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Il percorso del Portogallo e i limiti dell’integrazione europea

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Il 2015 si è chiuso con una grande novità per il Portogallo, una novità che riguarda in un modo o nell’altro gran parte dell’Europa “mediterranea”: il 24 novembre, più di un mese dopo le elezioni politiche, Antonio Costa veniva nominato Primo Ministro dal Presidente della Repubblica Aníbal Cavaco Silva. Per la prima volta dal 1976 i partiti della sinistra radicale – Partido Comunista Português (PCP) e Bloco de Esquerda (BE) – diventavano, insieme al Partido socialista (PS), parte di una maggioranza di governo.

 

Ci sono alcune analogie tra questo evento e il “compromesso storico” italiano degli anni ’70 del secolo scorso. L’accordo siglato dai partiti portoghesi ha infatti una portata profonda, in un sistema che già dalla fine della dittatura di Salazar si era consolidato attorno alla rottura netta tra il PCP di Alvaro Cunhal e il PS di Mario Soares. Ora, come nell’Italia degli anni ’70, l’obiettivo è sbloccare la ripetitività sterile di un’alternanza – quella tra centro-destra e centro-sinistra – di cui la cittadinanza è insoddisfatta. E’ quindi un tentativo di contrastare la profonda crisi di legittimità del regime democratico.

L’isolamento del PCP risale agli anni dell’eurocomunismo – la proposta politica dei comunisti italiani, francesi e spagnoli, lontana dal leninismo sovietico pur senza abbracciare la socialdemocrazia europea – che Cunhal non approvava. I tentennamenti del PCP rispetto al nascente regime democratico generavano non poche inquietudini: da una parte gli Stati Uniti, convinti che senza un intervento deciso la sovietizzazione del paese fosse inevitabile, e dall’altro le cancellerie europee che invece temevano un possibile golpe controrivoluzionario. Le perplessità non erano poche neanche all’interno della famiglia comunista dell’Europa occidentale. Enrico Berlinguer, allora segretario del Partito comunista italiano, era preoccupato dalle conseguenze che le decisioni di Cunhal avrebbero potuto avere sul percorso di normalizzazione che proprio allora stava intraprendendo il Pci. Da questo punto di vista, le elezioni del 1975, e poi il processo di integrazione europea che portò il paese all’adesione alla CEE nel 1986, contribuirono molto a stemperare le tensioni.

Il parallelismo tra Italia e Portogallo non riguarda solo i processi di innovazione politica e avvicinamento tra forze differenti (PCI/DC e PS/PCP). Oggi in Portogallo, come allora in Italia, la necessità di allargare le basi del consenso è dettata anche da una grave crisi economica e sociale. Il passaggio tra il 2008 e il 2011, con l’intervento della Troika a imporre le regole dell’austerity, ha alterato lo spirito che animava il paese fin dalla Rivoluzione dei Garofani del 1974, rafforzato dall’entrata nella CEE nel 1986. La democrazia portoghese infatti non è stata più in grado di mantenere il tradizionale impegno di integrare il paese all’Europa – anche dal punto di vista degli standard di vita.

Le politiche di contenimento del bilancio in realtà cominciano già dalla fine degli anni Novanta ma è con il 2011 che le proporzioni si fanno consistenti. L’Europa smette di essere generosa – dal 1986 erano arrivati 80 miliardi in fondi strutturali – e comincia a chiedere sacrifici dolorosi. A gestire i 4 anni più complessi della storia recente del Paese c’è il centrodestra (PSD) di Pedro Passos Coelho, che applica alla lettera il Memorandum siglato tra Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Unione europea.

Gli ultimi 5 anni, cioè fino alla nomina del nuovo governo lo scorso novembre,  i rapporti tra Lisbona e Bruxelles si sono caratterizzati per una profonda identità di vedute. Non va infatti dimenticato che  a guidare la  Commissione c’era un ex primo ministro di marca PSD: José Manuel Durão Barroso (2002-2004). Ma non solo. La concomitante instabilità greca ha svolto un ruolo pedagogico fondamentale nella costruzione della retorica dell’alunno “buono”: quello cioè che, seguendo con diligenza tutte le regole, recuperava infine la perduta sovranità. E infatti sia a Bruxelles che a Parigi e Berlino il “caso portoghese” era celebrato come un successo della Troika tanto che nel 2014, come prescritto dal Memorandum, il paese ritornava a finanziare il suo debito direttamente sui mercati (anche se con l’aiuto indiretto della BCE).

Tra il 2011 e il 2013 in Portogallo vengono tagliati stipendi, giorni di ferie e welfare state; aumenta la povertà e cresce il debito pubblico. È solo a partire dal 2013 che segnali di ripresa si affacciano all’orizzonte. Non abbastanza, però, per riavvicinare i cittadini alle istituzioni: nell’opinione pubblica le illusioni di miglioramento del recente passato si trasformano in disillusione e disaffezione. La fiducia nei confronti dell’UE precipita, passando dal 64% del 2007 al 26% nel 2013, così come quella nei confronti di tutte le istituzioni della democrazia rappresentativa; l’affluenza al voto è scesa in maniera costante, fino al 48% delle presidenziali dello scorso 24 gennaio.

Non solo disaffezione però, perché tra il 2011 e il 2013 si scatena la più intensa ondata di protesta dal periodo del biennio rivoluzionario 1974-1976. Sul modello delle primavere arabe, il movimento degli indignati, organizzato in modo fluido attraverso i social network riesce a portare per le strade milioni di persone. Alla base delle mobilitazioni, istanze economico-sociali, ma anche un senso di abbandono manifestato dalla cosiddetta geração a rasca, generazione persa. La piattaforma è chiaramente anti-partitica: organizzazione dal basso e rifiuto di darsi ogni leadership.

Fino a questo punto il percorso portoghese e quello spagnolo seguono schemi simili: governo socialista (Socrates – Zapatero), crisi economica, elezioni, governi di centro-destra (Passos Coelho – Rajoy) e, infine, indignati in piazza. Ma l’evoluzione del sistema è dissimile, perché nella parte lusitana della penisola iberica non nascono nuove formazioni capaci di farsi interpreti della crisi di rappresentanza: la conformazione partitica rimane sostanzialmente inalterata dal 1976.

Due le ipotesi che possono spiegare questa divergenza: al contrario della Spagna, il Portogallo è un paese omogeneo -i suoi confini metropolitani sono inalterati da ottocento anni. Non ci sono minoranze linguistiche di rilievo né, quindi, forti autonomismie, anche nel caso dell’arcipelago di Madeira, dove qualche tensione è esistita, il senso di appartenenza alla comunità lusitana è comunque molto saldo. La seconda ipotesi, in parte complementare alla prima, è legata al fatto che, grazie all’assenza di fratture, i partiti sono in grado di mantenere un controllo sulla società sufficiente da impedire l’emergere di nuovi sfidanti. In sostanza, mentre in Spagna lo scontento si trasforma in strategie di “voice”, cioè si vota per partiti alternativi a quelli storici (Podemos e Ciudadanos), in Portogallo la popolazione si rifugia nell’astensione; nella dicotomia tra partecipazione attiva e atteggiamento passivo identificata dall’economista tedesco Albert Hirschman in relazione al comportamento di un’opinione pubblica scontenta delle proprie istituzioni, sceglie la via dell'”exit”.

Non è detto tuttavia che gli equilibri debbano mantenersi stabili – pur nella nuova soluzione del governo di António Costa – e che prima o poi qualche partito o movimento non riesca a scardinare l’assetto attuale. Qualche incrinatura nel sistema democratico-rappresentativo è comunque emersa dal voto presidenziale del 24 gennaio che ha eletto Marcelo Rebelo de Sousa.

Non tanto, o non solo, nell’alta astensione, ma anche nella retorica alla base della campagna. Il neo eletto presidente della Repubblica, (52% dei consensi) è un ex-alto dirigente del PSD e ha fatto della sua indipendenza dal centro-destra uno dei punti dirimenti della sua campagna. Il secondo classificato (22%), António Sampaio da Nóvoa è professore universitario di area socialista, ma di fatto slegato da rapporti diretti con il PS. Insomma è evidente che l’endorsement partitico è stato considerato dai principali candidati non come una risorsa, ma come un handicap.

Pur nelle differenze, soprattutto con la Grecia, la crisi politica portoghese deve essere compresa nel contesto di un più generale disagio di quei paesi dell’Europa del Sud democratizzatisi a metà degli anni Settanta (Portogallo 1974, Grecia, 1974, Spagna 1975). I bailout, piani esterni di salvataggio dei debiti sovrani, sono una chiara testimonianza di come l’incapacità di far fronte da soli al proprio debito pubblico non sia da considerare una mera difficoltà contabile. Deve invece essere allargata a un intero modo di pensare allo sviluppo e al rapporto tra economia e sistema politico, così come sono andati elaborandosi oramai quarant’anni fa.