Perché l’Europa ha bisogno di un New Deal
Il diavolo, come al solito, è nei dettagli. E quindi si vedrà se il Recovery Fund approvato sulla carta dal Consiglio europeo, il 23 aprile scorso, riuscirà a sostenere la ripresa del Vecchio Continente. Di fronte a una crisi come questa – come nessun’altra, ha detto Kristalina Georgieva mettendo sul tavolo le previsioni economiche pessimistiche del Fondo Monetario Internazionale – l’Europa ha bisogno di un potente stimolo fiscale. E non può lasciare l’intero lavoro alla Banca Centrale Europea, che sta peraltro impedendo una replica della crisi finanziaria del 2008: grazie a Francoforte, viene stoppata sul nascere la possibilità di un circolo vizioso fra debiti sovrani e sistema delle banche. Per un paese come l’Italia è una boccata di ossigeno indispensabile, che rende obsolete le tesi sulla convenienza di una uscita dall’euro.
Lo scenario di fronte a cui si trova l’Europa, già alle prese con una competizione geopolitica che la mette in difficoltà, non può essere affrontato solo dai governi nazionali. Per la ragione molto semplice che gli anelli più deboli della catena dell’euro fallirebbero; e quindi salterebbe l’UE nel suo insieme. Anche per i paesi più forti, questa prospettiva ha costi non sostenibili, visto che frantumerebbe il mercato interno da cui dipende larga parte della domanda europea.
Si aggiunge che l’origine della crisi – lo shock simmetrico generato dalla pandemia – riduce, per una volta, il tasso di accuse reciproche fra paesi virtuosi e paesi che lo sono di meno. Questo dato di fatto ha permesso di concepire la risposta europea come un programma ispirato a criteri erga omnes di solidarietà, piuttosto che vincolato alle usuali condizionalità. In effetti, il tentativo è di aumentare il margine di manovra degli Stati nazionali (congelamento del Patto di stabilità e delle regole sugli aiuti di Stato), aggiungendovi un forte pilastro finanziario europeo (in parte con vecchi strumenti e in parte con nuovi). Se il Recovery Fund avrà il potenziale previsto (circa 1500 miliardi, vedremo) e sarà in parte basato su trasferimenti (invece che su prestiti), l’Europa funzionerà effettivamente come moltiplicatore importante delle capacità di investimento nazionali. E a quel punto, sarà il paese che avrà ricevuto un forte aiuto dall’Europa a dovere dimostrare di essere in grado di utilizzarlo al meglio.
Conteranno i dettagli, appunto; ma questa crisi aiuta intanto a chiarirsi le idee sul senso e il funzionamento dell’Unione Europea. Non si tratta di un esercizio politologico: la realtà, infatti, è che continua ad esistere una buona dose di confusione mentale su una istituzione talmente sui generis da essere definita uno “strano animale”, in mancanza di certezze migliori (una federazione a metà? una Confederazione mancata?).
Due punti appaiono particolarmente importanti. Il primo riguarda il rapporto fra gli Stati nazionali e l’organizzazione di cui fanno parte, mettendo in comune una quota della loro sovranità e diventando quindi Stati membri. E’ sempre utile ricordare, e la risposta alla pandemia lo conferma, che l’obiettivo originario della Comunità Europea, dopo due guerre mondiali, non era di abolire progressivamente gli Stati nazionali ma al contrario di salvarli: da se stessi e dai loro conflitti. Gli Stati dell’epoca non erano riusciti a difendere i loro territori nazionali e a proteggere i cittadini, mancando così al loro compito essenziale. Costruire una comunità, rendendo impossibili nuove guerre, ne avrebbe rafforzato la sicurezza e la legittimità.
Questo è il trade-off originario su cui è nata l’integrazione europea – resa fra l’altro possibile dal contributo che America e NATO dettero al “recupero” della Germania. Il problema è che questo trade-off ha cominciato a scricchiolare da quando sono fortemente aumentate le divergenze all’interno dell’area euro. Da due decenni a questa parte, la divergenza economica crescente fra paesi creditori e debitori ha impedito una crescita bilanciata, favorendo l’ascesa di posizioni euro-scettiche. Si è poi aggiunta la divergenza politica fra vecchi e nuovi membri, che ha reso impossibili accordi in materia di immigrazione e che ha invece prodotto regressioni democratiche. La pandemia, mettendo impietosamente a nudo punti di forza e di debolezza dei singoli sistemi nazionali, tende ad accentuare queste divergenze, fino alla possibilità di disgregare – in una nuova competizione interna fra vincenti e perdenti – l’Unione Europea. Questo rischio è stato molto evidente nella prima fase della risposta europea a Covid-19. Con il passare delle settimane, tuttavia, i paesi-chiave per il futuro europeo, a cominciare da Germania e Francia – su fronti diversi del dibattito “esistenziale” sulla risposta al coronavirus – hanno concordato che salvaguardare gli Stati più deboli dell’area euro è diventata una condizione essenziale per la tenuta dell’Europa nel suo insieme.
A differenza di quanto si tende molto spesso a pensare, la lentezza della risposta europea alle crisi non nasce dall’arroganza ma dalla riluttanza tedesca a cambiare le cose. Anche perché la Germania è certamente il paese che ha avuto più benefici dall’assetto dell’euro-zona e tende quindi alla difesa dello status quo. Fino a un certo punto però: in questa occasione, il virus sta funzionando da drammatico stimolo, spingendo Berlino a reagire.
Ne consegue un secondo punto: è ormai evidente che l’Europa – viste le lezioni delle crisi degli ultimi quindici anni – deve puntare a un nuovo accordo interno. E’ indispensabile una sorta di “New Deal” continentale, che permetta di aumentare la resilienza e poi la ripresa delle società europee. Ciò sarà possibile solo combinando una maggiore flessibilità a livello degli Stati nazionali con un aumento delle risorse comuni europee.
La crisi generata da Covid-19 sta almeno in parte spingendo in questa direzione: il congelamento del Patto di stabilità e crescita lascia finalmente ai governi lo spazio fiscale di cui hanno bisogno, così come la sospensione delle regole sugli aiuti di Stato permette ai governi di intervenire a difesa dell’industria nazionale (e non sorprende che la maggior parte degli interventi stia avvenendo in Germania). D’altra parte, l’azione della BCE equivale a un ombrello continentale volto a garantire la credibilità dei paesi a forte debito. Al tempo stesso – ed è ovviamente il progresso più difficile, come conferma la discussione di queste settimane – l’Unione economica e monetaria deve fondarsi su una certa misura di condivisione del rischio. La Germania e in genere il fronte dei paesi “frugali” hanno sempre ritenuto di non potere accettare una condivisione del rischio fiscale prima di una riduzione netta del debito da parte di paesi come l’Italia. Covid-19, con l’ampiezza della recessione prevista, impone di superare queste esitazioni, collegando emissioni di bond europei a un aumento del bilancio comunitario.
Si vedranno tempi e modalità delle decisioni prese (o rinviate alla Commissione…) sotto l’impatto della crisi pandemica. Il problema essenziale è che queste misure equivarranno a un nuovo accordo intra-europeo solo se non resteranno tutte misure straordinarie e temporanee; e solo se gli Stati nazionali “scambieranno” solidarietà e responsabilità. Se invece, nell’arco di un paio di anni, si tornerà integralmente alla situazione pre-crisi, con gli squilibri evidenti dell’Unione economica e monetaria, l’UE avrà adottato un macro-tampone (per restare in materia di virus) ma non avrà compiuto un vero progresso. E gli Stati più deboli si troveranno, in quanto ancora più indebitati, in crescente difficoltà. A quel punto, anti-europeismo e sovranismo tenderanno ad esplodere nel cuore dell’area euro.
In conclusione, se la gestione di questa ultima crisi sarà semplicemente parte di uno “stato d’eccezione”, l’Unione europea continuerà a funzionare male, con l’accentuazione dei contrasti interni fra Nord e Sud (sulla gestione dell’economia) e fra Ovest ed Est (sulla gestione della politica). Gradualmente, l’Europa tenderà a sfilacciarsi proprio quando sta diventando, per la sua debolezza, un terreno di competizione fra grandi potenze. La gravità della crisi attuale, dopo la strappo di Brexit, è una sorta di ultimo campanello di allarme. Senza un nuovo accordo politico interno, l’Unione Europea non avrà futuro. E alla fine si sfalderà: un esito che indebolirà fortemente anche gli Stati nazionali.