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Il voto per l’anima francese

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Emmanuel Macron in testa, e probabile vincitore del secondo turno, contro la sfidante Marine Le Pen. Sembra la ripetizione del film di cinque anni fa, che i francesi non avevano affatto voglia di rivedere. Ma se il cocktail del primo turno presidenziale francese ha lo stesso colore di quello del 2017, ciò non vale affatto per i suoi ingredienti: il risultato finale è fatto di elementi ben diversi, e in gran parte inattesi e sorprendenti, a cominciare dalle grandi affermazioni di Marine Le Pen a destra e Jean-Luc Mélenchon a sinistra.

 

Tra Repubblica e Macronìa

Partiamo dal primo classificato: il presidente uscente Macron ha ottenuto un convincente 27,8% dei suffragi espressi. Significa che oltre un milione di elettori in più, rispetto al primo turno del 2017, sono andati a votare per lui. Le elezioni comunali e regionali degli anni passati avevano visto l’affluenza alle urne scendere a un livello inedito, vicino al 30% degli aventi diritto: indifferenza, protesta, sensazione di inutilità? Non vale per le presidenziali: rispetto a cinque anni fa la partecipazione è scesa sì, dal 77,8 al 73,7%, ma appunto non è crollata. Sono comunque due milioni in meno gli elettori che hanno votato: l’aumento delle preferenze per Macron ha un valore ancor più sostanziale.

Il quarantacinquenne Macron ha atteso a lungo, come un attore consumato che cercasse il tempo giusto per il coup de théâtre, prima di annunciare la sua ricandidatura alla presidenza. La ricandidatura era scontata, ma la scelta di aspettare gli ha permesso di tirarsi fuori dalla ressa e dalla rissa dei numerosi altri candidati, impegnati a distinguersi per emergere, e dunque ad alzare i toni in un rilancio continuo. Macron, dall'”alto” dell‘Eliseo, ha potuto così incarnare con una certa facilità il ruolo di uomo delle istituzioni, baluardo della Repubblica e della stabilità davanti al caos mondiale – la crisi della globalizzazione, la pandemia, la guerra.

Comizio di Macron davanti alla cattedrale di Strasburgo

 

Il conflitto in Ucraina ha sancito il successo di questa operazione: al di là delle considerazioni geopolitiche, per cui la Francia non è nella lista dei peggiori nemici di Mosca – di certo non al pari di Regno Unito e Stati Uniti – la ripetuta ricerca di contatto negoziale di Macron con Vladimir Putin, sia dal vivo che con una serie di telefonate, ha permesso al presidente francese di esibire uno spessore internazionale superiore a quello dei suoi concorrenti, ergendosi a simbolo dello Stato in maniera irraggiungibile per i suoi rivali. Poco importa che quelle trattative e telefonate siano state fallimentari, poco importa che abbiano fatto a un certo punto infuriare i media ucraini: dal punto di vista della campagna elettorale e dell’immagine presidenziale hanno funzionato. Macron ha attirato così qualche altro voto dagli ex elettori socialisti moderati, ma è andato a conquistare soprattutto quelli tradizionalmente legati alla destra gaullista, oggi sotto l’etichetta di „repubblicani“: lo provano i tanti voti in più rispetto a cinque anni fa ottenuti in territori come la Vandea, l’Alsazia o la Normandia, ex roccaforti del centro-destra.

 

Partiti senza ritorno

Socialisti e gaullisti, quindi: le formazioni classiche della politica francese; ci si potrebbe chiedere se Parigi, tra i tanti, avrà un museo anche per loro. Queste elezioni, per i socialisti, sono state un ulteriore passo verso il baratro. Se già quelle del 2017 avevano visto il loro candidato Benoît Hamon fermarsi poco oltre il 6% – terribile sanzione elettorale al quinquennato di François Hollande che lì si chiudeva – stavolta la candidata del partito, Anne Hidalgo, si è fermata a un miserrimo 1,75%, tanto più umiliante quanto Hidalgo è la sindaca della capitale.

Olivier Faure, segretario del Partito Socialista, con altri dirigenti del partito

 

La sindacatura di Parigi aveva portato bene ad esempio a Jacques Chirac, che l’aveva mantenuta per vent’anni prima di lanciarsi alla presidenza del Paese; ed è davvero una grande novità nella politica francese, abituata a considerare il governo dei suoi centri più importanti come necessaria palestra per ogni personaggio politico di primo piano. Alle ultime amministrative, socialisti e repubblicani avevano ancora fatto il pieno di capoluoghi e governi regionali, in una specie di nostalgico viaggio nel tempo agli anni a cavallo del 2000, quando PS e UMP facevano il bello e il cattivo tempo in Francia, si disputavano la presidenza, costruivano e capeggiavano coalizioni, e costituivano il serbatoio della classe politica del Paese. Ma il voto del 10 aprile ha rimesso a posto le lancette dell’orologio, e ha sancito un ulteriore divorzio della politica locale da quella nazionale: insieme a Hidalgo è caduta anche Valérie Pécresse, la candidata della formazione erede dell’UMP di Chirac e Sarkozy, che si è fermata al 4,8%. Un tonfo davvero verticale, considerando il 20% ottenuto da François Fillon, ex capo del governo nel quinquennato di Sarkozy, ancora cinque anni fa.

Avrà certamente fatto sorridere i non parigini che questi due fallimenti portassero il marchio della capitale: se Hidalgo è la sindaca, Pécresse è la presidente della regione parigina, l’Ile de France. Tuttavia, nemmeno nelle sezioni dove giocavano in casa le due candidate si sono discostate dal disastroso esito nazionale: a Parigi, sono Macron (35%) e Mélenchon (30%) a stappare lo champagne.

 

La rivincita di Marine?

Tra chi può sorridere, eccome, c’è Marine Le Pen. La candidata del Rassemblement National continua la sua progressione decennale: dal 17,9% con 6,4 milioni di voti del 2012, quando si candidò per la prima volta e finì terza, al 21,3 con 7,7 milioni di voti del 2017, quando arrivò al ballottaggio che perse contro Macron, fino al 23,1 con 8,1 milioni di voti di questa tornata.

Il risultato è significativo anche perché la discesa in campo del polemista Eric Zemmour, ancora più a destra di lei, sembrava destinata a far infrangere ogni speranza di vittoria della figlia del patriarca dell’estrema destra francese Jean-Marie Le Pen, spaccando irrimediabilmente il fronte nazional-populista o sovranista che dir si voglia. Addio ballottaggio come nel 2017, o come quello di papà nel 2002. E invece no: la cinquantaquattrenne Marine Le Pen si è confermata candidata “potabile” per ampie fasce dell’elettorato francese, tra cui spiccano gli abitanti delle regioni operaie ma non etnicamente miste (ad esempio dunque, non nella banlieue di Parigi, popolata da lavoratori a basso reddito che votano a sinistra), e in generale gli abitanti delle aree economicamente e socialmente più emarginate. Tra gli operai, la Le Pen tocca il 42%, contro il 20% di Mélenchon e il 19% di Macron.

Il voto Le Pen infatti non è uniforme sul territorio francese, a cominciare da un’innata debolezza nelle zone urbane: tra le poche città in cui ha vinto, ci sono sempre e soltanto le solite e piccole Calais a nord e Tolone a sud, più Perpignano, vicino al confine catalano. Marine Le Pen, però, è arrivata prima in 41 dipartimenti (equivalenti alle province; Macron ne ha 52) del Paese; ottiene più del 30% dei voti nelle zone peri-urbane e rurali del nord e nord-est della Francia, dove è ormai da tempo molto radicata. Altra zona di forza: l’entroterra della costa mediterranea, tra Costa Azzurra, Provenza e Linguadoca.

Marine Le Pen a Perpignano – “Se il popolo vota, il popolo vince”

 

D’altronde, se nel 2002 l’arrivo di Jean-Marie Le Pen al secondo turno presidenziale aveva sconvolto l’Europa, oltre che la Francia, che si era mobilitata in massa garantendo all’altro sfidante Chirac ben l’82% dei voti al ballottaggio, oggi la contesa Macron-Le Pen cade nel campo della quasi banalità. Non solo: i voti a Le Pen, sommati a quelli a Zemmour e all’altro sovranista Nicolas Dupont-Aignan, toccano il 32,3% del totale dei suffragi espressi, anche grazie a una pesca molto fruttifera nel bacino della destra tradizionale soprattutto al Sud: una rampa di lancio non indifferente in vista del ballottaggio.

Va anche specificato che la sfida Macron-Le Pen era l’esito più auspicato da entrambi gli sfidanti. Da Macron, perché convinto che in un duello con Marine Le Pen sarebbe vincitore certo: i francesi che al primo turno non hanno scelto né l’uno né l’altra, secondo questa visione, al secondo turno si schiererebbero per Macron, o al massimo si asterrebbero. Noi siamo la ragione, la scienza e la competenza, dice Macron: fate un po’ voi. Ma anche Le Pen ritiene Macron, presidente uscente di un quinquennato molto turbolento di cui il movimento dei Gilet Gialli è stato solo l’aspetto più evidente, l’avversario ideale contro cui concentrare il dissenso diffuso che cova nella società. Altro che destra o sinistra, dice Le Pen: il secondo turno dev‘essere un referendum su Macron.

 

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La variabile Mélenchon

Nonostante questo dualismo populista (entrambi i candidati hanno specificato che le idee vanno “lasciate stare” in favore di carisma, capacità e storia personale) che si auto-alimenta, il panorama politico francese non si è spaccato in due, bensì in tre. Il sistema elettorale presidenziale a doppio turno fu concepito negli anni di Charles De Gaulle per favorire un raggruppamento politico attorno a una destra e a una sinistra rappresentative della maggioranza del Paese e dai toni non estremisti. In questa tornata si è invece ripetuta la rottura di quella teoria, già verificatasi nel 2017, quando furono ben quattro i candidati che ricevettero un numero paragonabile di suffragi: Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon.

E forse ancora più inatteso dell’affermazione di Marine Le Pen è proprio il risultato di Jean-Luc Mélenchon: è il candidato della sinistra radicale a dover mettere in luce, nel 2022, quanto possa essere non rappresentativo il sistema maggioritario francese. Anche la sua è stata una progressione continua negli ultimi anni: dall’11,1% con 4 milioni di voti del 2012, al 19,6 con 7,1 milioni di voti del 2017 (arrivò quarto), fino al 21,9 con 7,7 milioni di voti di questa tornata, che gli ha fruttato però solo il terzo posto, cioè l’esclusione dal ballottaggio.

Inoltre, il settantenne leader de La France Insoumise (“la Francia indomita”) si è imposto in un panorama iper-frammentato a sinistra. Oltre alla socialista Hidalgo che a Parigi governa in coalizione con la sinistra radicale, c’era anche il leader dei Verdi Yannick Yadot: bloccato su un deludente 4,6%, ha solo confermato l'”allergia” dei Verdi francesi per i grandi appuntamenti politici. Insieme a loro, le percentuali di Philippe Poutou, del Nuovo Partito Anticapitalista (0,8), Natalie Arthaud di Lotta Operaia (0,6) e soprattutto Fabien Roussel del Partito Comunista (2,3) possono fare soltanto rimpiangere alla sinistra l’esito di un voto meno disperso, più concentrato su Mélenchon, che è arrivato dietro a Marine Le Pen solo dell‘1,2%.

Discorso di Mélenchon a Parigi – “L’unione popolare”

 

Mélenchon ha pescato con grande successo in alcune delle zone di riferimento classiche della sinistra francese, come la banlieue parigina: in moltissimi comuni della corona periferica operaia o a basso reddito della capitale tocca il 50% dei consensi, e supera il 30% all’interno del comune di Parigi, risultando il più votato negli Arrondissement più popolari (10°, 11, 13, 18, 19, 20, ma anche nel Primo, mentre gli altri sono per Macron). A ribadire un risultato quasi a specchio con quello di Marine Le Pen, il candidato “indomito” è andato in generale molto bene nelle grandi città (ha vinto a Marsiglia, Lille, Nantes, Tolosa, Strasburgo, Le Havre, Rouen, Montpellier, Rennes…) e nella parte sud-ovest della Francia. Ed è anche il preferito tra i giovani: avessero votato solo gli under 35, Mélenchon avrebbe vinto con il 33%, tallonato da Marine Le Pen con il 32. Macron ha stravinto (39%) tra gli over 65, prosciugando in questo caso un serbatoio fedelissimo alla destra tradizionale, quello dei pensionati, e si è imposto tra gli elettori più benestanti – registrando comunque risultati discreti anche nelle fasce di reddito intermedie.

 

I dilemmi del ballottaggio

Gli elettori della sinistra radicale si trovano ora nella situazione di ago della bilancia. Neanche un voto a Marine Le Pen! – ha specificato subito Mélenchon. Ma non è mica detto che i suoi affolleranno i seggi per votare Macron. Tanto più che la narrativa e la politica del presidente uscente hanno svoltato nettamente verso destra, in questi anni.

 

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Al contrario, gli elettori di sinistra potrebbero trovare per niente dissonanti alcune delle proposte della leader del Rassemblement National: imposta sulle rendite finanziarie, supremazia della legge francese rispetto al diritto dell’Unione Europea, uscita della Francia dal comando integrato della NATO, istituzione dei referendum popolari, rifiuto dei trattati di libero scambio, come il CETA tra UE e Canada. Marine Le Pen, inoltre, è tornata nelle coordinate minime della politica europea, un po’ come il premier ungherese Viktor Orbàn: non è più per l’uscita della Francia dall’Unione Europea, e neanche dall’euro, e questo la fa apparire meno „pericolosa“.

Inoltre, le bandiere della France Insoumise sono state, in questi cinque anni, presenti in ogni singola manifestazione contro la politica economica, sociale e anche sanitaria di Emmanuel Macron. Da Mélenchon in giù non è che un ripetere: far vincere Le Pen non risolverà nessun problema. Ma Macron ha usato il richiamo al voto utile contro l’estrema destra già cinque anni fa e nella sinistra radicale, poi appunto mobilitata a ogni piè sospinto contro di lui, i teorici del „meno peggio“, del voto a Macron per “fare diga”, sono stati sbeffeggiati a lungo col nomignolo di castori.

Macron da parte sua è cosciente di avere un campo ben più ristretto da cui pescare, rispetto al ballottaggio di cinque anni fa che si concluse con una larga vittoria, due voti su tre per lui; il rischio è quello di perdere la bussola del “campo della Repubblica e della ragione”, come l’ha chiamato il ministro agli Affari europei Clément Beaune. Saranno due settimane complesse, in cui i due candidati tenteranno in ogni modo di accreditarsi presso i settori sociali che non li hanno votati: “Rompere i cogl… ai non vaccinati?” – ha detto il presidente uscente riferendosi a una sua frase sulle politiche di contrasto al Covid – “Sono parole scherzose che vanno contestualizzate”. Marine Le Pen ha invece già fatto sapere di non essere più contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che pure ha provocato grandi proteste nella destra francese.

Alcuni candidati hanno fatto una dichiarazione di voto diretta per Macron: sono Hidalgo, Roussel, Yadot e Pécresse – che hanno però tutti sottolineato le loro grandi divergenze politiche. Anche Zemmour ha sottolineato le sue divergenze con Le Pen, prima di invitare a votare per lei, visto che “Macron ha lasciato entrare due milioni di stranieri”, crimine esecrabile dal suo punto di vista. Lo stesso ha fatto Dupont-Aignan.

Un manifesto di Eric Zemmour – “Perché la Francia resti la Francia”

 

La candidatura Zemmour è fallita, fermandosi al 7% nonostante un’attenzione mediatica morbosa e spropositata. L’ex giornalista del Figaro può consolarsi con il 22% tra i ricconi di Saint-Tropez e con il 27% dei voti nel seggio dell’ambasciata di Francia a Mosca (da noi ci vorrebbe uno come Putin, aveva detto nel 2018), però paradossalmente il suo fallimento potrebbe favorire invece che ostacolare Marine Le Pen come si pensava. Di fronte ai compiaciuti eccessi e agli oltraggi del giornalista, ubiquo alla polemica tanto più se di stampo etnicista o religioso, Le Pen è apparsa responsabile, misurata e moderata, persino umana: al contrario di Zemmour si è detta disponibile ad accogliere i rifugiati di guerra ucraini, e ha addirittura denunciato i troppi “filo-nazi” candidati con Zemmour.

Notizia non tanto buona per Macron: il candidato dei Repubblicani sconfitto di un soffio alle primarie da Pécresse, il deputato nizzardo Eric Ciotti, ha detto che non voterà per il presidente uscente. Sarà una scelta di società e anche di civiltà, ha dichiarato Marine Le Pen. Può ben darsi che abbia ragione.

 

I risultati definitivi del primo turno delle presidenziali francesi del 2022 – Fonte: France Sud-Ouest