international analysis and commentary

Non ci sono pasti gratis, nemmeno in Natura

20,599

Crediamo di vivere nel migliore dei mondi possibili. Negli ultimi settant’anni, il benessere è aumentato come mai prima nella storia dell’umanità: il PIL mondiale è aumentato di 15 volte, il PIL pro-capite di 5 volte (nonostante la popolazione sia triplicata, da 2,5 a 7,9 miliardi di persone), l’aspettativa di vita è passata da 46 a 73 anni. Ma questa convinzione è in parte illusoria, perché stiamo facendo male i conti: in realtà, ci stiamo mangiando il capitale, quello naturale, cioè Madre Natura.

Questa è stata la prima affermazione di Sir Partha Dasgupta, professore emerito di economia a Cambridge, nel suo intervento alla conferenza di The Adam Smith Society, “Non ci sono pasti gratis (nemmeno in Natura)”, il 30 giugno 2021. Sullo spunto della recente pubblicazione del Dasgupta Review (HM Treasury, febbraio 2021), il webinar ha raccolto le opinioni di illustri accademici e di grandi aziende sull’economia della bio-diversità.

Elefanti in India

 

Perché abbiamo sbagliato i conti e come è potuto avvenire?

I modelli macroeconomici di crescita e sviluppo degli ultimi settant’anni hanno escluso la Natura dal ragionamento economico formale. Abbiamo puntato tutto sull’accumulazione del capitale prodotto (infrastrutture, mezzi di produzione) e del capitale umano (educazione, salute). Ci siamo dimenticati che le nostre economie sono incorporate nella biosfera, che è un bene durevole, che si può ricostituire, ma che è limitato in quantità. Se ignorare il capitale naturale aveva un senso nel secondo dopoguerra, a metà del XX secolo – quando le priorità erano la ricostruzione e la crescita oppure l’uscita dalla povertà – farlo ora è un profondo errore, perché le nostre richieste di beni e servizi della Natura hanno ormai da alcuni decenni superato la sua capacità di generarli su base sostenibile. Ricordiamoci che la Natura non ci offre solo la regolazione del clima, ma anche un numero enorme di altri servizi, come, per esempio: la fissazione dell’azoto, la decomposizione dei rifiuti, l’impollinazione, la depurazione dell’acqua.

Il rapporto tra domanda e offerta sostenibile di beni e servizi naturali è stimato in 1,6:1, proponendo la suggestiva immagine che abbiamo bisogno di 1,6 Terre per soddisfare la nostra domanda attuale.

Inoltre, poiché la differenza tra domanda e offerta sostenibile di servizi è soddisfatta da una diminuzione dello stock di capitale naturale, questo divario va aumentando, minacciando la vita futura dei nostri discendenti.

Perché collettivamente non riusciamo a gestire in modo efficiente il nostro portafoglio globale di capitali? Perché abbiamo bisogno di 1,6 Terre (situazione ovviamente non sostenibile)?

Una ragione centrale è che il valore della Natura per la società non si riflette nei prezzi di mercato, perché essa è mobile, silenziosa e invisibile. Non è facile assegnare le conseguenze – talvolta deleterie – delle attività umane sulla Natura a chi le causa: quindi, i mercati faticano a captare i relativi segnali.

Ma c’è anche un fallimento istituzionale più ampio. L’alto mare e l’atmosfera, ad esempio, sono beni pubblici globali: ne beneficiano tutti, ma nessuno ne paga l’uso (il classico problema dei “global commons”). Peggio ancora: i governi sovvenzionano l’uso della Natura, nella misura di circa 4-6 trilioni di dollari all’anno. In effetti, paghiamo noi stessi per dissipare, piuttosto che per proteggere, la nostra casa.

 

Per correggere questo squilibrio, sono necessarie tre ampie transizioni

  1. Dobbiamo affrontare subito lo squilibrio tra le nostre richieste alla Natura e la sua offerta. Non possiamo più accontentarci di cambiamenti marginali, dobbiamo agire radicalmente. Questo significa sia fissare obiettivi globali ambiziosi per la conservazione e il recupero del capitale naturale sia investire di più per aumentare la quantità e la qualità delle nostre scorte. Significa anche ridurre le nostre richieste alla Natura, ristrutturando il nostro modello di consumo e produzione. E per comprenderlo meglio, sarebbe utile l’obbligo per le imprese di descrivere l’intera catena di approvvigionamento, dalla fonte alla discarica.
  2. Dobbiamo cambiare il nostro modo di misurare il successo economico. Il padre fondatore dell’economia, Adam Smith, ha scritto nel 1776 della Ricchezza delle Nazioni – non del PIL delle Nazioni. Sebbene il PIL sia indispensabile nell’analisi macroeconomica di breve periodo, non tiene conto dell’esaurimento del capitale e quindi è del tutto inadatto ad indicare la via per lo sviluppo sostenibile. Sia i governi che le imprese devono riordinare la propria contabilità per includere il capitale naturale.
  3. Dobbiamo trasformare le nostre istituzioni, in particolare i nostri sistemi finanziari ed educativi, per consentire che questi cambiamenti abbiano luogo su scala globale. È necessario molto più sostegno per migliorare la consapevolezza, tra le imprese e le istituzioni finanziarie, dell’impatto delle loro assuefazioni e del rischio associato al degrado della Natura. Tuttavia, non ci si può aspettare che le sole istituzioni eliminino tutti gli impatti negativi che le nostre attività hanno sulla Natura. Le persone devono essere abilitate non solo a richiedere i necessari cambiamenti alla domanda di beni e servizi naturali, ma anche a prendere decisioni informate sul proprio impatto individuale sull’ambiente naturale. Ciò può accadere mettendo in grado le persone – soprattutto attraverso la politica educativa – di comprendere e apprezzare il funzionamento del mondo naturale.

Se vi fosse un sistema di prezzi collegato ai beni e servizi naturali, la loro crescente scarsità avrebbe causato un aumento di prezzi e, quindi, un uso più razionale delle risorse. Ma la Natura non ha prezzo: ecco perché abbiamo bisogno di un’azione collettiva su questo.

Infine, abbiamo bisogno di un’istituzione – simile alla Banca mondiale, al FMI – in grado di gestire, monitorare e riscuotere la rendita per l’uso delle risorse ad accesso aperto come l’alto mare, gli oceani e l’atmosfera – per evitare la tragedia dei beni comuni di cui abbiamo letto nella teoria dei giochi.

La riscossione della rendita – non sarebbe una tassa, ma il giusto prezzo per ciò che usiamo – ammonterebbe a trilioni di dollari ogni anno e potrebbe essere usata per pagare i Paesi che ospitano alti livelli di biodiversità, come le foreste pluviali. Anche queste sono un bene pubblico naturale, ma sono limitate dai confini nazionali. E dobbiamo essere in grado di pagarne l’uso, in modo che i Paesi che le ospitano siano incoraggiati a non distruggerle, come stanno facendo attualmente. Sfortunatamente, ha concluso Sir Partha, questo ruolo delle istituzioni internazionali non è all’ordine del giorno né del COP 26 né del COP 15.

Una miniera di diamanti in Botswana

 

Il valore nascosto della Natura

Per Edoardo Croci – Coordinatore dell’Osservatorio Green Economy, GREEN, Università Bocconi – una crescita che non considera il valore nascosto della natura non è sostenibile. Il Dasgupta Review esce in un momento di maggiore consapevolezza tra i cittadini del mondo, perché molte ricerche hanno mostrato che siamo vicini a raggiungere i limiti planetari ad una crescita non sostenibile. Il rapporto indica la strada per cambiare l’attuale paradigma produttivo: una sorta di governance internazionale della Natura. Inoltre, occorre che questi concetti arrivino nelle scelte politiche quotidiane e nella gestione delle grandi aziende, cambiando il loro atteggiamento verso la biosfera.

Per la prima volta nella storia, l’uomo ha la capacità di modificare l’atmosfera e la superficie del pianeta e questo cambia completamente il quadro di riferimento per gli economisti, ha affermato Aldo Ravazzi Douvan – professore all’Università Roma 2, già Presidente del Comitato OCSE per la biodiversità ed ecosistemi.

Abbiamo appreso un nuovo paradigma: il sistema economico è all’interno di un sistema più grande – la biosfera. Possiamo sempre massimizzare il benessere economico, ma abbiamo dei limiti che dobbiamo rispettare.

Di conseguenza, il problema della misurazione – la contabilità ambientale – è una delle grandi sfide che abbiamo davanti. Dobbiamo trovare il modo per integrare il reporting tradizionale e i processi decisionali con informazioni sul capitale naturale e la biodiversità – i meccanismi di mercato risolvono molti problemi, ma non tutti. Il capitale naturale fornisce risorse al capitale prodotto, ma ciò è ignorato o dimenticato nelle rappresentazioni formali.

Un modo per integrare le esternalità – ambientali e naturali – nel sistema economico è con il sistema fiscale, per esempio con prelievi a chi inquina, anche per introdurre un sistema di prezzi per incoraggiare e orientare gli operatori economici nella giusta direzione.

Come ha sottolineato Alessandro De Nicola, Presidente di The Adam Smith Society, il tema da discutere è cosa le aziende possono fare rimanendo fedeli alla loro missione di creare valore per gli azionisti, allo stesso tempo tenendo in conto la sostenibilità ambientale di lungo periodo. È un esercizio difficile, ma le due cose si possono coniugare e le aziende grandi sono meglio posizionate per farlo.

Gli operatori energetici hanno ormai perfettamente integrato nei loro processi strategici e decisionali il profilo dello sviluppo sostenibile, ha affermato Barbara Terenghi – Chief Sustainability Officer di Edison. Ora si tratta di fare un passo in più, in logica proattiva di attenzione agli ecosistemi. Edison sta già ragionando su come incorporare i benefici ecosistemici all’interno delle valutazioni d’investimento aziendali.

Per Fabrizio Iaccarino – Responsabile Sostenibilità e Affari Istituzionali Italia – ENEL ha dimostrato nella pratica che l’adozione concreta (trasversale a tutto il business) di un modello di sviluppo sostenibile rende anche una grande azienda più resiliente e più profittevole.

Il piano industriale di gruppo, oltre a obiettivi di diversificazione geografica, ha obiettivi di sviluppo sostenibile: lotta ai cambiamenti climatici, chiusura delle centrali a carbone, investimento in rinnovabili, in sistemi di accumulo di energia, uso di impianti a gas dove necessario; ma anche investimenti in digitalizzazione attorno al cliente, per abilitare il cambiamento attraverso l’uso delle reti.

Vi sono due elementi fondamentali per applicare la sostenibilità. La cultura aziendale, per vivere veramente questo valore; le metriche, ovvero le misurazioni scientifiche, utilizzate anche nella prospettiva dell’economia circolare, affinché vi sia un reale cambiamento. ENEL sta sostituendo 50 milioni di contatori elettronici nel mondo e misurerà il recupero dei materiali dismessi.

In sintesi, ENEL promuove il ruolo dell’esempio pratico – “walk the talk” – e, per fare veramente le cose, le misura.

“Perché la plastica – soprattutto il packaging – inquina l’ambiente?” si è chiesto Eugenio Longo – Head of Sustainability & EU Affairs di Borealis. Generalmente, la plastica usata non viene raccolta (eccetto per le bottiglie di PET), perché non ha alcun valore commerciale, nemmeno per le persone più povere della Terra. Così come la CO2 finisce nell’atmosfera, la plastica finisce nell’ambiente.

Il triangolo vincente

Per risolvere il problema occorre applicare un triangolo vincente: (i) politiche di raccolta e recupero globali – se non ci fossero tali politiche, non avremmo gli alti tassi di riciclo che abbiamo in Europa. Ma è anche vero che, se avessimo quote obbligatorie di prodotto riciclato nei prodotti che mettiamo in commercio, allora gli scarti avrebbero un valore e verrebbero raccolti con maggiore facilità; (ii) strumenti finanziari, per compensare la mancanza di valore di certi oggetti. Se, coerentemente con il principio della responsabilità estesa (anche alla fase post-consumo) del produttore, vi fosse un meccanismo finanziario per compensare la differenza di costo tra produrre con o senza contenuto riciclato, si pagherebbe il costo della raccolta della plastica, una volta che il prodotto è diventato rifiuto; (iii) andare oltre la funzionalità dell’oggetto. Fino a quando i consumatori daranno un valore solamente alla funzionalità, la sostenibilità non decollerà mai. La funzionalità ha ucciso la circolarità: quando il packaging era scomodo, di metallo, gli scarti erano raccolti e recuperati, perché contenevano abbastanza valore.

In altri termini, gli individui devono riconoscere un valore alla sostenibilità oppure sarà difficile risolvere il problema della circolarità. Non solo: la situazione peggiorerà, perché la gente non capirà perché il prodotto di consumo è rincarato e le politiche creeranno una resistenza nella società.

Resta un tema centrale che andrebbe trattato con maggiore attenzione e soprattutto con vera urgenza: i temibili “punti di non ritorno” dell’equilibrio naturale. Quanto sono distanti e faremo a tempo a ripristinare il passato equilibrio, prima che la Natura ne crei uno nuovo?