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Perché la Cina non vincerà la partita post-Covid

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Il lockdown non fa particolarmente bene agli italiani. Dai confini dei propri appartamenti, il mondo esterno appare capovolto: la Cina – indica un sondaggio di SWG – è a questo punto percepita dalla maggioranza degli intervistati come il migliore amico dell’Italia. La Germania è vista come il principale nemico. Mentre gli Stati Uniti sono considerati come un amico secondario (il 17% degli intervistati) o perfino come un nemico potenziale (dal 16%).

E’ uno scostamento clamoroso dell’opinione pubblica rispetto alle alleanze internazionali dell’Italia. La “diplomazia delle mascherine” lanciata con abilità da Pechino ha lasciato il suo segno, mettendo in ombra l’importante Memorandum con cui la Casa Bianca ha sollecitato dipartimenti e agenzie del governo a varare un piano di aiuti all’Italia. Al di là della battaglia di narrative, contano i fattori strutturali. Gli italiani sbagliano se pensano che la Cina uscirà vincente da questa specie di guerra globale; se trascurano l’importanza del legame con l’America e se ritengono che potremo fare a meno della Germania.

Un ponte sul fiume Yangtze durante il lockdown cinese

 

Vediamo con ordine. La Cina ha il vantaggio di uscire per prima (salvo ondate di ritorno) dalla fase critica del lockdown. Ma ha intanto subito la contrazione più drastica del PIL da quattro decenni a questa parte, ossia dall’inizio delle riforme volute da Deng Xiaoping. E poiché la credibilità del potere cinese si basa ormai largamente sui tassi di crescita economica, questa brusca caduta non resterà senza conseguenze politiche: il contagio economico del virus mette a rischio quel “compromesso sociale” (poca libertà in cambio di molta crescita) su cui si è fondata l’intera fase post-maoista.

Non solo: la pandemia è destinata ad accentuare il declino già in atto del commercio globale. E la Cina, grande beneficiario dell’assetto precedente, ne soffrirà. La parziale “de-globalizzazione” cui andiamo incontro danneggerà i presupposti del suo modello di crescita. Le economie occidentali hanno scoperto di colpo la vulnerabilità delle catene globali del valore, anche in campo sanitario; avere allocato alla Cina (o all’India) la produzione di asset critici per la salute è diventata una questione centrale: non solo economica ma di sicurezza. Ciò significa che si accentuerà la tendenza al “re-shoring”: la rilocalizzazione in Europa e negli Stati Uniti di una parte della produzione. Nell’era post-Covid, il “precauzionismo” (secondo la definizione immaginifica di Pascal Lamy, ex direttore del WTO) si combinerà al protezionismo.

Infine, ma certo non in ultimo, la narrativa costruita da Pechino sugli aiuti sanitari non basta a cancellare le omissioni iniziali sulla diffusione del virus a Wuhan e la scarsissima trasparenza sui dati: è impossibile dimenticare che la Cina, mentre si propone come parte della soluzione, è stata in realtà all’origine del problema. Pechino come nostro migliore amico? Né i dati economici né quelli politici sorreggono una conclusione del genere: in Europa, la Cina sta giocando una sua partita opportunistica per l’influenza internazionale. Offrirle una sponda non ci conviene per niente.

Guardiamo adesso all’America, considerata da larga parte degli analisti come il paese che uscirà sconfitto dalla guerra al Coronavirus: la tesi è che gli Stati Uniti avranno il loro “momento Suez”, ossia un brusco declino a vantaggio dell’Impero di Mezzo (il precedente è il 1956, il passaggio dall’Impero britannico a quello americano). Ne siamo così sicuri?

Nessuno nega, naturalmente, le difficoltà degli Stati Uniti, con i ritardi e gli errori compiuti, con la tensione fra il governo federale e gli Stati e con la fragilità strutturale del sistema sanitario americano. La Casa Bianca, in un anno elettorale, ha dato l’impressione di essere più interessata a combattere la Cina che non il Covid-19. A differenza che in casi recenti (le campagne contro l’Aids e contro Ebola), l’America ha rinunciato (almeno per ora) a guidare una risposta globale. Che quindi non c’è stata. Tutto vero.

Ma resta il fatto che gli Stati Uniti hanno comunque vantaggi comparativi che la Cina non ha, a cominciare dalla forza del dollaro, dal dinamismo del settore privato, e dalla solidità della domanda interna, fattore chiave in epoca di “de-globalizzazione”. Il momento Suez può quindi aspettare; e si vedrà chi vincerà la prossima battaglia decisiva, quella sul vaccino. Nel frattempo, l’Italia non ha nessun interesse a pregiudicare il rapporto con il suo alleato tradizionale, ancora garante (se guardiamo ai fatti e non alle parole) della sicurezza europea.

Il confronto Usa-Cina, accentuato dalla guerra al virus, rischia naturalmente di schiacciare l’Europa. Covid-19 mette a nudo, abbastanza impietosamente, punti di forza e di debolezza dei singoli sistemi. La Germania ne esce chiaramente vincitrice in campo sanitario. Non è un buon motivo, l’invidia, per considerarla un nemico. Interesse dell’Italia è un altro: è di spingere la Germania, in accordo con la Francia, a scrollarsi di dosso i riflessi dell’egemone riluttante per consentire una vera soluzione europea.

 

 


Una versione di questo articolo è uscita su La Stampa del 23 aprile