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Dal materiale all’immateriale

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Siamo a Capodanno: le bottiglie vuote sono finite nella raccolta differenziata, i regali di Natale sono stati messi via, e per molti di noi uno dei buoni propositi per l’anno nuovo è probabilmente quello di fare i conti con tutti gli oggetti che abbiamo accumulato. Secondo molti opinionisti ed esperti di previsioni siamo entrati in una nuova epoca, in cui le persone preferiscono condividere piuttosto che possedere, e privilegiano il vivere un’esperienza rispetto all’essere proprietari di qualcosa. I commercianti si preoccupano che i mercati abbiano raggiunto il punto di saturazione. La gente, a quanto si dice, non è più innamorata dei beni materiali. Ma quanto c’è di vero?

 

STIAMO DAVVERO ANDANDO VERSO LA SHARING ECONOMY? In effetti, esistono alcuni segnali di conferma in quella direzione. Il primo Repair Café ha aperto i battenti ad Amsterdam nel 2009. Da allora, un mi- gliaio di posti simili sono nati in tutta l’Europa e nel Nordamerica, offrendo la possibilità di condividere attrezzi, materiali e conoscenze tecniche.

Tuttavia, il grosso della cosiddetta sharing economy segue un modello diverso. A Capodanno, oltre mezzo milione di persone nel mondo ha alloggiato in un Airbnb. Questo fenomeno, però, non riguarda affatto la condivisione, bensì la locazione e il profitto. E fa crescere il consumo di risorse, anziché ridurlo. Gli alberghi incassano meno, mentre i proprietari di Airbnb guadagnano di più e poi spendono quelle somme per qualche vacanza extra. I clienti, dal canto loro, risparmiano sull’alloggio e quindi si concedono più frequentemente brevi soggiorni in posti come Firenze o Barcellona. Parallelamente, il numero complessivo di individui che posseggono una seconda casa (e quindi una seconda serie di elettrodomestici) continua ad aumentare costantemente.

Vedere in giro auto in car-sharing è diventato qualcosa di abituale. Ma guardiamo la cosa in modo più attento. Nel Regno Unito, la compagnia Zipcar aveva nel 2017 un parco di 1.500 automobili. Tuttavia, nel i cittadini britannici hanno comprato negli ultimi anni più nuove vetture di quante ne abbiano mai comprate in passato. È certamente possibile che oggi i giovani siano davvero meno interessati a comprare auto, ma potrebbe trattarsi solo di una dilazione: i costi per alloggi e tasse universitarie sono aumentati, e questo può significare che si compra un’auto a 30 anni, anziché a 20.

La condivisione non è qualcosa di totalmente nuovo. Le società moderne l’hanno praticata a lungo – dalle cooperative ai bagni pubblici o ai campi sportivi comunali. E mentre la vediamo in crescita in alcuni settori, viene però drasticamente ridotta in altri, come nel caso delle biblioteche pubbliche.

Anche il discorso del passaggio da “materiale a immateriale” è un miscuglio di belle speranze e realtà concrete meno esaltanti. Anche qui si percepiscono segni della crescente attrazione esercitata dalle “esperienze”. Il numero di biglietti venduti per festival musicali e cinematografici è salito alle stelle negli ultimi dieci anni, e lo stesso vale per gli ingressi giornalieri nei centri benessere. Ma ricordiamoci che già nel 1749 più di 12.000 persone si affollarono nei Vauxhall Gardens per assistere alla prova generale della “Musica per i reali fuochi d’artificio” composta da Händel, provocando un ingorgo di carrozze di tre ore sul Ponte di Londra. Il concetto di esperienza è stato un ingrediente essenziale nel gigantesco aumento dei consumi degli ultimi cinquecento anni, dai parchi di divertimenti al cinema muto o agli stadi di calcio. E non è ragionevole pensare che esperienze e possesso di beni siano alternativi tra loro. Chiedetelo a qualsiasi collezionista. Tutta la lunga storia dello shopping, a partire dal XVII secolo, consiste nel trasformare gli acquisti in sensazioni.

 

L’AUMENTO DEI BENI MATERIALI. Oggi la quota dei servizi sull’economia mondiale è la più alta mai raggiunta – oltre il 40% in termini di valore aggiunto, rispetto al 30% registrato nel 2008. Ma questo non significa che il mercato dei beni materiali sia diminuito. A livello complessivo è invece aumentato, solo che l’ha fatto un po’ meno rapidamente di quello dei servizi. Dal 1998, il commercio di prodotti è più che raddoppiato; e se allarghiamo l’orizzonte, gli scambi commerciali, in termini di numero di containers che viaggiano tra Europa e Asia, sono più che quadruplicati rispetto al 1995.

Inoltre molti servizi relativi al tempo libero, ai divertimenti e ad altre forme di “esperienza”
dipendono dall’utilizzo di materiali e risorse naturali. Attraversare una giungla tropicale sospesi a una teleferica può sembrare più virtuoso che comprarsi una borsa di design, ma non si arriva laggiù col teletrasporto. Nel 2007 i cittadini francesi hanno percorso 42 miliardi di chilometri per praticare i loro hobby preferiti, e altri 12 miliardi per andare a mangiare fuori casa: si tratta di un bel consumo in termini di benzina, pneumatici e manto stradale.

L’innamoramento per i servizi digitali che ci ha travolto spesso porta a pensare che essi siano qualcosa di leggero e immateriale. Ma dietro alle comunicazioni virtuali si nasconde un gran numero di cose molto concrete: centrali elettriche, centri di stoccaggio dati, cavi, batterie e sistemi di raffreddamento. Il nostro cellulare e le sue cuffie non potrebbero funzionare senza i lantanoidi. Una Toyota Prius ibrida risparmia benzina, ma ha anche bisogno di circa nove chili di quelle terre rare soltanto per far funzionare la sua batteria. In Francia le tecnologie di informazione e comunicazione pesano già per circa il 15% del consumo totale di energia elettrica.

Nel 1759 il grande filosofo ed economista Adam Smith scriveva, nel suo Teoria dei sentimenti
morali, che la gente spendeva sempre più denaro per “piccole comodità” e “gingilli”, e quindi c’era bisogno di avere nuove tasche negli abiti, per portare con sé un maggior numero di quegli oggettini. Oggi si possono comprare giacche speciali con una dozzina o addirittura una ventina di tasche, per poterci sistemare tablet, telefoni cellulari e altri vari apparecchi digitali.

Se davvero credete di vivere nel bel mezzo di un’era di “dematerializzazione”, aprite i vostri
armadi, cassetti e soffitte e fate qualche conto. Un terzo di tutti gli indumenti contenuti negli
armadi britannici non vengono mai indossati, neanche una volta l’anno. E per continuare, ricordatevi di quanti pochi apparecchi elettronici possedevate negli anni Settanta. Secondo l’organizzazione Energy Saving Trust, nel periodo tra il 1972 e il 2002 tutti i risparmi accumulati grazie a una maggiore efficienza energetica sono stati annullati dal raddoppio del consumo di elettricità dovuto all’aumento del numero di elettrodomestici e al loro maggiore utilizzo. E non stiamo certo parlando di un fenomeno unicamente anglosassone. Contrariamente alle credenze più diffuse, nemmeno gli scandinavi sono particolarmente sobri nei consumi. A Stoccolma, per esempio, nel 2007 la popolazione si è portata a casa il triplo degli elettrodomestici e dei capi di abbigliamento rispetto al 1995. Da allora quel livello si è stabilizzato, ma non è diminuito.

 

UN CAMBIAMENTO RADICALE PER ALLEGGERIRE IL BAGAGLIO ECOLOGICO. Il concetto di “mercato saturo” si basa in parte su statistiche nazionali distorte e insufficienti. Nel Regno Unito, l’Office of National Statistics calcola la quantità di materie prime che vengono utilizzate. Ad esempio, secondo i dati del 2016, il cittadino britannico medio nel 2013 ne ha consumato dieci tonnellate, in calo rispetto alle 15 tonnellate del 2001. Sembrerebbe confortante, ma si tratta di una mera illusione ottica, perché vengono conteggiate solo le materie prime usate nel territorio nazionale. Ovviamente, il paese consuma più minerali e combustibili fossili se si fabbrica un’automobile a Luton usando carbone, ferro e acciaio inglesi, che non importando una macchina fabbricata in Brasile o in Polonia. Il dato che vorremmo davvero conoscere è la quantità di tutti i materiali impiegati nei processi di produzione di tutti i beni e servizi che utilizziamo – che siano o no d’importazione. Quello che è accaduto a partire dagli anni Ottanta è che il Regno Unito ha scaricato oltre confine le conseguenze ambientali dei suoi consumi.

Per quanto riguarda i beni di consumo, il nostro metabolismo è troppo rapido e pericoloso. Ma è troppo facile censurare la gente per l’acquisto di borse di lusso o oggetti “frivoli”. I moralisti lo fanno da secoli, ma nonostante ciò i livelli dei consumi hanno continuato ad aumentare costantemente. Ovviamente, se volete farlo decidete pure di comprare qualche regalo in meno il prossimo Natale, ma non illudetevi che questo servirà a molto. Si tratta di un problema molto più grande del semplice shopping. È il nostro stile di vita nel suo complesso che consuma ogni tipo di risorsa a livelli insostenibili. I consumatori portano sulle spalle un grosso e pesante “bagaglio ecologico”, pieno di tutto ciò che è necessario a mantenere il loro stile di vita – cioè tra i 45.000 e gli 85.000 chili all’anno per persona, a seconda della zona del ricco mondo industrializzato in cui abitano, compresi i divertimenti, i viaggi e le confortevoli case col riscaldamento centralizzato.

È facile lamentarsi dei rischi legati al possesso di beni materiali se lo facciamo da una caverna dotata di aria condizionata. Ciò di cui abbiamo bisogno – e questo riguarda particolarmente le classi medie, grandi consumatrici – è una discussione radicale sul cambiamento del nostro stile di vita. Non è impossibile riuscirci, ed è già stato fatto in passato. In realtà, la storia moderna non è che la multiforme narrazione di successivi cambiamenti del modo di vivere. E raramente quei cambiamenti si sono fondati su scelte individuali: storicamente, i governi e i movimenti sociali vi hanno avuto un ruolo determinante. Non c’è motivo perché non lo abbiano di nuovo.


 

Una versione precedente di questo articolo è apparsa in The Guardian, nel 2017.