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Brexit: il Regno Unito nel labirinto delle possibilità

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Ciò che è giuridicamente possibile – l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea mediante la procedura dell’Articolo 50 dei Trattati – è economicamente e politicamente realizzabile? Londra sembra rispondere di no. Il voto del 15 gennaio, con cui il parlamento ha bocciato a larga maggioranza (432 contro 202) l’accordo di divorzio siglato tra il governo di Theresa May e Bruxelles, è un passo verso nessuna direzione.

Il ministro Micheal Gove – citando la serie Game of Thrones (“winter is coming”) – ha giustamente notato che in questo modo il Regno Unito si avvicina allo scenario di un’uscita senza accordi dall’Unione Europea: quel no deal che fa tremare le vene ai polsi a molti, e che prevede che tutti i legami economici, regolativi, amministrativi e legali finora stabiliti tra le due sponde della Manica siano recisi di netto da venerdì 29 marzo. Ma, proprio perché si tratta di uno scenario dal sapore dell’irrealtà, il voto di Westminster spinge allo stesso tempo contro quell’eventualità, e a favore invece di qualche futura evoluzione in senso diverso.

I deputati a Westminster in coda per votare sull’accordo tra il governo e Bruxelles. Foto Bill Esterson/Twitter

 

In effetti, l’ambivalenza si ritrova nelle ragioni dei deputati che hanno votato contro l’accordo. Più di un terzo dei parlamentari conservatori ha votato contro il proprio stesso governo perché accusa Theresa May di aver portato a casa un compromesso deludente. I contrari sono per la Brexit, ma non “questa” Brexit. Ne avrebbero voluta una più vantaggiosa per il Regno Unito, una più somigliante alle promesse fatte a chi ha votato per il Leave.

Questa fazione, molto presente tra i Tory (e include anche il partito unionista dell’Ulster DUP), crede che un accordo migliore sarebbe possibile; anche Theresa May ha mostrato di credere a questa possibilità, o ha saputo fingere di crederci, rinviando il voto di un mese, e cercando per tutta la durata delle trattative di ottenere da Bruxelles uno status che concedesse al Regno Unito di restare nel mercato comune senza accettarne tutte le regole. Né nell’ultimo mese, né per tutta la durata delle trattative, però, l’Unione Europea si è mai detta disponibile a questo – un accordo per inciso del tutto contraddittorio con i principi di appartenenza all’Unione, un accordo che segnerebbe la fine politica dell’UE. Allora, ragionano i duri e puri, meglio il no deal: “Abbiamo sconfitto il terrorismo dell’IRA, che paura volete che ci faccia un mucchio di burocrati a Bruxelles?” ha tuonato in parlamento il portavoce del DUP, sintetizzando così questo punto di vista.

Ma contro l’accordo si sono schierati anche tutti i partiti dell’opposizione – partiti che nel 2016 hanno fatto campagna per il Remain – ben contenti di accollare a Theresa May (e al suo partito) il costo politico di una situazione che tutto il paese percepisce come un disastro. L’opposizione, che include gli scozzesi pro-europei dello Scottish National Party, i nazionalisti gallesi, i liberal-democratici e i laburisti, si divide in due correnti. Quella animata dagli eurofili lib-dem e dalla minoranza laburista punta a far saltare la Brexit e a tenere il Regno Unito nell’Unione: una svolta che sarebbe sancita da un nuovo referendum da indire al più presto. Quella guidata dal leader laburista Jeremy Corbyn, invece, non vuole che la società britannica si spacchi un’altra volta su un voto popolare che smorzerebbe lo slancio attuale del partito: Corbyn sa, infatti, che una parte importante del suo elettorato non è per niente disposta a fare battaglie in favore dell’UE.

Lo schema di Jeremy “il rosso” prevede che il disastro della Brexit avvenga tutto sotto il governo conservatore: i Tory dunque ne pagherebbero il prezzo alle successive elezioni. Tornati i laburisti al potere, si potrà ricominciare a discutere con l’Unione Europea su basi completamente nuove. Tuttavia, dopo il voto di ieri Corbyn ha presentato una mozione di sfiducia contro Theresa May: una mossa obbligata, data la sconfitta cocente subita dal governo. Era già chiaro a tutti che la mozione, votata nella serata del 16 gennaio, non aveva speranze di passare: gli stessi conservatori che hanno votato il giorno prima contro il governo, hanno dichiarato il giorno dopo che lo avrebbero appoggiato.

L’idea di elezioni anticipate non piace ai Tory, convinti di perderle, e convinti anche che insistendo ancora la posizione di Bruxelles alla fine si ammorbidirà. E non piace neanche al mondo economico e finanziario britannico, che teme più l’arrivo del radicalismo di Corbyn al governo che l’uscita del paese dalla UE. In entrambi i casi, molti temono che si tratti della stessa allucinazione che ha colpito in passato vari stati europei – non solo la Grecia: quella di essere più importanti di quanto si crede nella geopolitica internazionale.

Perciò, gli operatori finanziari non si sono lasciati andare al panico che qualcuno si aspettava, e che avrebbe aggravato il caos londinese. La calma domina sulla City, mentre la sterlina è addirittura risalita ai livelli più alti degli ultimi due mesi. Alcune banche d’affari hanno detto apertamente che i mercati guardano con più timore al voto di sfiducia di stasera che alla possibilità di una Brexit senza accordo, alla quale non credono.

Al contrario, a Bruxelles regna lo scoramento. La sconfitta della May era attesa, ma non in dimensioni tanto catastrofiche: se infatti il parlamento britannico ha sconfessato l’accordo della primo ministro, allo stesso tempo ha sconfessato anche l’altra delle due parti in causa, quella europea, e la sua idea di Brexit. Nelle istituzioni comunitarie non c’è lo stesso ottimismo degli operatori finanziari britannici: la procedura di uscita parla chiaro, e fissa un termine ormai vicinissimo, il 29 marzo. La prudenza e le procedure, bussole dei funzionari europei, avrebbero voluto che da parte britannica vi si arrivasse preparati, semplicemente perché non c’è un’altra procedura che preveda rinvii, dilazioni o espedienti di qualche tipo. Sì, la pronuncia, lo scorso mese, della Corte di Giustizia apre la porta a un’uscita unilaterale del Regno Unito dalla procedura dell’Articolo 50: ma a Westminster non c’è una maggioranza pronta a questa mossa.

A Bruxelles non c’è d’altronde una leadership politica tanto forte da assumersi la responsabilità di modificare le procedure dei Trattati, per di più dopo una sconfessione così grande del lavoro negoziale di due anni. Mentre il Parlamento e la Commissione sono alla vigilia dello scioglimento, già alle prese con la campagna di un’elezione che si annuncia epocale, i partiti europei stanno comunque valutando l’estensione dell’Articolo 50. “Nel caso, i britannici potrebbero partecipare alle elezioni europee di maggio”, ha aperto il presidente del Parlamento Antonio Tajani, del gruppo popolare. Il capogruppo liberale Guy Verhofstadt ha invece chiarito che “questa possibilità non esiste”. Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione, da parte sua ha ricordato: “L’accordo che è stato bocciato era il migliore possibile. Sono spiacente, ma il tempo scorre”.

 

*testo aggiornato il 17 gennaio.