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Il 2019 in America Latina: segnali diffusi di frattura

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L’insediamento, sino ad un anno fa impensabile, di Jair Messias Bolsonaro alla presidenza del Brasile cambierà il panorama geopolitico e socioeconomico dell’America Latina. Al di là del Messico – la priorità per gli Stati Uniti per motivi geografici avendo 3mila Km di confine in comune oltre che per una questione ovvia di sicurezza, da cui l’ostinazione di Trump per il muro – è infatti il Brasile che “per dimensioni e risorse” è “il leader naturale della regione” e dunque l’interlocutore principale di Washington, come scritto da George Friedman nel suo libro di scenari futuribili (“The Next 100 Years”), una buona base analitica per analizzare il futuro del mondo secondo la visione statunitense.

Già, perché se la globalizzazione e le sue confuse tendenze, e l’avvento dei social media con annessi influencer non sempre autorevoli confondono le idee di molti che poi perdono la bussola dietro a migliaia di news più o meno fake ma di certo irrilevanti, le priorità dei Paesi che contano al mondo quelle rimangono, perché continuano ad obbedire alle leggi della geografia e dei rapporti di forza. Nel 1823 la dottrina Monroe con lo slogan l’”America agli americani” – inizialmente più una dichiarazione d’intenti visto lo scarso potere militare USA di allora – fu la prima presa di posizione dei neonati Stati Uniti nei confronti del resto del continente. Quella dottrina si consolidò poi con la politica del Big Stick di Theodore Roosevelt e la Dollar Diplomacy di William Taft; studiata allora per puntellare la posizione statunitense contro l’ingerenza delle potenze europee, si declina oggi con il trumpiano “America First“.

Una vignetta dell’Economist sulla politica latinoamericana degli USA e della Cina

 

Tramontata l’Europa coloniale, l’obiettivo attuale di Washington è quello di contenere la Cina e, in seconda battuta, la Russia. La globalizzazione ha infatti fatto sì che negli ultimi 20 anni sullo scenario latinoamericano entrassero nuovi attori, a cominciare proprio da Pechino, accompagnati, dal 1999 in poi, da presidenti apertamente contrari a rafforzare i legami dei loro rispettivi stati con Washington – a tutto vantaggio di Cina, Russia e i loro alleati. Hugo Chávez in Venezuela, Lula in Brasile, Rafael Correa in Ecuador, i Kirchner in Argentina e Evo Morales in Bolivia. La svolta c’è stata: da almeno 5 anni, la Cina ha superato gli Stati Uniti come principale partner commerciale del Brasile, mentre giocando sulla pronuncia è stato coniato il termine ArgenCina, a dimostrazione di come anche Buenos Aires abbia visto scalare a suon di prestiti obbligazionari Pechino nella lista dei suoi creditori. Per non dire del Venezuela di Nicolás Maduro, il successore di Chávez, che oggi deve 80 miliardi di dollari alla Cina.

Insomma, la Guerra Fredda aveva rafforzato il concetto espresso da James Monroe al Congresso USA, dividendo il mondo in aree di influenza ben delimitate e trasformando l’America Latina in un backyard, una sorta di “cortile di casa” di Washington – di cui l’unica eccezione sarebbe diventata la Cuba comunista. Dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e poi la fine della legge del “Washington consensus”, con la quale gli USA condizionavano i rapporti economici all’accettazione delle loro regole, fine coincisa con il default argentino del dicembre 2001, gli scenari in America Latina cominciarono a mutare. Così come le priorità degli Stati Uniti, concentrati dopo l’11 settembre più sulle guerre in Afghanistan e in Iraq che sul backyard latinoamericano.

Con Donald Trump ed il suo “America First” associato al suo altro slogan “Let’s make America great again”, le cose sono cambiate di nuovo; e, a detta degli analisti che si occupano di questa parte di mondo, il trionfo di Bolsonaro rientra in questo “new deal” che coinvolge l’intera regione.

Il 2019 appena iniziato sarà di certo un anno decisivo per capire quale sarà la direzione di questo cambiamento. Si vota in Bolivia, Argentina e Uruguay, dove favoriti dai sondaggi sembrano essere più nomi e schieramenti nuovi che i presidenti uscenti. Il Messico di Andrés Manuel Lopez Obrador, presidente schierato teoricamente contro le teorie economiche liberiste, non avrà le mani libere sull’economia fin quando dovrà gestire la crisi migratoria che attraversa il suo paese, soprattutto se nessuno porrà un freno al flusso, agendo sulle cause dell’esodo invece che sui sintomi.

Ma il 2019 sarà l’anno in cui l’America Latina tornerà al centro dell’attenzione del mondo soprattutto a causa del dramma del Venezuela. Qui il 10 gennaio Nicolás Maduro si è fatto proclamare presidente sino al 2025 (dopo l’ennesima frode elettorale) da una Corte Suprema illegittima e criminale, visto che il suo presidente Maikel Moreno è un ex 007 pluriomicida. Non potendo più cambiare presidente i venezuelani dunque “votano con le gambe”, ovvero fuggono in massa, e questo si sta trasformando in un problema umanitario di dimensioni mai viste prima in Sudamerica. Per capirlo basta guardare le cifre dell’esodo: solo in Colombia ogni settimana entrano una media di 5mila disperati e per l’ONU entro fine 2019 saranno 8 milioni i venezuelani costretti ad emigrare per non morire di fame, più del 25% della popolazione totale.

In Venezuela la comunità internazionale non si è finora decisa ad intervenire, limitandosi ad alleviare i sintomi – ovvero spendendo milioni di dollari per chi fugge – invece di agire sulle cause, ovvero inviare una missione di pace per fare uscire di scena Maduro, che se ne infischia del mancato riconoscimento del suo nuovo ed illegittimo mandato da parte di Unione Europea, USA e di tutti i principali paesi latinoamericani meno il Messico. Se questo atteggiamento non cambierà, il risultato sarà lo stesso di Cuba, ovvero un Paese sotto il giogo di una dittatura per altri 60 anni. A detta dell’ex ambasciatore statunitense presso la OEA, l’Organizzazione degli Stati Americani, il democratico Luis Lauredo, il problema è che “senza un blocco navale – fermando la lobby texana del petrolio che invece continua a comperare greggio venezuelano pagando cash – Maduro non se ne andrà mai, perché sa di non essere con le spalle al muro”.

Il 2019 sarà un anno importante anche per il già citato Messico dove si è do poco insediato il populista di sinistra López Obrador, ma anche per l’Argentina di un sempre più debole Mauricio Macri, che in autunno tenterà la rielezione, anche se l’economia a Buenos Aires è in crisi quasi come nei peggiori momenti della seconda presidenza dell’indagata (per corruzione) Cristina Kirchner.

Dal canto suo la Colombia è centrale nella gestione dell’esodo venezuelano e, a detta degli analisti, presto Ivan Duque dovrà fare qualcosa di più muscolare se non ne vuole essere travolto.

Tornando al Brasile, di certo il trionfo del populista di destra Bolsonaro ha fatto ripartire la borsa di San Paolo, che ha superato quota 94mila punti inanellando una serie di record senza precedenti, oltre a rafforzare il real contro euro e dollaro del 15% in pochi giorni e ad attirare i principali fondi di investimento del pianeta generando un’euforia nel settore immobiliare che non si vedeva da tempo. La previsione è che la festa dei mercati continui sino al 2020, poi dipenderà da come Bolsonaro riuscirà a governare perché, non avendo una maggioranza in Parlamento, sarà per lui gioco forza fare compromessi. Questo potrebbe ritardare le riforme strutturali di cui il paese del samba ha estremamente bisogno, a cominciare da quella delle pensioni.

Oltre che in Argentina, quest’anno si vota anche in Bolivia, dove se rieletto per la quarta di fila Morales arriverà al ventennio al potere, e in Uruguay. Qui il governo di sinistra guidato da Tabaré Vasquez è in crisi a causa dell’ondata di violenza che ha trasformato Montevideo in una città con 15 omicidi ogni 100mila abitanti l’anno. Con la legalizzazione della cannabis, iniziata nel 2013, l’ex presidente Pepe Mujica e tutto il sinistrorso Frente Amplio avevano assicurato che “la violenza sarebbe calata” e che la marijuana di stato avrebbe “tolto potere ai narcos”. Il risultato è stato che oggi la violenza a Montevideo è raddoppiata rispetto a Buenos Aires ed è 5 volte maggiore che a Santiago del Cile. Paradossale che, adesso, il Frente Amplio dica che il boom criminale sia dovuto al narcotraffico e alla crisi economica … del 2002. Dopo avere espulso dal partito il segretario generale dell’OEA, Luis Almagro, solo perché denunciava la dittatura del Venezuela, il partito al potere sta perdendo consensi ed è molto indietro nei sondaggi.

Come in Venezuela, anche in Nicaragua la repressione del presidente Daniel Ortega è aumentata al pari dell’esodo di chi “vota con le gambe”. Gli ultimi giornalisti indipendenti sono stati arrestati e torturati a Managua a fine 2018 dal sandinismo orteguista, nel silenzio quasi assoluto dei media mainstream. Per la prima volta da decenni, infine, si registra invece un malcontento crescente a Cuba, dove il problema della dittatura, al di là del diversivo della modifica costituzionale su cui si voterà a febbraio (un pro forma), è soprattutto dovuto ai giovani che della continuità castrista invocata dal presidente Diaz-Canel ne hanno le tasche piene.

Insomma il 2019 sarà un anno di rottura rispetto al recente passato – quando Cina, Russia e Paesi del Golfo Persico grazie all’alleanza con il cosiddetto socialismo bolivariano avevano scalzato in America Latina la tradizionale predominanza statunitense. Una grande incognita, visti i problemi interni che ha, è vedere se, e con quali tempi e modalità, Trump riuscirà a rafforzare la sua presenza nel cosiddetto “cortile di casa”.