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Un consumo consapevole per creare un mondo migliore

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La maggior parte di noi consuma senza pensare a come le nostre scelte possano condizionare la nostra salute, le nostre risorse, il nostro ambiente e il pianeta.

Cosa mangiamo e beviamo, come ci vestiamo e gli altri beni che consumiamo risentono dell’influenza dei nostri genitori e amici, del nostro livello di reddito e dell’inevitabile e costante esposizione alla pubblicità da parte di aziende che puntano al profitto. Nel complesso, possiamo dire che le nostre scelte di consumo sono dettate in gran parte dall’abitudine, dall’esperienza e dai condizionamenti sociali. Siamo poco o nulla consapevoli delle nostre scelte e della loro influenza su di noi, sulla nostra cerchia di conoscenze, sulla nostra comunità e sul pianeta.

 

LESS IS BETTER THAN MORE. In gran parte del mondo, la gente è già contenta quando riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Purtroppo, la povertà è la condizione in cui versa il grosso dell’umanità in questo primo scorcio di XXI secolo. Solo due miliardi di persone sui sette che affollano il pianeta possono permettersi il lusso di scegliere cosa consumare: si tratta dei lavoratori salariati, della classe media e dei ricchi.

Sono loro che hanno i mezzi per fare acquisti nei negozi, scegliere cosa bere e mangiare, e occasionalmente consumare pasti fuori casa, al ristorante. Nei paesi ricchi la gente tende a mangiare più del necessario: si consumano cibi con troppi grassi, zuccheri e sale e sovente si ingrassa, dopodiché si prova dieta dopo dieta nel perenne tentativo di apparire magri. Molti problemi di salute scaturiscono dall’eccesso di carne e carboidrati, che può causare problemi cardiocircolatori, malattie del fegato e disfunzioni renali.

 

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Negli anni Settanta sorse un movimento fondato sull’idea che less is more, o addirittura che less is better than more. Fu promosso da un cittadino britannico di origine tedesca, Ernst Friedrich Schumacher, con il suo libro del 1973 dal titolo Piccolo è bello – Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa. La crisi petrolifera di quell’anno e l’incipiente globalizzazione concorsero alla fortuna del libro, il quale metteva in discussione l’assioma “bigger is better” che era alla base del modello consumistico. Schumacher temeva che le risorse naturali, a partire dai combustibili fossili, fossero destinate a ridursi e che l’inquinamento peggiorasse, con il risultato di rendere insostenibile l’economia. Lo Stato, secondo lui, doveva fare leva sull’industria pubblica più che sul capitale privato, in modo da promuovere l’efficienza tecnologica. Inoltre, perorava un sistema di governo più democratico e umano per raggiungere la sostenibilità.

Nello stesso periodo crebbe l’idea di un “consumatore socialmente responsabile”: questo il titolo di un articolo apparso nel 1972 sul Journal of Marketing a firma di W.T. Anderson e W.H. Cunningham, nel quale il consumatore in questione era descritto come “un giovane adulto con uno status socioeconomico e una posizione lavorativa relativamente alti. Di norma è più cosmopolita, meno dogmatico, meno conservatore, meno ossessionato dallo status, meno alienato della sua controparte socialmente meno impegnata”. L’articolo si chiedeva se questi consumatori socialmente responsabili fossero destinati a divenire degli attivisti e a intaccare la logica del profitto aziendale, nella misura in cui – secondo gli autori – profitto e responsabilità sociale erano incompatibili. Le aziende che avessero ignorato questa nuova realtà ne sarebbero state danneggiate?

Un supermercato americano negli anni ’70

 

IL CONSUMO RESPONSABILE, UNA SCELTA DI VITA. Nel 1975 Fred Webster pubblicò sul Journal of Consumer Research un articolo che indagava più a fondo la personalità, le inclinazioni e lo status socioeconomico del consumatore socialmente responsabile. Questi è “un consumatore che valuta le conseguenze pubbliche delle sue scelte di consumo privato o che tenta di usare il proprio potere d’acquisto per innescare il cambiamento sociale”. Tale individuo può essere dunque il motore di un cambiamento se decide di compiere azioni di boicottaggio: scartando o preferendo alcuni prodotti ad altri, anche se costano di più a parità di funzione e caratteristiche. Questo consumatore eviterà i vuoti a perdere, i detersivi con alte percentuali di fosfati, le lattine di alluminio, l’eccessivo uso di buste di carta o plastica nei supermercati. Il concetto di consapevolezza sociale tende così a confluire in quello di ecosostenibilità. Resta però da capire quale sovrapprezzo queste persone siano disposte a pagare per prodotti ecologicamente e socialmente sostenibili.

Tra il 2003 e il 2005, due gruppi di Boston si unirono a formare un piccolo movimento denominato Consumo Responsabile. Nei loro incontri veniva affrontato un ampio ventaglio di argomenti, dall’impatto ambientale dei consumi all’influenza dei media e della pubblicità. Nel tempo il movimento si è ampliato. Molti membri si sono convertiti a uno stile di vita frugale e a un consumo più consapevole, che risponde a una serie di domande: questo dato prodotto è in linea con i miei valori? È fatto per durare? Quali materiali sono stati usati per produrlo? I lavoratori che lo fabbricano sono pagati il giusto? Comprandolo, sostengo aziende locali e indipendenti o multinazionali?

Il seguente diagramma illustra in modo chiaro la sfida che questi consumatori si trovano ad affrontare.

 

Il grafico mostra che cosa succede ad alti livelli di consumo, oltre i quali si varca la soglia tra benessere e ricchezza e si accede ai beni di lusso, ai capricci. Un consumatore responsabile può fermarsi al livello del benessere e sentirsi appagato.

Molti consumatori responsabili prediligono uno stile di vita semplice, i vestiti non firmati, il cibo salutare, la mancanza di fronzoli, la frugalità, lo sviluppo a basso impatto ambientale e rifuggono gli inutili eccessi di tecnologia. Sono consapevoli della loro impronta ecologica e guidano macchine piccole o biciclette, sostengono le cause “verdi”, si preoccupano del riscaldamento globale, favoriscono la decrescita, cercano di bilanciare vita e lavoro. Consultano l’Happy Planet Index che misura il benessere sostenibile, classificando i paesi in base alla felicità dei loro abitanti, alla loro aspettativa di vita, al livello di diseguaglianze economiche e alle emissioni pro capite. In questo indice il Costa Rica è primo, la Norvegia dodicesima, la Spagna quindicesima e gli Stati Uniti si trovano molto in basso.

 

CRITICA DEL CONSUMO IRRESPONSABILE. Sono quattro le principali critiche al modello di consumo irresponsabile.

La prima è che questi consumatori hanno maggiori probabilità di danneggiare la propria salute. Assumono cibi e bevande ricchi di zucchero, sale e grassi che finiscono per creare patologie; mangiano troppo e prendono peso, aggravando ulteriormente i suddetti problemi; copiano le cattive abitudini di altre persone che hanno altrettante probabilità di ammalarsi.

La seconda è che queste errate scelte alimentari pregiudicano disponibilità e composizione delle risorse naturali e il nostro equilibrio con la natura. Consumare più manzo comporta allevare più mucche, che necessitano di più pascoli e generano più metano, potente gas serra che accentua il riscaldamento globale. Senza contare che questi animali sono destinati a una fine violenta, dolorosa e squallidamente industriale.

La terza critica verte sul fatto che il nostro modo di mangiare e di vestirci minaccia di depauperare le risorse non rinnovabili della Terra. Coltivare riso o produrre Coca Cola richiede enormi quantità d’acqua, la cui crescente scarsità in diverse parti del mondo limita la resa agricola dei terreni e configura il rischio di carestie su vasta scala.

Da ultimo, certe pratiche commerciali spingono i consumatori a comprare più di quanto razionalmente necessitino. L’industria della moda ci porta a riempire i nostri armadi con molte più scarpe e vestiti di quelli che usiamo, sicché i nostri guardaroba sono pieni di abiti in ottimo stato ma fuori moda. Durante la seconda guerra mondiale, l’America coniò lo slogan “usalo fino alla fine, indossalo il più possibile, fallo rendere al massimo o fanne senza” per impedire all’industria della moda di sottrarre preziosi tessuti alla fabbricazione di uniformi. All’azienda Patagonia va il merito di sensibilizzare sulla necessità di usare i vestiti che già abbiamo o quantomeno di donarli a chi ne ha bisogno.

Cosa si può fare per diffondere un consumo consapevole? I consumatori socialmente responsabili possono dar vita a varie iniziative per sostenere la loro causa. La prima è sviluppare e pubblicizzare maggiormente le ricerche che evidenziano gli effetti negativi del consumo irresponsabile sulla salute individuale e pubblica, nonché la crescente scarsità di risorse non rinnovabili. La speranza è vedere più informazione accurata e persuasiva su tv, radio, giornali, riviste e internet, che ci ricordi i benefici di un consumo più attento e le conseguenze del modello attuale.

La seconda linea d’azione passa per massicce campagne informative rivolte ai genitori, affinché crescano i loro figli educandoli al consumo responsabile.

La terza iniziativa ha come teatro la scuola pubblica, dove i professori di materie scientifiche dovrebbero insegnare i principi della nutrizione e del consumo responsabile, mentre bar e mense dovrebbero offrire una scelta di alimenti salutari. Gli studenti potrebbero poi studiare le catene di approvvigionamento che trasformano le risorse in prodotti: Wikichain sta cercando finanziamenti per trasformarsi in piattaforma che raccoglie informazioni da utenti in giro per il mondo sulle catene di approvvigionamento delle aziende. Anche il ruolo e il potere dell’industria pubblicitaria nel plasmare e orientare le nostre scelte di consumo potrebbero essere oggetto d’insegnamento.

La quarta iniziativa consiste nel formare più medici e nutrizionisti, le cui raccomandazioni ai pazienti sono un potente strumento d’influenza.

Un’ulteriore strategia consiste nell’aumentare e diffondere i programmi e le app per dispositivi fissi e mobili che consentano di monitorare il contenuto di calorie, sale, zuccheri e grassi degli alimenti più comuni, gli additivi da evitare nel cibo industriale, il pesce più salutare da mangiare e via dicendo. I consumatori consapevoli potrebbero così capire con poco sforzo cosa comprare e cosa no. Man mano che i consumatori divengono più organizzati, l’industria sarà costretta a prepararsi a un futuro dove l’informazione è più diffusa e democraticamente accessibile.

Infine, le aziende (soprattutto quelle alimentari) vanno incoraggiate ad agire in modo etico e responsabile, a condividere maggiori informazioni sulle loro catene di approvvigionamento, sulla preparazione dei loro prodotti e sulla scelta degli ingredienti. La trasparenza deve trasformarsi in un mezzo per conquistare e fidelizzare i clienti, evitando rivelazioni imbarazzanti e dannose.

Alimentari imballati in plastica

 

Malgrado le molte buone ragioni a favore di un consumo più responsabile, questo resta una pratica limitata. Si parla tanto di sostenibilità ecologica e sociale, ma in concreto si fa poco. Perché? Perché viviamo in un mondo consumistico che ci seduce con i beni materiali, anche e soprattutto superflui. Siamo troppo distratti dalle nostre vite frenetiche per pensare a cosa consumiamo o per valutare l’impatto di tali scelte sulle risorse naturali, sul pianeta e sul nostro stesso futuro. Siamo bombardati di pubblicità e vogliamo che le nostre aziende abbiano successo, a prescindere dal campo in cui operano. Essere anticonsumistici appare a molti sovversivo. Non sorprende dunque che il grosso delle persone consumi in modo inconsapevole.

 

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Eppure, si osserva un crescente interesse per il consumo responsabile in vari ambiti e comunità. Abbiamo elencato svariate iniziative che illustrano una nuova consapevolezza e un diverso modo di agire circa l’impatto delle scelte di consumo sulle nostre vite e sulle risorse del pianeta. Chi già si preoccupa di questi temi va incoraggiato a condividere le proprie idee e scelte con altri; alcuni passeranno all’azione politica e a forme di boicottaggio per spostare l’ago della bilancia.

L’organizzazione Agreeable & Co. si dedica a promuovere il consumo consapevole, cercando e rintracciando su internet rivenditori di vario tipo che abbracciano tale filosofia. Questi esercizi commerciali ricordano al consumatore che ogni qualvolta spende dei soldi, esprime un voto a favore del mondo che vuole. Essi scelgono uno a uno prodotti e marchi che adottano pratiche e standard responsabili; vendono sciarpe e borse fatte a mano dal commercio equo e solidale, vestiario ecosostenibile e bottiglie ecocompatibili; propongono kit di prodotti d’uso comune di prima qualità, fabbricati da aziende selezionate; invitano i consumatori più motivati a segnalare articoli e marchi che meritano.

 

L’ECONOMIA CIRCOLARE E LE TRE R. Nel 1776, quando Adam Smith pubblicò La ricchezza delle nazioni, la Terra sosteneva meno di un miliardo di persone. Quella visione del capitalismo va profondamente rivista alla luce della popolazione attuale, che conta sette miliardi di individui. Entro il 2050 il nostro pianeta avrà bisogno di un sistema economico in grado di dar da mangiare a nove miliardi di persone.

Come prima accennato, solo due degli attuali sette miliardi di esseri umani hanno un tenore di vita da classe media o superiore. Gli abitanti dei paesi in via di sviluppo guardano con invidia a quel benessere e mirano a conquistarlo. Un crescente numero di persone prova a lasciare il paese d’origine, povero o pericoloso, tentando la via dell’emigrazione in Europa occidentale e negli Stati Uniti. Alcuni ce la fanno, ma le probabilità che la maggior parte di essi raggiunga un benessere da classe media sono esigue. Si stima che ci vorrebbe l’equivalente di cinque Terre per sostenere in un simile tenore di vita la totalità della popolazione mondiale. In questo contesto, la maggior parte delle aziende persegue un duplice obiettivo: incrementare il volume delle vendite e i margini di profitto. È così che si intende soddisfare il crescente bisogno di consumi di una popolazione in aumento.

Così stando le cose, abbiamo un grosso problema. Il nostro pianeta ha risorse finite, che sono chiaramente insufficienti a soddisfare bisogni e desideri di una popolazione in crescita. Paesi e aziende devono pertanto abbandonare l’idea di perseguire a tutti i costi un’economia della crescita. Gli ambientalisti propongono di sostituire a tale modello quello di economia circolare, costruito sulle cosiddette “tre R”: ridurre, riutilizzare e riciclare. I cittadini responsabili dovrebbero 1) ridurre i loro livelli di consumo, 2) riutilizzare gli oggetti il più possibile invece di scartarli e 3) riciclare tutto il riciclabile. Lo scopo è costruire un circuito chiuso che riduca al minimo l’apporto di risorse vergini. Non è affatto detto che ciò basti ad affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico, ma sarebbe già un enorme passo avanti.

La prima difficoltà in tal senso consiste nel convincere le persone a ridurre i consumi. Davvero abbiamo bisogno di tutti quei vestiti, che finiscono in gran parte inutilizzati nei nostri armadi strapieni? L’industria della moda ha veramente bisogno di perseguire l’obsolescenza programmata, in modo da spingere la gente ad acquistare capi all’ultima moda? Servono proprio tutte queste marche di cosmetici o di cereali? È giusto e opportuno autorizzare la costruzione di mega ville e appartamenti, quando così tante persone si affollano in case povere e anguste?

 

IL GREEN NEW DEAL. Lo scorso febbraio la deputata di New York Alexandria Ocasio-Cortez ha introdotto alla Camera dei rappresentanti il progetto di New Deal verde, mentre il senatore Ed Markey del Massachusetts presentava una risoluzione gemella in Senato. Si tratta di una visione ad ampio raggio di come gli Stati Uniti dovrebbero affrontare il problema del cambiamento climatico e della limitazione delle risorse nel prossimo decennio, creando al contempo lavori ben pagati e proteggendo le comunità vulnerabili.

Ocasio-Cortez e MArkey presentano il Green New Deal a Washington

 

Il New Deal verde elenca sette obiettivi: rendere ogni edificio energeticamente efficiente; sviluppare l’economia delle energie pulite; assicurare una transizione equa e ragionevole; sancire l’accesso ad aria e acqua pulite e al cibo sano come un diritto umano; rendere sostenibile il settore dei trasporti; ridurre le emissioni di gas serra; e generare il 100% dell’energia da fonti rinnovabili.

L’obiettivo primario riguardo al cambiamento climatico è raggiungere in dieci anni un bilancio carbonico neutro, cioè azzerare le emissioni nette (la differenza tra emissioni e sistemi di assorbimento/riduzione delle stesse). Un obiettivo leggermente meno ambizioso rispetto a quello delle zero emissioni tout court, pur tuttavia non facile e certamente più realistico.

Per ottenerlo occorre operare profondi cambiamenti in quattro aree: generazione elettrica, trasporti, agricoltura e sicurezza economica.

Quanto alla produzione di elettricità, l’obiettivo è “soddisfare la totalità della domanda elettrica statunitense mediante fonti pulite, rinnovabili e a zero emissioni”. L’EPA (Environmental Protection Agency, l’agenzia ambientale americana) stima che la generazione elettrica produca circa il 28% delle emissioni di gas serra degli Stati Uniti.

Analoga incidenza hanno i trasporti. Affinché le emissioni nazionali siano annullate in dieci anni, occorre dunque “rivoluzionare il sistema statunitense dei trasporti al fine di eliminare inquinamento e gas serra dal settore per quanto possibile con le attuali tecnologie. A tal fine, bisogna tra l’altro investire in veicoli, infrastrutture e processi produttivi a zero emissioni; trasporto pubblico pulito, economico e accessibile; alta velocità ferroviaria”.

L’agricoltura concorre per circa il 9% alle emissioni statunitensi, ivi compreso il rilascio di monossido di diazoto dal suolo e metano dal bestiame. Il New Deal verde prevede di “collaborare con gli agricoltori e gli allevatori degli Stati Uniti al fine di rimuovere inquinamento e gas serra dai loro settori per quanto reso possibile dalle attuali tecnologie. Ciò implica sostenere le aziende agricole familiari, investire nell’allevamento sostenibile e nelle pratiche che accrescono la salute del suolo, costruire un sistema agroalimentare più sostenibile in grado di assicurare un accesso universale al cibo sano”.

Quanto alla sicurezza economica, un obiettivo chiave del New Deal verde è “creare milioni di posti di lavoro decorosi e ad alta remunerazione, assicurando prosperità e sicurezza economica a tutti gli abitanti degli Stati Uniti”. Si tratta di garantire “salari che permettano di sostenere una famiglia, adeguati congedi per malattia e maternità, ferie retribuite e schemi pensionistici a tutti gli americani”.

 

FERMARE LA GUERRA DEL SISTEMA ALL’AMBIENTE. Il New Deal verde è un insieme di proposte, non di leggi e normative su cui votare. È un invito ai due maggiori partiti statunitensi, democratico e repubblicano, a discutere questi obiettivi e delineare politiche volte ad affrontare il problema della limitatezza delle risorse e della crisi climatica. Esso non indica nello specifico i provvedimenti necessari a raggiungere gli scopi prefissi, né i costi connessi e i meccanismi di finanziamento.

In definitiva si tratta di un appello ad aziende, cittadini e comunità affinché cambino comportamento nel loro stesso interesse: quello di avere un’aria, un’acqua e una terra migliori, nonché ridurre l’impatto di tornado, uragani, inondazioni e altri eventi naturali estremi indotti o accentuati dal cambiamento climatico.