidante, che a pochi giorni dal voto si era lasciata andare a un comizio violentissimo e minaccioso, a Arras, all’indomani del faccia a faccia televisivo in cui non era riuscita ad averla vinta su Macron. “E’ irrispettoso, disastroso, odioso, è un manipolatore, un mercante di paura, un cancro”, si era sgolata davanti ai suoi sostenitori scatenati. Ma alzare i toni si è rivelato un grossolano errore di valutazione, per la candidata dell’estrema destra, e il sorpasso è rimasto lontano, nonostante l’invettiva finale – “popolo di Francia, sollevati!” – declinata venti volte dalla tribuna.
Nuove prospettive e il rischio populista
Il popolo di Francia non le ha dato la vittoria, ma il 41% dei voti è un patrimonio che fa gola a molti. In effetti, il dominio della famiglia Le Pen sull’estrema destra francese risale a tempi remoti: cinque campagne presidenziali il padre, tre la figlia. Ma chi ha detto che debba essere eterno? “Perde sempre”, ha rimarcato perfido Zemmour, che sognava di oscurare Marine. Altri, nel partito, chiedono che la si faccia finita con gli attacchi a Bruxelles, o con gli abboccamenti con Putin. Magari concentrandosi sulle battaglie culturali e ideologiche in patria, che – come Donald Trump ha dimostrato – possono davvero infuocare la società.
Va comunque sottolineato che a presidio dei tre grandi serbatoi di opinione della politica francese ci sono tre persone: Emmanuel Macron, Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon – non tre partiti. Il populismo ha stravinto sul sistema politico, ed è facile che questo strabordi in idee, promesse e fughe in avanti del tutto irrealizzabili e irreali. Anche perché il sistema elettorale francese, lo vedremo alle legislative di giugno per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale, potrebbe impedire che ampie fasce della società abbiano la pur minima rappresentanza parlamentare. E’ in un certo senso eclatante, questo sì, che la crescita elettorale ininterrotta dell’estrema destra sia avvenuta durante questi ultimi decenni in cui i deputati lepenisti all’Assemblea sono stati praticamente zero.
E’ dunque complesso immaginarsi la discontinuità promessa da Macron. Che d’altronde, al primo turno, è stato votato in massa soprattutto nella fascia più anziana e benestante dell’elettorato, quella che di cambiamenti ne vuole ben pochi. Probabilmente, lo ha votato proprio perché non li vuole. Semmai dunque la componente ideologica della “macronìa” prendesse una via più definita e concreta, questa potrebbe comunque infrangersi contro i problemi sociali che attanagliano la Francia, contro il piano quello sì ininterrotto di diminuire la spesa pubblica e il peso dello stato nel Paese (prossimo capitolo: pensioni), contro il clima di scontento generalizzato. La sera del voto, già in molte città si radunavano manifestazioni al grido di “Macron, dégage”: vattene. Ed è solo il primo giorno.