international analysis and commentary

I confini e le identità multiple dell’Europa

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L’Europa è un continente dai confini impalpabili: la sua dimensione, invece di corrispondere a un territorio ben definito, ha coinciso nei secoli con la proiezione ideologica dei suoi abitanti. Alla domanda “dove arriva l’Europa?” è infatti difficile rispondere con i monti Urali, suo limite geografico (un po’ come nelle saghe alla Lord of the Rings in cui l’orografia diventa mito fondante): gli europei hanno preferito fabbricarsi un loro confine mentale, che coincidesse con l’idea che hanno di sé stessi.

Un confine flessibile – ha ondeggiato nel tempo fino a escluderne e includerne bocconi grandi come la Spagna, i Balcani, la Russia, la Scandinavia, Vicino oriente e nord Africa – tracciato in relazione a quello che non si è. Le negazioni sono state innumerevoli: non appartiene all’Europa chi non ne conosce le lingue, non ne segue le credenze, non ne condivide il senso estetico, della misura, della ragione; chi non è capace di progresso tecnico, rappresentanza politica, difesa dei diritti umani – e via elencando definizioni partorite dal fior fiore dei pensatori di tutte le epoche.

Un atlante dell’Europa pubblicato in Catalogna nel XVI secolo

 

Tuttavia, questa costruzione ideale poggia su una grande contraddizione. È innegabile infatti che la forma umana dell’Europa sia frutto di movimenti, migrazioni, divisioni, aggiunte di popolazioni e culture. Volente o nolente, il continente ha finito per assorbirle: ciò che si intende per identità europea è stato nei fatti un grande incrocio di pluralità, ed è in senso letterale difficilmente definibile come “identità”.

Non è strano che una tale concezione escludente abbia prodotto un nazionalismo pure basato sulla specialità in positivo dei caratteri locali, sulla sacralità dei confini e sul mito della nazione. Ciò ha fatto da cemento, alimentandosene a sua volta, per le vicende coloniali dei vari Paesi. Né si deve credere che questo modo di pensare sia solamente tipico delle illusioni dell’800 e delle tragedie del ‘900: un editoriale di Le Monde del 2002 – nel lodare la Germania riunificata come un paese degno, civile e giusto, concludeva: “finalmente ora, in quasi tutto, siete diventati simili alla Francia” – ne dimostra il radicamento a tutt’oggi.

La discordanza alla base dell’identità europea emerge in particolare durante le congiunture negative. La crisi dei rifugiati – sovrapposta al crescente flusso umano dall’Africa degli ultimi anni – rischia di far naufragare l’Unione Europea e i suoi principi ancor più di quanto fece la crisi finanziaria. Il fatto è che, proprio per l’intricata eredità della storia, il rapporto degli europei con questo fenomeno è traumatico, perché riporta alla luce alcuni dei nodi irrisolti e delle contraddizioni del proprio essere.

È emblematico a questo proposito il diverso atteggiamento con cui i due principali paesi dell’UE, Francia e Germania, si sono posti davanti alla questione. Chi osserva la Francia nota da tempo, con una progressione sempre più rapida, l’affermazione di una corrente nazionalista, isolazionista, protezionista, non solo incarnata dal Front National, ma ben diffusa anche nel resto della società.

Il rapporto della Francia con il suo passato imperialista e con le persone di origine straniera che vivono sul suo territorio (e provengono quasi sempre dalle ex colonie) è tutt’altro che positivo, e ha un effetto vivissimo sulla politica. Un esempio viene dalla mancata integrazione delle grandi banlieue e dei suoi abitanti, che origina periodiche sommosse ed emarginazione. Nell’ottobre 2005 Nicolas Sarkozy, da ministro dell’Interno, si recò in una delle periferie allora in rivolta e scambiando due parole con un’anziana del quartiere chiamò “feccia […] da spazzare con l’idropulitrice” i giovani ribelli di origine magrebina, prima di lanciare una formidabile operazione di polizia, con tanto di poteri speciali e stato d’eccezione. Un anno e mezzo dopo era eletto Presidente della Repubblica.

Il 2005 fu anche l’anno in cui i francesi bocciarono via referendum la “costituzione europea” con un netto ‘No’ (54,7%). Nel 2012, lo slogan della campagna presidenziale con cui Sarkozy rimontò dieci punti al suo avversario François Hollande (pur perdendo di misura) era la France forte – mentre pochi mesi dopo Angela Merkel veniva rieletta in Germania nel nome di una “Europa forte”.

Il presidente socialista, dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre, commessi da cittadini francesi e belgi di origine araba e affiliati all’ISIS, ha compiuto un ulteriore passo. Tra i pilastri del nuovo apparato legislativo approvato ad hoc c’è la revoca della nazionalità francese anche a chi è nato in Francia (se provvisto di altra nazionalità), se collegato ad atti o organizzazioni terroriste che minacciano la sicurezza del paese. Si tratta di un provvedimento che non venne usato contro il terrorismo “casalingo” (BR, RAF, ETA, IRA), né Spagna e Regno Unito vi ricorsero quando Al-Qaida nel 2004-05 colpì Madrid e Londra.

La revoca della nazionalità, cioè la negazione di un diritto acquisito con la nascita, è però coerente con la concezione esclusiva dell’identità nazionale. Diffusa in passato, la gestione del diritto di cittadinanza secondo una scala di valori stabilita a priori fu poi gradualmente eliminata perché ritenuta lesiva dei diritti individuali. Tra gli ultimi a esserne vittima, in Francia nel 1940, fu il generale Charles de Gaulle: il governo filonazista di Vichy, a causa della sua diserzione, gli tolse la nazionalità con lo stesso provvedimento.

Davvero diverso il rapporto con nazionalismo e immigrazione della Germania – paese privo di una significativa eredità colonialista. Nell’inatteso boom del dopoguerra, la Germania occidentale si ritrovò senza manodopera sufficiente: si accordò allora con alcuni stati mediterranei perché fornissero dei lavoratori alle sue industrie. All’inizio non fu certo una convivenza esemplare: gli immigrati avevano uno status transitorio già per definizione – Gastarbeiter, “lavoratori ospiti” -, abitavano in baracche sorvegliate e restavano distaccati dal resto della società. Dei 14 milioni di italiani, turchi, spagnoli, yugoslavi arrivati dal 1955 al 1973 (anno della crisi petrolifera, che bloccò i flussi), solo tre milioni rimasero. Tuttavia dagli anni ’80 in poi vennero cambiate in senso liberale le leggi sui ricongiungimenti, sull’integrazione e sulla cittadinanza, includendo tutte le parti sociali nel relativo dibattito. Anche la Germania orientale cercò lavoratori dall’estero; ma le autorità dell’ex DDR tennero i circa 200.000 venuti da altri paesi socialisti – soprattutto Vietnam – sempre rigorosamente separati dal corpo sociale locale.

La Germania di oggi sembra dunque meglio attrezzata ai processi di segno opposto che percorrono l’Europa, nazionalismo e migrazioni. Tra i motivi c’è anche il particolare impianto dello stato tedesco occidentale post-nazista, che sfugge ai principi dell’identità escludente, superandoli (per ora?) in sede legislativa e politica. Conta poi l’esperienza del ritorno dei 9 milioni di rifugiati tedeschi dai territori persi dopo l’ultima guerra: uno degli eventi fondativi della nuova Germania.

Tutto questo ha reso possibile la politica di Angela Merkel sui rifugiati. In dicembre le autorità tedesche hanno registrato la milionesima richiesta d’asilo del 2015: quale altro paese europeo potrebbe permetterselo? Naturalmente, la Germania non è il paradiso dell’accoglienza e dell’integrazione. Le marce del gruppo Pegida (“patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente”) sono tornate ad affollarsi, in particolare proprio nelle zone dell’ex DDR, dopo le aggressioni di capodanno a Colonia. E sono in molti a non condividere le scelte della Cancelliera.

Comunque, sono lontani i tempi in cui il filosofo Herder (1787) proclamava che il loro spirito interiore (Volksgeist) faceva dei tedeschi i guardiani universali dell’Europa contro i barbari nemici esterni. Non bisogna però spostarsi troppo per ritrovare la stessa visione. Viktor Orban, giustificando il muro anti-rifugiati costruito pochi mesi fa sui confini meridionali del suo paese, dichiarava: “l’Ungheria, come settecento anni fa quando resistemmo alle orde turche, si assume nuovamente il dovere storico di difendere l’Europa”. In molti, nelle altre capitali, lo hanno forse guardato con una certa invidia.