La corsa dei supercomputer e le eccellenze (anche) italiane
L’Italia è tornata nella lista dei luoghi dove sono presenti i dieci supercomputer più potenti al mondo. Grazie al supercomputer HPC5 al Green Data Center di ENI e al Marconi-100 alla sede bolognese del consorzio interuniversitario Cineca, l’Italia è il primo paese europeo in classifica, piazzandosi subito dietro i grandi calcolatori in dotazione ai governi americani e cinesi. La potenza di calcolo installata in un paese è vista come il cervello di una nazione, una risorsa indispensabile per primeggiare nel mondo per scienza, tecnologia e sviluppo socioeconomico.
In occasione dell’International Supercomputing Conference di Francoforte, quest’anno tenutasi in modalità a distanza per ovvie ragioni congiunturali, la società di consulenza informatica Prometeus di Mannheim ha pubblicato la top500[1], la lista aggiornata dei 500 supercomputer più potenti al mondo, intesi come computer che eseguono elaborazioni di dati a velocità estremamente elevate in modo autonomo e senza la necessità di essere collegati a una rete di computer per aumentarne la capacità di calcolo.
L’elenco include un totale di 28 paesi che possiedono sul proprio territorio uno o più supercomputer, senza esserne necessariamente il produttore, paesi avanzati, come l’Italia e la Germania, oppure dalle spiccate ambizioni di crescita economica o geopolitica, come l’India e la Russia. Generalmente, l’interesse non cade su questa trentina di paesi, quanto piuttosto sui primi dieci, poiché rappresentativi della corsa alla supremazia tecnologica o, per essere più estremi, della guerra digitale in corso tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese. Le due superpotenze si contendono da decenni oramai le prime dieci posizioni della classifica, ma questa volta non è andata così.
Il calcolatore elettronico più potente del pianeta si è rivelato essere il Supercomputer Fugaku prodotto dalla giapponese Fujitsu per il Riken, un centro governativo di ricerca scientifica vicino Tokyo con sette campus e tremila scienziati impegnati in ricerca di base e applicazioni pratiche che spaziano dalla fisica alla chimica, dalla genomica alle tecnologie computazionali. Il Supercomputer Fugaku che, come il suo costruttore Fujitsu, prende il nome dal Monte Fuji, una delle tre montagne sacre del Giappone, ha spodestato i supercomputer americani e cinesi già esistenti. Benché il Giappone sia celebre per le sue capacità tecnologiche, pochi si aspettava questo sorpasso, come pure le sue dimensioni che permetteranno al Fugaku di rimanere il più veloce del mondo per un bel po’ di anni.
Rispetto al secondo supercomputer più potente, l’americano Summit prodotto dalla ibm per conto dell’Oak Ridge National Laboratory, un centro di scienze interdisciplinari del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, il supercomputer giapponese ha una regolare velocità di calcolo di 415 petaflop/s, cioè 415 milioni di miliardi di operazioni al secondo, contro i circa 150 petaflop al secondo del Summit. A seguire c’è il supercomputer Sierra, ancora della ibm, e i due supercomputer cinesi Sunway TaihuLight e Tianhe-2A, tutti allocati in istituti governativi.
Cina e Stati Uniti continuano comunque a detenere il primato per numero di supercomputer installati sul proprio territorio, 226 unità per la prima e 113 per i secondi, pari rispettivamente al 45,2% e al 22,6% del numero di supercomputer nel mondo. In tutto si tratta di due terzi delle installazioni mondiali, quantità che rende le due superpotenze capaci di risolvere problemi inaccessibili ad altri paesi per tempi e costi.
Il quadro rimane inalterato dalla prospettiva dei produttori di supercomputer. Con Lenovo, Sugon e Inspur, la Cina detiene una quota del 30% della produzione mondiale, mentre con Hewlett Packard, gli Stati Uniti detengono poco meno del 15%: valori impressionanti, se pensiamo alle conoscenze e competenze che i produttori impongono e generano nei rispetti paesi, oltre che alla creazione di valore economico e occupazione.
Tuttavia, la sorpresa più grande, almeno da una prospettiva italiana, è che tra i primi dieci supercomputer, il quinto e il nono sono installati in Italia, precisamente il supercomputer HPC5 al Green Data Center di ENI a Ferrera Erbognone in provincia di Pavia, e il Marconi-100 al Cineca di Casalecchio di Reno, nei pressi di Bologna. Sono i due supercomputer più potenti in Europa.
L’HPC5 prodotto da Dell ha una potenza di calcolo di circa 35 petaflop/s con picchi che arrivano fino a 51 milioni di miliardi di operazioni al secondo, cosa che gli vale il primato mondiale del supercomputer più veloce per applicazioni industriali, ma lo rende anche uno dei più efficienti al mondo, avendo bisogno di una potenza installata di appena 1 kW per 21 petaflop. Tramite algoritmi sviluppati dagli stessi tecnici di ENI, HPC5 processa informazioni geofisiche e sismiche raccolte in tutto il mondo ed elabora modelli del sottosuolo che permettono di individuare petrolio e gas in tempi ridotti e a costi inferiori, consentendo così un vantaggio competitivo. Proprio questo accadde nel 2018 con HPC4, la versione precedente dello HPC5, quando fu scoperto da ENI al largo dell’Egitto il giacimento di Zohr, considerato il più grande ritrovamento di gas mai realizzato nel Mar Mediterraneo.
Al Cineca, il Consorzio Interuniversitario per l’High Performance Computing formato dal Ministero per l’Università e la Ricerca scientifica, 69 atenei italiani e 11 istituzioni pubbliche nazionali, il Marconi-100, prodotto da Dell (secondo la stessa tecnologia alla base del supercomputer Summit) ha una potenza di calcolo che raggiunge picchi di quasi 30 petalop/s con un’efficienza di solo 1 kW per 15 petaflop. Le sue prestazioni elevatissime lo hanno fatto impiegare già in venti progetti di interesse pubblico. Uno di questi è il recentissimo Exscalate4CoV, guidato dall’azienda farmaceutica milanese Dompé in collaborazione col Politecnico di Milano, che ha l’obiettivo di individuare terapie per ridurre l’aggressività patogena del covid-19 simulando digitalmente il comportamento delle proteine che permettono al virus di replicarsi così da identificare molecole e composti farmaceutici in grado di ridurre l’aggressività patogena del virus, progetto che si è guadagnato subito una sovvenzione dalla Commissione europea.
In una recente pubblicazione proprio per la Commissione, Mariana Mazzucato, professoressa di Economia dell’innovazione e del valore pubblico allo University College, sostiene che la disponibilità di supercomputer sul proprio territorio aumenta fortemente la capacità di ricercatori, industria e governo di elaborare e analizzare grandi quantità di dati nel contesto attuale di rapidi sviluppi tecnologici nell’intelligenza artificiale, nei big data e nell’internet of things. E’ insomma una capacità abilitante fondamentale per l’innovazione e la competitività.[2]
L’Italia sarà anche un paese di grande ricchezza paesaggistica-artistica, ma non saranno le nostre montagne, le nostre coste e i nostri siti archeologici a farci annoverare tra le nazioni più potenti al mondo, quantomeno in termini di potenza di calcolo per aprire nuove prospettive di sviluppo industriale e offrire opportunità di intervento oggi irraggiungibili su sistemi complessi di primaria importanza economica e sociale. Si pensi alla riduzione dell’inquinamento, la meteorologia, la produzione di nuovi materiali, lo sviluppo di strategie energetiche, la gestione delle reti di trasporto automatizzate su larga scala, il marketing, la diagnostica medica, le biotecnologie, le esplorazioni del sottosuolo, l’analisi molecolare di polimeri, cristalli e proteine incluse quelle che rendono immuni dal covid-19, e solo per citarne alcuni.
Secondo uno studio di Banca d’Italia, alle attività turistiche sono direttamente riconducibili il 5% del prodotto interno lordo e il 6% degli occupati del nostro paese. Le imprese attive nel turismo hanno una dimensione media pari a 5,4 addetti contro gli 8,4 della media europea, con la quota più bassa di giovani compresi tra i 15 e i 34 anni e una delle quote più basse per livello di istruzione terziaria. I risultati dello studio mostrano anche che un aumento del 10% della spesa turistica per abitante produca effetti da zero virgola sulla crescita cumulata nel decennio successivo in termini di valore aggiunto pro capite e tasso di occupazione come pure che un’eventuale maggiore specializzazione turistica abbia effetti quasi nulli sulla crescita.[3]
L’Italia ha smesso di essere un produttore di calcolatori elettronici nel 1999 con l’ultimo personal computer di Olivetti, precisamente il modello M8550, destino non convertibile se non al prezzo di investimenti altissimi. Se l’Italia non vuole progettare e produrre supercomputer, può sempre decidere di utilizzarne in forma massiccia. Sebbene il nostro paese abbia i due supercomputer più veloci in Europa, di converso il numero di supercomputer installati sul territorio nazionale è decisamente basso rispetto agli altri paesi membri, precisamente 7 contro i 19 della Francia, i 16 della Germania, i 15 dell’Olanda e i 14 dell’Irlanda.
Le tecnologie computazionali sono il motore di ogni passaggio della trasformazione e dell’espansione digitale che, attraverso la logica binaria, rendono possibile la convergenza tra informatica e telecomunicazioni, purché esse siano in grado di processare con crescente efficienza moli quasi infinite di dati secondo principi di velocità ed economicità. Secondo Francesca e Luca Balestrieri della Luiss Guido Carli di Roma, la prossima soglia da superare per i supercomputer è l’exaflop, ovvero una velocità di calcolo di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo, stimata come la velocità delle operazioni che il cervello umano attua attraverso il sistema delle sue reti neurali.[4]
La sfida è alla base dello Human Brain Project, un progetto scientifico nel campo dell’informatica e delle neuroscienze che mira a realizzare, entro il 2023, attraverso un supercomputer, una simulazione del funzionamento completo del cervello umano, progetto a cui partecipano 134 istituti tra università e centri di ricerca di ventidue paesi, inclusa l’Italia con il Cineca e altre undici organizzazioni nazionali come il Centro Nazionale Ricerche e l’Istituto Superiore di Sanità.
Sono progetti come lo Human Brain o il Graphene Flagship, a cui l’Unione Europea ha dato priorità massima, che possono fornire all’Italia quella discontinuità necessaria in tutto l’ecosistema per generare innovazione tanto nell’industria quanto nell’organizzazione della vita quotidiana, discontinuità che è possibile conseguire solo se si hanno tanti e bravi laureati e dottori di ricerca di 25-30 anni, e noi, per parafrasare Salvatore Rossi, ne abbiamo drammaticamente pochi.[5]
Note:
[1] top500 Project, https://tinyurl.com/zpbr9ef
[2] Mariana Mazzucato, Mission-Oriented Research & Innovation in the European Union, 2018, https://tinyurl.com/ybs837ge
[3] Banca d’Italia, Il peso del turismo in Italia, le caratteristiche della domanda e la capacità ricettiva, 2018, https://tinyurl.com/yaavld29
[4] Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Guerra digitale, 2019, https://tinyurl.com/ycht62ux
[5] Ferruccio de Bortoli, Salvatore Rossi, La ragione e il buonsenso, 2020, https://tinyurl.com/ycazbsa7