Putin dopo Putin: una lunga transizione
Il tradizionale discorso del presidente russo, Vladimir Putin, sullo stato della Federazione (15 gennaio) si è trasformato in un passaggio di importanza non ordinaria, che alcuni quotidiani russi hanno definito nei giorni successivi la “Rivoluzione di gennaio” – addirittura nel solco delle rivoluzioni di dicembre (1825) e di ottobre (1917). Ovviamente la riduzione giornalistica è un’esagerazione, sia perché una rivoluzione mira a detronizzare l’uomo forte al potere, sia perché la scelta ha sorpreso nella tempistica, più che nella sostanza.
Infatti, la successione è una domanda che interessa e appassiona gli osservatori della Russia non solo come esercizio teorico, ma anche perché la transizione del potere nei paesi post-sovietici è un tema ancora ad alto voltaggio. È verosimile ipotizzare che anche lo stesso Putin sia preoccupato da quello che accadrà una volta che non sarà più al Cremlino, sia per sé e la cerchia di persone che gli è intorno, sia per le sorti stesse del paese. Ad eccezione delle Repubbliche baltiche, perfettamente integrate nelle istituzioni e nei meccanismi euro-atlantici, i passaggi di potere dal Caucaso all’Asia Centrale sono stati scanditi da processi tutt’altro che democratici.
L’anno zero del passaggio di poteri
Alla ripresa ufficiale dei lavori nel primo giorno dell’anno secondo il calendario giuliano, Putin ha parlato davanti a circa 1300 persone tra deputati, rappresentanti del governo, delle istituzioni e della società civile con la consueta chiarezza per illustrare la visione che ha per il futuro della Russia. Migliorare gli standard di vita, incidere con politiche attive per invertire il calo demografico e portare avanti i 12 Progetti nazionali infrastrutturali, avviati con un decreto firmato da Putin stesso nel maggio 2018, subito dopo la terza rielezione. Dopo oltre un’ora di quello che sembrava un copia-incolla di altri, simili interventi con uguali obiettivi, ad oggi non certo raggiunti, il discorso si è spostato sulle riforme costituzionali per realizzare quanto appena elencato, proposta che ha sorpreso molti analisti. Il presidente ha precisato che queste riforme andranno sottoposte al vaglio del consenso popolare, in modo da dare legittimità al processo, senza però indicare una data. È stato così messo il primo tassello per costruire la strada della transizione a una Russia senza Putin al comando.
Chiuso il discorso sullo stato della Federazione, l’accelerazione degli eventi è stata fin troppo rapida per non immaginare che i successivi passaggi fossero stati studiati e preparati da molto tempo, nonostante l’apparente sorpresa di diversi membri dell’esecutivo. Il Primo ministro, Dmitrij Medvedev, nel giro di poche ore ha rassegnato le dimissioni insieme a tutto il governo, per non essere un ostacolo nel processo di riforme.
Nel pomeriggio il responsabile dell’Agenzia federale del fisco, Mikhail Mishustin, un tecnocrate cinquatreenne fuori da ogni lista di papabili successori tranne dall’unica che conta, è stato proposto da Putin come Primo ministro per gestire questa transizione di poteri. Il giorno successivo (16 gennaio) la sua nomina è stata confermata dalla Duma, la camera bassa dell’Assemblea federale russa, con 383 deputati e 42 astenuti, per la prima volta dal 1996 senza nemmeno un voto contrario.
Un presidente depotenziato in un sistema presidenziale
Le riforme costituzionali proposte da Putin sono sostanzialmente tre. La prima prevede un rafforzamento del potere legislativo della Duma, i cui membri vengono eletti dal popolo, a differenza del Consiglio federale, o camera alta, i cui rappresentanti sono espressioni delle 85 entità federali che costituiscono la Federazione. Nella veste rinnovata sarà la maggioranza della Duma ad esprimere un esecutivo, mentre ora la Duma ratifica le scelte del Cremlino da cui è spesso bypassata. A titolo di esempio, i ministri degli esteri, Sergey Lavrov, e quello della difesa, Sergej Sojgu, sono sempre a fianco di Putin e non del Primo ministro, cui in linea teorica rispondono.
La seconda proposta prevede un limite ai mandati presidenziali, che dovranno essere non più di due in totale, invece di due consecutivi. Se l’escamotage di un passaggio al governo (2008-2012) aveva permesso a Putin di tornare al Cremlino, la riforma assicura il limite temporale, salvo imprevedibili cambiamenti futuri. Inoltre, i candidati presidenziali dovranno aver vissuto per almeno 25 anni consecutivi in Russia (mentre ora sono 10), e quindi non essere in possesso di un permesso di residenza all’estero né, tantomeno, di una seconda cittadinanza.
La terza proposta prevede il conferimento di maggiori poteri al Consiglio di Stato, un organo consultivo guidato dal presidente e istituito da Putin stesso nel 2000 per riunire intorno allo stesso tavolo i rappresentanti dei governi federali e regionali.
Il filo rosso delle riforme costituzionali quindi è chiaro: depotenziare i poteri del presidente e rafforzare quelli del parlamento, in modo da creare un sistema – per quanto peculiare e da verificare sul piano pratico – di pesi e contrappesi, che ridimensioni l’attuale curvatura super-presidenziale del sistema politico russo, costituzionalmente semi-presidenziale.
Tuttavia, come precisato dallo stesso Putin, “la Russia non può svilupparsi né esistere in modo stabile nella forma di una repubblica parlamentare”. E proprio in questa precisazione si può trovare una interessante chiave di lettura. Secondo alcuni osservatori, il Consiglio di Stato dovrebbe essere l’ago della bilancia delle possibili e forse prevedibili dispute e conflitti di attribuzione fra parlamento e presidente. Un ruolo che sembra ritagliato su misura proprio per il futuro di Putin, e de facto già svolto per le frizioni fra gruppi di potere, ma che sarebbe così, “istituzionalizzato”, rafforzato e formalizzato nella costituzione. Di questo si occuperà un gruppo di lavoro che si è riunito il 16 gennaio con Putin e dovrebbe consegnare le proposte entro marzo, in modo da sottoporle al voto popolare entro maggio.
La transizione del potere putiniano nel contesto internazionale
La figura di Vladimir Putin ha caratterizzato gli ultimi 20 anni della politica russa. Prima di essere confermato da elezioni anticipate a capo del Cremlino nel 2000, l’ex agente del KGB era stato chiamato da San Pietroburgo, dove era vice-sindaco, a Mosca per occuparsi prima dei servizi segreti (1998) e poi del governo (1999). A nominarlo fu Boris Eltsin, la cui difficile rielezione (1996) pose per la prima volta anche la questione legata alla successione in un paese vulnerabile, allora in pieno caos post-sovietico e da poco abituato allo strumento elettorale come regola democratica per esprimere i propri rappresentanti. Garantire una successione sicura per Eltsin e la sua cerchia era la priorità dell’élite allora al potere. Nel passaggio di consegne venne chiesto questo a Putin, insieme alla stabilizzazione del paese, attraversato da forze centrifughe e da una versione di capitalismo che accresceva il divario fra pochi ricchi e molti poveri.
Putin ha tenuto fede agli accordi, ha saputo anche consolidare il potere interno e, aiutato da condizioni economiche favorevoli, è stato in grado di portare anche una prosperità più diffusa. Quando nel 2008, al termine dei due mandati consecutivi, ha passato il testimone a Medvedev, la Russia era un paese solido, integrato e rispettato nella comunità internazionale. L’interregno di Medvedev al Cremlino è stato però caratterizzato da diverse turbolenze: dalla guerra con la Georgia all’intervento occidentale in Libia, cui Medvedev non si oppose alle Nazioni Unite nonostante il parere contrario di Putin, dalle proteste di piazza nel 2011-2012 al “reset” promesso e mai avviato delle relazioni con gli Stati Uniti d’America, sono diversi gli episodi che, presumibilmente, hanno preoccupato Putin.
Tornato al Cremlino per altri due mandati consecutivi, il secondo dei quali è iniziato nel 2018, il quadro economico e quello internazionali sono notevolmente cambiati, a partire da un inasprimento delle relazioni con i vicini, i partner europei e gli americani, fino a un rinnovato impegno militare in Siria e nel Mediterraneo.
L’accelerazione sulle riforme costituzionali di pochi giorni fa è figlia di questo contesto. Da un lato il panorama interno, con la necessità di assicurarsi una transizione pacifica al potere, portare avanti lo sviluppo economico e sociale del paese nel modo meno traumatico possibile, e realizzare i progetti infrastrutturali. Dall’altro l’obiettivo di creare le condizioni migliori per tenere il paese unito in una fase accelerata della storia, durante una curvatura delle relazioni internazionali che vede l’affermarsi di paesi post-imperiali (Cina, Turchia, Iran, e appunto Russia), con le mani libere di poter agire e intervenire dove e quando ritengono necessario, a differenza di quanto accade per i paesi democratici.
Più che la sostanza delle riforme, ha sorpreso la tempistica. L’auspicio è che le riforme vengano realizzate nel modo più indolore e democratico possibile per garantire una Russia stabile, unita e prospera.